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16 maggio, 2021

Rolando Rivi: testimone della talare insanguinata

 

La storiografia contemporanea sta sempre più scoprendo i fatti di sangue che nell’immediato dopoguerra italiano interessarono preti e seminaristi per mano di partigiani comunisti. Fra essi edifica e commuove la figura del giovane Rolando Rivi, individuato, rapito e poi ucciso per quella talare che amava e gli richiamava la veste inconsunta di Cristo e il suo impegno d’imitarlo e celebrarlo una volta diventato sacerdote.

 

In Emilia, nella chiesetta di Visignolo di Baiso, sulle prime alture dell’Appennino, in un grande quadro con il crocifisso attorniato di santi, si nota la presenza di un seminarista con la veste e il cappello da prete.

Lo fece dipingere circa trent’anni fa il parroco, convinto che quel giovane aspirante al sacerdozio sarebbe diventato prima o poi un santo canonizzato.

Colpisce il suo viso pulito, il suo sguardo profondo. Si tratta del seminarista Rolando Rivi, una delle vittime che nell’immediato dopoguerra, a pochi chilometri da quel luogo, caddero a causa della furia omicida dei partigiani comunisti.

La storia, fino a pochi anni fa, ne ha parlato con reticenza, ma è innegabile che la terra emiliana fu particolarmente irrorata dal sangue di preti e seminaristi che in quel periodo furono vittime di una persecuzione in odio a Cristo e alla Chiesa.

Poche settimane prima della sua uccisione, un partigiano  appostato nel paese di Rolando ed armato fino ai denti, disse apertamente: “I fascisti e i tedeschi ormai sono alla fine… La nostra lotta deve essere fatta ora contro  i padroni, contro i ricchi e certi preti… Questi sono adesso i nostri nemici”.

L’odio che aveva dilagato durante la guerra, continuava ad accecare le menti e seminare morte innocente attraverso l’ideologia della lotta di classe e la rivoluzione proletaria operata da un gruppo di uomini violenti che saranno celebrati ancora alcuni decenni dopo, persino nei libri di scuola, come liberatori ed eroi nazionali.

Rolando Rivi fu rapito, torturato e ucciso per la sua fedeltà all’abito talare che suscitava stizza nei partigiani e lo riteneva facilmente individuabile e vulnerabile.

Vollero mettere a tacere un futuro prete, ma la muta eloquenza del suo martirio è diventata predica più forte della morte.

Rolando Rivi nacque a San Valentino di Reggio Emilia il 7 gennaio 1931 da Roberto ed Albertina Canovi, agricoltori umili e ricchi di fede. Fu battezzato il giorno seguente e gli venne aggiunto anche il nome di Maria, poiché al termine del rito fu affidato alla Madonna.

Dopo la trasmissione della vita fisica, la vita soprannaturale attraverso il battesimo,  fu il dono più grande dei suoi genitori. Si trattava di gente semplice, ma animata da un senso corretto della dottrina cristiana e una fede viva che riconosce il peccato originale con le sue conseguenze, ma anche la giustificazione e la grazia santificante attraverso il battesimo.

I parroci di San Valentino, don Luigi Jemmi prima e don Olinto Marzocchini poi, ebbero il merito di formare alla dottrina e alla pietà cristiana generazioni di parrocchiani.

Il loro apostolato fecondo era alimentato da una ricca vita interiore trasparente e percettibile anche agli occhi di un bambino.

Rolando infatti era affascinato dal suo parroco don Olinto: “Che bello - pensava - diventare come lui! Celebrare la Messa con Gesù tra le mani, portare le anime a Gesù…”.

Vedeva il suo farsi tutto a tutti per guidare il suo gregge alla vita cristiana; l’impegno costante per l’Azione Cattolica con le adunanze settimanali ben distribuite nei giorni per favorire la partecipazione delle diverse categorie; la sua presenza tra i ragazzi e i giovani che chiamava a un’intensa vita di preghiera eucaristica e mariana; il suo catechismo agli adulti ogni domenica pomeriggio, assai frequentato; la carità che esercitava verso i poveri; la sua disponibilità continua a confessare e a dirigere le anime, a visitare i malati; la sua preghiera prolungata presso il tabernacolo da dove, anche a tarda ora, vegliava e pregava per i suoi parrocchiani, specie quelli sul fronte o caduti in guerra.

Il momento più bello della sua infanzia - ricorderà Rolando - era quando poteva assistere alla S. Messa come chierichetto. Era colpito dalle parole del sacerdote. Omelie brevi ma che andavano dritto al cuore, messaggi che interpellavano, interrogavano e facevano riflettere sul senso dell’esistenza e sul destino eterno.

