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08 ottobre, 2019

In occasione del suo settantesimo compleanno

«L’8 ottobre per me è un giorno dove non si può che ringraziare per il dono della vita. Potevamo non esserci…e non ho fatto nulla per essere dentro questa immensa realtà! Esisto ed esistiamo non come una delle tante cose, ma come persona, con la libertà, la volontà e l’intelligenza. ‘Chiamati’ nella vita. Questa è la cosa grande che ad un certo punto si scopre e si capisce. Non un semplice esserci, un esserci inconsapevole, inconscio, ma con la coscienza di essere persone! E la caratteristica dell’esserci come ‘persona’ porta alla scoperta della vita come responsabilità, chiamati per nome a ‘rispondere’. E’ vertiginoso. Un compito!!! Questo vuol dire riconoscere un autore del tutto che ci invita ad essere collaboratori della sua creazione. Per me l’avvenimento cristiano, con il suo apice che è l’Incarnazione – il Dio che si fa uomo come noi (Verbum caro factum est) – è stato ciò che mi ha permesso di comprendere e capire la grandezza e la bellezza della vita e soprattutto scoprire il mio essere voluto e amato, proprio nel potere essere parte di una storia. Una storia dove ha potuto prendere forma quella modalità con cui sono stato chiamato a vivere la ‘responsabilità’, che è la caratteristica fondamentale dell’esistenza: il Sacerdozio”.

don Antonio Maffucci (FSCB)


Il papà di Padre Pio -07 OTTOBRE 1946


 Muore Grazio Mario Forgione

22 settembre, 2019

La Diocesi ricorda i suoi sacerdoti uccisi negli anni 1943-1946. Messa in Cattedrale presieduta dal Vescovo

 La Chiesa di Reggio Emilia-Guastalla, proseguendo nel cammino che l’anno scorso, nel Santuario del beato Rolando Rivi a San Valentino (Castellarano), ha condotto a uno storico gesto di perdono, intende ricordare tutti i sacerdoti martiri del periodo 1943-1946 con una giornata di riconciliazione e di preghiera intitolata “Vexilla Regis prodeunt” (“Avanzano i vessilli del Re”, dall’incipit dell’inno liturgico composto da san Venanzio Fortunato in occasione dell’arrivo della reliquia della Vera Croce a Poitiers).

L’iniziativa si svolge oggi pomeriggio, domenica 22 settembre, in due momenti: alle 16, nella sala conferenze del Museo Diocesano, un convegno con l’intervento storico del professor Giuseppe Giovanelli, condirettore del Centro Diocesano di Studi Storici, e quello teologico di don Carlo Pagliari, biblista e direttore del Servizio per la Pastorale Giovanile; alle 18, in Cattedrale, la Messa sarà presieduta dal vescovo Massimo Camisasca.

Insieme al seminarista Rolando Rivi saranno commemorati don Pasquino Borghi, don Battista Pigozzi, don Giuseppe Donadelli, don Luigi Ilariucci, don Aldemiro Corsi, don Sperindio Bolognesi, don Luigi Manfredi, don Pietro De Carli, don Dante Mattioli, don Giuseppe Iemmi, don Carlo Terenziani, don Umberto Pessina e tutti i confratelli che, pur non arrivando al sacrificio della vita, vennero minacciati, incarcerati, perseguitati o torturati a causa della loro testimonianza di fede e di carità. 

Il cardinale Siri nel 1958, commemorandoli a Reggio Emilia insieme agli altri 40 sacerdoti uccisi in Emilia Romagna e ai 300 caduti nello stesso periodo in Italia, ebbe a dire: “Allora questi uomini che non maneggiavano armi, che erano generalmente inermi, sono diventati dei protettori, si sono fatti scudi, hanno dato garanzie, si sono offerti in ostaggio, hanno fermato spade brandite, non facendosi di parte mai, soltanto salvando uomini perché uomini”. 



18 settembre, 2019

Domenica alle 16 convegno al Museo diocesano, alle 18 la Messa in Cattedrale presieduta dal Vescovo

La Chiesa di Reggio Emilia-Guastalla, proseguendo nel cammino che l’anno scorso, nel Santuario del beato Rolando Rivi a San Valentino (Castellarano), ha condotto a uno storico gesto di perdono, intende ricordare tutti i sacerdoti martiri del periodo 1943-1946 con una giornata di riconciliazione e di preghiera intitolata “Vexilla Regis prodeunt” (“Avanzano i vessilli del Re”, dall’incipit dell’inno liturgico composto da san Venanzio Fortunato in occasione dell’arrivo della reliquia della Vera Croce a Poitiers). L’iniziativa si terrà domenica 22 settembre in due momenti: alle 16, nella sala conferenze del Museo Diocesano, un convegno con l’intervento storico del professor Giuseppe Giovanelli, condirettore del Centro Diocesano di Studi Storici, e quello teologico di don Carlo Pagliari, biblista e direttore del Servizio per la Pastorale Giovanile; alle 18, in Cattedrale, la Messa sarà presieduta dal vescovo Massimo Camisasca.

Insieme al seminarista Rolando Rivi saranno commemorati don Pasquino Borghi, don Battista Pigozzi, don Giuseppe Donadelli, don Luigi Ilariucci, don Aldemiro Corsi, don Sperindio Bolognesi, don Luigi Manfredi, don Pietro De Carli, don Dante Mattioli, don Giuseppe Iemmi, don Carlo Terenziani, don Umberto Pessina e tutti i confratelli che, pur non arrivando al sacrificio della vita, vennero minacciati, incarcerati, perseguitati o torturati a causa della loro testimonianza di fede e di carità.

Il cardinale Siri nel 1958, commemorandoli a Reggio Emilia insieme agli altri 40 sacerdoti uccisi in Emilia Romagna e ai 300 caduti nello stesso periodo in Italia, ebbe a dire: “Allora questi uomini che non maneggiavano armi, che erano generalmente inermi, sono diventati dei protettori, si sono fatti scudi, hanno dato garanzie, si sono offerti in ostaggio, hanno fermato spade brandite, non facendosi di parte mai, soltanto salvando uomini perché uomini”.


 

16 settembre, 2019

l’omelia del Vescovo di Reggio Emilia nella XXV domenica del Tempo Ordinario, a conclusione del Convegno in ricordo dei sacerdoti martiri della Diocesi. La celebrazione si è svolta in Cattedrale.

 l’omelia del Vescovo di Reggio Emilia nella XXV domenica del Tempo Ordinario, a conclusione del Convegno in ricordo dei sacerdoti martiri della Diocesi. La celebrazione si è svolta in Cattedrale.

“Cari fratelli e sorelle,

celebriamo questa Santa Messa dopo aver partecipato a un incontro di riflessione storica e biblica sul tema della Riconciliazione. 

Riconciliazione di cui ha tanto bisogno la nostra terra, segnata, durante la Seconda Guerra Mondiale e negli anni immediatamente successivi, da tanti lutti e da tante tragedie di morte, causate dall’odio che albergava nel cuore di alcuni uomini. Quest’odio ha portato a una guerra fratricida, a uccisioni indiscriminate, provocando non raramente rastrellamenti, rappresaglie, eccidi, morte di persone innocenti. Che cosa causò tante tensioni e tali tragedie? Molto spesso la lotta politica e soprattutto la terribile appartenenza a dittature senza Dio, che avevano oscurato i cuori delle persone. Il mio predecessore, monsignor Socche, ha parlato molti anni fa non semplicemente di dittature “atee”, ma di dittature “negatrici di Dio”: egli con queste parole voleva descrivere un ateismo attivo, che si prefiggeva cioè di lottare contro Dio, e soprattutto contro la Chiesa e i suoi sacerdoti.