“Sacerdos propter Eucaristiam” (il sacerdote è tale per l’Eucarestia).

Rolando si domandava: “Perché non posso diventare anch’io come lui?”.

Appena undicenne quindi entrò nel seminario diocesano di Marola. Era il 26 ottobre del 1942. Quello stesso giorno, come allora si  usava, il ragazzo vestì con gioia l’abito talare.

Guidato dal direttore spirituale don Alfredo Castagnetti affidò la sua nuova vita alla Madonna nell’ottobre dedicato alla preghiera del rosario. Proprio in quell’anno ricorreva il 25° anniversario delle apparizioni della Madonna a Fatima (1917-1942).

Il rettore mons. Luigi Bronzoni, prete colto, autorevole e paterno, insegnava più con la vita che con le parole offrendo un salutare esempio di amore verso Dio e verso ciascuno dei ragazzi affidati alle sue cure.

All’approssimarsi del periodo estivo, spiegava che in vacanza i seminaristi avrebbero dovuto non solo guardarsi dai compagni cattivi e dalle occasioni di peccato, ma ancora di più distinguersi dagli altri nella preghiera e nel servizio in parrocchia, nello studio e nella purezza, nelle opere buone e nella dedizione al Signore.

“Anche in vacanza - aveva raccomandato -  il seminarista porta sempre l’abito talare, segno della nostra appartenenza a Gesù”.

Rolando incoraggiava i compagni dicendo: “Saremo sacerdoti un giorno con l’aiuto del Signore. Io andrò missionario. Andrò a far conoscere Gesù a quelli che non lo conoscono ancora. Il nostro dovere di sacerdoti è quello di pregare molto e salvare tante anime e portarle in Paradiso”.

Il papà lo considerava con commozione e fierezza: “il mio pretino tanto buono e studioso”.

Rolando anche nei giorni di vacanza dei caldi mesi estivi portava con orgoglio la veste nera con il colletto bianco. Qualche suo compagno, solito a togliersi per comodità l’abito da prete e anche qualcuno dei suoi familiari gli dicevano: “Sei in vacanza togliti la veste! Sei più libero di muoverti, di giocare …” Lui rispondeva: “Non devo lasciare il mio abito, non posso. E’ il segno che io sono di Gesù!”

La veste talare non creava per lui una barriera umana o sociale nelle relazioni con gli altri né tanto meno un impedimento allo svolgimento di ogni attività, anche ricreativa. Il seminarista Rolando Rivi era sempre un trascinatore. Testimonia un compagno di seminario, ora sacerdote e parroco, don Vezzosi: “Rolando era vivace e svelto in tutti i giochi: a pallone, a pallavolo, Campione della classe, della camerata. Attentissimo a scuola, studioso esemplare, innamoratissimo di Gesù. Tutto in lui era superlativo. Si stava volentieri con lui; contagiava gioia e ottimismo. Era l’immagine perfetta del ragazzo santo, ricco di ogni virtù portata, nella vita quotidiana, all’eroismo”.

Dopo aver “incantato” i ragazzi del paese con la sua abilità e conquistati con il suo ascendente, faceva la proposta: “ora andiamo a pregare Gesù in chiesa”. Li trascinava davanti all’altare e insegnava loro a trattenersi con Gesù, il loro più grande Amico.

Tutti sapevano quanto fosse affezionato al suo abito da prete. Lo indossava sempre.

Così per le strade di San Valentino tutti lo vedevano passare, spesso diretto alla chiesa, solo o con altri ragazzi, sereno, sorridente, pronto al saluto, sempre con il suo abito austero.

La sua vita, tuttavia, non fu solo gaiezza e spensieratezza. Alle sue vicende familiari e personali faceva da sfondo la Grande Guerra nella quale gli morirono tre zii. Fu lui che più di ogni altro consolò il cuore della nonna, affranta per la perdita dei figli.

Altre sorprese spiacevoli si profilavano all’orizzonte… Nel settembre 1944 il seminario fu occupato da un centinaio di soldati tedeschi. I seminaristi dovettero sfollare e tornare a casa.

Rolando Rivi, come i suoi amici, dovette tornare in famiglia a San Valentino, ma portò con sé i libri  proponendosi di studiare italiano, latino e matematica per non perdere tempo in attesa di tempi migliori.