‎In questo contesto tragico è brillata l’opera luminosa di molti eroi, che hanno protetto, accolto, nascosto e difeso uomini e donne che si trovavano, per varie ragioni, in gravissime difficoltà, e che vedevano perfino minacciata la propria vita. In particolare, oggi, abbiamo voluto e vogliamo ricordare dodici nostri fratelli sacerdoti e un seminarista, barbaramente uccisi dall’uno e dall’altro fronte in lotta, ad opera cioè di nazisti, fascisti e comunisti: il beato Rolando Rivi, don Pasquino Borghi, don Battista Pigozzi, don Giuseppe Donadelli, don Luigi Ilariucci, don Adelmiro Corsi, don Sperindio Bolognesi, don Luigi Manfredi, don Pietro De Carli, don Dante Mattioli , don Giuseppe Iemmi, don Carlo Terenziani e don Umberto Pessina. ‎

Alcuni di loro sono stati, grazie a Dio, ampiamente ricordati nel loro sacrificio durante questi anni. Altri, invece, sono stati in parte dimenticati. 

È proprio per questa ragione che ho desiderato, assieme a tutta la nostra Chiesa, questa giornata di Riconciliazione. Se per la storia, che spesso è scritta dai vincitori, solamente alcuni hanno avuto ragione, mentre altri hanno avuto torto, per la Chiesa non è così: il sacrificio della vita, se offerta con un cuore puro in ragione della propria fede e della propria carità, è sempre prezioso davanti a Dio, ed è sempre fonte di un numero infinito di grazie. 

La preghiera eucaristica di oggi è perciò paradossalmente una preghiera di ringraziamento a Dio, per avere donato alla nostra terra questi fratelli che l’hanno resa feconda con il proprio sangue, testimoniando così che l’amore è più grande dell’odio, che la vita è più grande della morte. Hanno realizzato tutto ciò proprio morendo, nella certezza che Dio avrebbe accolto il loro sacrificio e avrebbe, proprio attraverso di esso, risanato i cuori degli uomini. 

L’opera di riconciliazione non è mai compiuta una volta per sempre. Anche chi riceve una grande grazia, come abbiamo ascoltato nel Vangelo di questa sera (cf. Lc 16,1-13), può rivoltarsi contro il fratello, misconoscendo così l’opera di Dio. Ci sono radici di male così profonde dentro di noi che solo l’intervento del Signore può sradicare. Affinché la nostra terra possa camminare in avanti, occorre che essa si lasci rinnovare in profondità. 

***

Il ricordo di così tanti sacerdoti uccisi ci spinge oggi a ringraziare Dio per il dono del sacerdozio. I preti morti martiri per la fede, ci insegnano che non si possono pronunciare le parole: “Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue”, senza che la propria vita, in un modo o in un altro, venga attratta nel mistero di croce e di resurrezione che Gesù ha vissuto per noi. 

Nello stesso tempo, la celebrazione di oggi è un invito a tutti, innanzitutto ai credenti segnati dal battesimo – evento di riconciliazione tra Dio e l’uomo – ad accettare il grido accorato che viene da questi testimoni: “Lasciatevi riconciliare con Dio (2Cor 5,20), riconciliatevi tra di voi”. Lasciate cadere ogni pensiero di odio, di rivendicazione, di rivalità, di superiorità ingiusta. Entrate nel perdono, nell’esperienza dell’umiltà che rende grande l’uomo e gli permette di dare frutti duraturi, per il tempo e per l’eternità. Entrate in questa logica della Riconciliazione voi mariti e mogli, voi figli, voi amici, voi datori di lavoro, voi lavoratori di ogni categoria. Il perdono non ci fa rinunciare ai nostri diritti, non elimina la differenza tra il bene e il male, ma ci permette di entrare in una dimensione più grande della vita, in cui tante lacerazioni e ansie possono essere superate, permettendoci di accedere alla pace e alla serenità. 

Chiedo a Nostro Signore Gesù Cristo che questa celebrazione eucaristica, a cui so essere associati tanti uomini e donne della nostra terra, ottenga un nuovo anno di grazia per la Città di Reggio Emilia e per tutta la sua Provincia. Amen”.

✝ Massimo Camisasca FSCB

Mons. Vescovo Reggio Emilia - Guastalla





04 agosto, 2019

Luca Carissimo 21 anni e Matteo Ferrari 18 anni due Angeli

 Due ragazzi, un'unica Amicizia, un'unica Passione, QUELLA DEL CALCIO ED, UNICO TRAGICO DESTINO BEFFARDO

Con la consapevolezza, che ora, voi vivete in Cristo.