A casa continuò  a sentirsi seminarista. Buttato nel mondo, come un fuscello nella bufera, la sua gioia erano la Messa quotidiana con la Comunione, la meditazione, la visita pomeridiana a Gesù Eucaristico, il rosario alla Madonna. Il luogo prediletto era sempre la casa parrocchiale. Oltre allo sport, altra grande sua passione era la musica. Quando poteva posare le mani sulla tastiera dell’harmonium, quasi si estasiava a suonare.

Malgrado quel periodo di prova si mostrava sereno e sapeva essere anche allegro. Mai si era chiuso in se stesso negli anni in seminario, ma, sempre vivace, si rivelava mite e socievole, così che si stava bene con lui. Era talmente simpatico che tutti si fermavano a parlargli. Riprese i contatti con i bambini, con i coetanei. In casa alla sera, guidava lui la preghiera, il rosario, accanto alla nonna Anna.

Ai bambini, ai cuginetti, anche solo di cinque, sei anni, insegnava a servire la Messa e giocava con i più piccoli, per diffondere serenità nei giorni più tristi.

Rolando si sentiva molto sicuro nel suo ruolo per così dire di tutore nei confronti dei giovani.

La vita di San Valentino trascorse abbastanza tranquilla fino all’estate del 1944. Poi iniziarono scorribande di tedeschi, di fascisti e di partigiani. Si ebbero ruberie, razzie, fatti spiacevoli e violenze anche contro i sacerdoti.

Il sacerdote, servo del Vangelo, era diventato veramente il segno di contraddizione prima, durante e dopo la guerra. Chiunque negava l’amore, se la prendeva con questo testimone di Cristo.

Diventava pertanto sempre più forte l’odio contro i preti che operavano per la pacificazione degli animi e denunciavano le violenze, da qualunque parte venissero compiute. I preti uccisi e quelli che si volevano eliminare erano veri amici del popolo. Nei momenti più oscuri, davanti al bisogno di pane, di protezione, di lavoro e di aiuto, essi sapevano offrire tutto, anche privandosi di persona. Ma il sistema di “percuotere il pastore per disperdere i gregge” (Zc 13,7) è proprio dei nemici di Dio in qualsiasi paese e di qualsiasi colore, come la storia dimostra.

Rolando sperimentò questo clima, quando gli capitò di essere deriso dai partigiani comunisti che scorrazzavano per le colline.

Ricorda oggi un suo amico: “I partigiani comunisti, quando ci incontravano per strada, lanciavano nei nostri confronti frasi oscene con minacce per il futuro non certo rassicuranti”.

Rolando sentiva tutto e soffriva senza lasciarsi intimidire da nessuno, fiero d’appartenere a Gesù e di essere un prescelto da Lui per una grande missione.

Continuò ad essere il ragazzo buono e socievole verso tutti. Nella sua semplicità credeva nella bontà degli altri parendogli impossibile che qualcuno potesse fare davvero del male.

A san Valentino fu preso di mira il parroco don Marzocchini che tanto ispirò la vocazione di Rolando. Una mattina d’estate si venne a sapere che durante la notte precedente l’avevano aggredito e umiliato. Gli avevano portato via tutto, comprese le scarpe che aveva ai piedi.

Durante la S. Messa, celebrata dopo la brutale aggressione, don Olinto si sentì male: Rolando e l’altro chierichetto che servivano all’altare capirono che qualcosa di grave era successo. Quando Rolando lo seppe chiaramente, pianse come per un’offesa fatta al proprio padre.

Non disse parole di odio verso i partigiani.

Don Olinto Marzocchini intanto fu fatto riparare in luogo più sicuro. Per assicurare il servizio sacerdotale arrivò in paese un giovane prete venticinquenne: don Alberto Camellini.

Ancora oggi racconta: “Si viveva un’atmosfera di paura e di tensione che rendeva spesso difficili i rapporti tra la gente. Per conoscere luoghi e parrocchiani mi facevo accompagnare nelle visite da alcuni seminaristi tra cui Rolando Rivi”.

Il seminarista ne profittò per spiegargli bene chi era e i suoi progetti per l’avvenire (… sarò prete e missionario) per rivelargli il suo cuore, il suo amore a Gesù e alla Chiesa e anche il suo stile vivace, a volte estroso, le sue doti musicali. Don Alberto prese a conoscerlo e ad apprezzarlo.

Tutti vedevano passare per la strada il giovane seminarista, tutti conoscevano il suo stile di vita, indicato come “il pretino”.  I genitori gli dicevano: “Togliti la veste nera. Non portarla per ora…”. Gli fecero notare che forse era conveniente farlo in quei momenti così insicuri.

Ma Rolando rispondeva: “Ma perché, che male faccio a portarla? Non ho motivo di togliermela. Io studio da prete e la veste è segno che io sono di Gesù”.

 Di Gesù, di Gesù solo, Rolando voleva essere tutti i giorni, tutti gli istanti della sua esistenza.

“Gesù della mia vita”. Gesù del mio cuore”, scriveva. Per Gesù era pronto a qualsiasi cosa: non solo a perdere la faccia, ma anche al sacrificio.

Certo quella veste richiamo al Dio eterno e a Cristo che salva e giudica irritava quelli che non volevano saperne. Irrita anche oggi: costringe a pensare a Qualcuno più facile da bestemmiare che da dimenticare.

Nonostante il rischio, Rolando non volle togliersi mai quell’abito che per lui significava già un impegno per tutta la vita.

Affezionatissimo alla talare, riteneva onore e gloria indossarla sempre senza lasciarla mai, come una dichiarazione d’amore e d’appartenenza.

 Intuiva cosa significasse prepararsi al sacerdozio in quel clima, ad essere prete un domani in un ambiente simile. Ma non si scoraggiò, né si chiuse in casa: mai impaurito, sempre sereno e presente nel paese, con il suo abito ben visibile, il suo inconfondibile stile, con la sua identità sempre chiara, il gusto di una missione da compiere, diremmo noi oggi. In quel clima tremendo nonostante tutto continuava a portare la veste talare.

Diceva: “No, non posso, non devo togliermi la veste. Io non ho paura, io sono fiero di portarla. Non posso nascondermi, io sono del Signore”.

Aveva solo 14 anni, poco più di un bambino, ma mai si era mimetizzato né aveva nascosto la sua chiara identità d’aspirante appassionato al sacerdozio. Continuava ad indossare la veste nera e spesso il cappello da prete.

In maniera istintiva era consapevole che la mimetizzazione mortifica la pastorale che si avvale di segni e di simboli, ma anche di gesti concreti.

Ieri come oggi l’abito ecclesiastico non lascia indifferenti chi lo porta e chi lo vede.

Può essere odiato, non in se stesso, ma per una realtà più profonda alla quale richiama, per molti scomoda.

Può essere dismesso per le esigenze che esso comporta a chi lo porta come rivelatore di coerenza di impegni assunti davanti a Dio e davanti agli uomini.

In tutti, però, se non ammirazione suscita rispetto perché soprattutto in ambienti ostili al cristianesimo mostra che chi lo usa serve una realtà nella quale crede piuttosto che servirsi d’essa.

Racconta Mons. Giuseppe Mora: “Spesso in paese scoppiavano dispute alle quali non era facile rispondere. Era più conveniente tacere. Capitò che in una discussione alcuni attaccarono ingiustamente la Chiesa e l’attività dei sacerdoti. Rolando difese a fronte alta Gesù, il Papa, la chiesa e i sacerdoti, senza paura alcuna”.

 Allo stesso modo difendeva il parroco don Marzocchini dalle calunnie dei partigiani comunisti.
Era conosciuto per la sua fede e il suo coraggio, era ammirato, ma anche da taluni malvisto perché aveva apertamente dimostrato che voleva diventare prete.

Il Giovedì Santo del 1945 scrisse: “Grazie Gesù perché ci hai donato te stesso nell’Ostia Santa e rimani sempre con noi… Aiutami a ritornare presto in seminario e diventare sacerdote…”

Il Venerdì, baciando il Crocifisso, ha ripetuto l’offerta al suo grande Amico: “Tutta la mia vita per Te, o Gesù, per amarti e farti amare”.

Il 10 aprile 1945, martedì dopo la Domenica in Albis, al mattino presto è già in chiesa.

Esce contento perché ha già ricevuto l’Eucarestia. Non sa ancora che sarà per lui il Viatico.

Torna a casa, libri sottobraccio va al boschetto a studiare. Indossa come sempre la talare.

A mezzogiorno, non vedendolo rientrare, i genitori lo cercano. Tra i libri trovano un biglietto:

NON CERCATELO, VIENE UN MOMENTO CON NOI. I PARTIGIANI.

Il papà e il curato don Camellini lo cercano dappertutto.

I partigiani lo hanno portato alla loro base sull’Appennino Emiliano. Lo spogliano della veste talare che li irrita troppo. Lo insultano, lo percuotono con la cinghia sulle gambe, lo schiaffeggiano. Adesso hanno davanti un ragazzino coperto di lividi, piangente. Così era stato fatto un giorno a Gesù. Per tre giorni Rolando rimane nelle mani di quegli uomini senza Dio.