Cari Luca, e Matteo, non vi ho mai conosciti di persona, ma, vi voglio mondo di bene.

Spero in Dio, che avrete giustizia, perché non si può morire, così....

Lo sgomento, e, smarrimento è tanto.....
Requiem

Canzano Barbara



26 giugno, 2019

Con p. Antonio Maffucci sul martirio del giovane seminarista Rolando Rivi, Vladimir Rędzioch parla VLADIMIR RĘDZIOCH:



Con p. Antonio Maffucci sul martirio del giovane seminarista Rolando Rivi, Vladimir Rędzioch parla

VLADIMIR RĘDZIOCH: – Siamo a San Valentino di Castellarano, dove è nato Rolando Rivi. Com'era la sua infanzia?


P. ANTONIO MAFFUCCI: – La famiglia Rivi è stata la "culla" dell'umanità e della fede di Rolando. Era una famiglia numerosa, unita e allegra. Un ruolo speciale è stato interpretato dalla nonna di Anna, il padre di Rolando, Roberto, che ogni giorno pregava il Rosario con gli altri. Rolando era un bambino vivo, sempre in movimento, nessuno poteva fermarlo.

Era entusiasta, intelligente, dotato di una memoria straordinaria, nonché il più veloce nelle corse e instancabile nell'inventare nuovi giochi. Osservando suo nipote, che non sapeva le mezze misure, nonna Anna diceva spesso: "Diventerà un santo o un bandito".

Quando Rolando si diplomò alla scuola elementare all'età di 11 anni, e dopo aver parlato con il suo pastore, annunciò a casa che voleva continuare il suo seminario, nonna Anna pregò il Rosario del Ringraziamento perché era già convinta che sua nipote non sarebbe stata sicuramente un delinquente.

"Cosa sappiamo della vita spirituale del giovane Rolando?

"La spiritualità di Rolando è ben espressa nelle parole che, dopo essere entrato nel seminario, diceva spesso: "Io sono Gesù". In questo modo, con la semplicità del bambino, ma con le profondità del santo, ha espresso l'essenza di essere cristiano: apparteniamo al Signore che ci ha creati, che ci ama, che ci sta aspettando. La coesione di noi stessi riguarda l'appartenenza a Cristo, come un bambino che appartiene a un padre e a una madre. Queste parole, tuttavia, hanno espresso non solo la chiarezza del giudizio, ma anche la profondità della fede, che è diventata un ardente amore per il Signore – un amore che sostiene tutta la vita – e la gioia e la passione per la testimonianza. "Io sono Gesù" significa appartenenza, amore e testimonianza. Tutta la vita del ragazzo, fino al martirio, fu l'incarnazione di queste parole.

San Pio X prevedeva: "Ci saranno molti santi ragazzi e molte vocazioni al sacerdozio attraverso Gesù il santo adorato e ricevuto eucaristico". Possiamo dire che la vocazione sacerdotale del giovane Rolando è nata dalla "pedagogia eucaristica" voluta da San Pio X?

16 giugno 1938 Rolando ricevette la prima comunione in una chiesa di San Valentino. Un memoriale di questo evento è stato conservato, con una bella immagine di Cristo al centro, con bambini intorno all'altare. Rolando all'epoca aveva sette anni, e da allora ha praticato regolarmente incontri con Gesù Eucaristia, perché ha partecipato alla Messa quotidiana. La gioia che veniva dalla sua amicizia quotidiana con il Signore era così forte in Lui che voleva prendere tutto. Ciò è stato evidente non solo nei rapporti con la famiglia e i coetanei, ma anche nel ripetuto desiderio di diventare sacerdote missionario, per condividere l'esperienza cristiana anche con le persone più remote che non avevano ancora venire a conoscere Gesù. Sicuramente la vocazione di Rolando al sacerdozio nasce da questa "pedagogia eucaristica" e dal suo incontro con il pastore, p. Olinto Marzocchini, suo primo maestro, uomo di grande amore e profonda spiritualità.