Una valanga melmosa di bestemmie contro Cristo, insulti contro la chiesa e il sacerdozio, di scherni volgari si abbatte su di lui, povero piccolo. Quindi, l’orrore della flagellazione sul suo corpo puro di ragazzo. E’ la sua Via Crucis.

Rolando innocente, piange e geme come un agnello condotto al macello, prega nel suo cuore e chiede pietà. Tuttavia nella sua anima posseduta da Cristo è forte e sereno. Qualcuno si commuove e propone di lasciarlo andare perché è soltanto un ragazzo e non c’è motivo o pretesto per ucciderlo.

Ma altri si rifiutano: “Taci o farai anche tu la stessa fine”. Prevale l’odio al prete, all’abito che lo rappresenta. Decidono di ucciderlo:”Avremo domani un prete in meno!”.

 Scende la sera ormai, lo portano sanguinante in un bosco presso Piane di Monchio (Modena).

Davanti alla fossa già scavata Rolando comprende tutto. Singhiozza, implora di essere risparmiato. Gli viene risposto con un calcio. Allora dice: “Voglio pregare per la mia mamma e per il mio papà”.

S’inginocchia sull’orlo della fossa e prega per sé, per i suoi cari, forse per i suoi stessi uccisori. Due scariche di rivoltella lo rotolano a terra nel suo sangue. Un ultimo pensiero, un ultimo palpito del cuore per Gesù, perdutamente amato… poi la fine.

I partigiani lo coprono con poche palate di terra e di foglie secche.

La veste da prete diventa un pallone da calciare, poi sarà appesa come “trofeo da guerra” sotto il porticato di una casa vicina.

Era il 13 aprile 1945 ricorrenza del giovane martire sant’Ermenegildo (+ 585 d.C.), venerdì come quello in cui Gesù si immolò sulla croce. Rolando aveva quattordici anni e tre mesi.

Rolando Maria Rivi con la vita, la parola e perfino il suo sangue aveva proclamato: “Quanto ho di più caro al mondo è Cristo”.

In quei giorni di sangue Alberto Camellini si recò a Reggio dal vescovo diocesano mons. Eduardo Brettoni.

Il vescovo era malato, a letto, affranto dall’età e dal dolore per l’uccisione di una decina dei suoi preti. Il 19 aprile era stato ucciso don Giuseppe Jemmi, viceparroco a Felina. Mons. Brettoni ascoltò; poi scoppiò in un pianto inconsolabile ed esclamò tra i singhiozzi: “Adesso mi ammazzano anche seminaristi!”

Pio XII il 19 marzo 1958 rivolgendosi a centomila giovani dell’Azione Cattolica, in piazza San Pietro a Roma, disse: “La terra bagnata di lacrime sorriderà con perle di amore e irrorata con il sangue dei martiri farà germogliare i cristiani… Dopo uno degli inverni più lunghi e più crudi, verrà una primavera che precede una delle estati più ricche e luminose”.

I Partigiani che odiavano la Chiesa e i preti pensavano che per Rolando tutto fosse finito con due colpi di rivoltella e poche badilate di terra sul suo corpo martoriato nel buio del bosco di Piane di Monchio.

Invece tutto comincia ora.

Giovanni Paolo II il 23 settembre 1990 a Ferrara, parlando dei sacerdoti e dei seminaristi martiri disse: “ Torturati e straziati hanno ricalcato le orme degli antichi testimoni della fede … Una parola voglio dire ai giovani che si preparano al sacerdozio: è necessario coltivare in se stessi un amore sincero e profondo a Cristo ed ai fratelli. É necessario disporre il proprio cuore alla donazione totale”.

É il messaggio di Rolando che come seme vivente porta frutto e si sta realizzando.

Rolando Rivi visse solo 14 anni. Visse solo per farsi prete, per salire l’altare e offrirvi l santo Sacrificio della Messa, per annunciare - da vero missionario - Gesù ai fratelli.

C’è dunque un altare vuoto al quale questo giovane non è salito, ma sul quale tanti altri giovani chiamati al sacerdozio e entusiasmati proprio dal suo esempio vi saliranno.

Rolando è salito direttamente sull’altare della gloria facendo di se stesso un’ostia pura, santa ed immacolata da offrire a Dio per la salvezza dei fratelli.

 

P. Alfonso M. A. Bruno FI



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