Come cambiò la vita di Rolando durante l'occupazione tedesca e le attività dei guerriglieri comunisti?

Rolando fu vittima di due "grandi ideologie malvagie" del secolo scorso, come le definì San Giovanni Paolo II: nazismo e comunismo. Nell'estate del 1944, i nazisti occuparono un seminario vescovile a Marola in provincia di Reggio Emilia, dove Rolando frequentò per renderlo una base militare lungo la Linea Goth (un sistema di difesa costruito dai tedeschi in Italia durante la seconda guerra mondiale). Dopo essere tornato a casa, Rolando decise di continuare i suoi studi e vivere come un seminarista - camminava sempre vestito con la veste talare. Tuttavia, questo era pericoloso perché alcune formazioni di guerriglia, in particolare nella regione appenninica di Reggio Emilia e Modena, erano dominate dall'ideologia comunista. Queste formazioni di guerriglia "rossa" hanno ideato un piano secondo il quale la fine della guerra non doveva essere un ritorno alla pace e alla libertà (come volevano i guerriglieri cattolici, amici di Roland), ma l'inizio di una rivoluzione per costringere le armi a condurre l'Italia a una "dittatura proletariata". Parte di questo progetto è stata anche la rimozione di Dio dalla storia e dal cuore dell'uomo, anche eliminando i testimoni più ardenti e coraggiosi della fede. Rolando fu ucciso perché testimoniò a Cristo in modo così affascinante che attirò altri ragazzi nella vita cristiana, e questa ideologia comunista non poteva reggere.

"Perché Rolando, anche fuori dal seminario, voleva indossare così tanto la veste talare?

Rolando, da seminarista, amava la sua veste talare e non la toglieva mai, nemmeno durante le partite di calcio o gli alberi rampicanti, perché era un segno visibile della sua appartenenza a Dio e alla Sua Chiesa.

" Cosa sappiamo dell'omicidio di un seminarista?

Rolando fu rapito da due guerriglieri comunisti la mattina del 10 aprile 1945, mentre dopo la Messa nella chiesa parrocchiale di San Valentino studiò ai margini di una foresta vicino alla sua casa. Sotto la minaccia di armi, fu portato nel villaggio di Piane di Monchio, dove aveva sede l'unità di guerriglia, che comprendeva due rapitori. Qui, un giovane seminarista, ingiustamente accusato, è stato insultato, picchiato e torturato. Infine, venerdì 13 aprile 1945, alle tre del pomeriggio, giorno e ora della morte di Gesù, fu estratto dal sultanato che amava così tanto e portato nella foresta. Quando Rolando capì le intenzioni dei rapitori, chiese che almeno pregasse per suo padre e sua madre. Mentre si inginocchiò, pregò, il commissario politico della squadra di guerriglia gli sparò con due colpi di pistola, alla testa e al cuore.

"Che fine ha fatto il corpo di Rivi?"

Dopo aver ucciso il seminarista, i guerriglieri comunisti nascosero il suo corpo al piano di sotto, lo coprivano di terra e foglie secche. Il padre e giovane pastore, don Alberto Camellini, era alla ricerca di Rolando dal rapimento, ma non hanno raggiunto la foresta del martirio fino al 14 aprile, quando era già avvenuto un terribile omicidio. Con il cuore trafitto dal dolore e dalle lacrime agli occhi, hanno dissotterrato il corpo del ragazzo e lo hanno trasferito nella Chiesa di Santa Maria Assunta a Monchio. Qui c'era il funerale di Rolando e la prima sepoltura temporanea in un cimitero vicino. Quando la guerra terminò il 29 maggio 1945, Roberto Rivi portò il corpo di suo figlio nel villaggio di San Valentino. Gli amici spostarono la bara sulle sue spalle in chiesa e dopo la Messa un giovane seminarista, dove tutti videro il martire, fu sepolto nel cimitero locale. Il 29 giugno 1997, in occasione della celebrazione dei santi martiri Pietro e Paolo, le spoglie mortali di Rolando furono riesumate e trasferite nella chiesa parrocchiale – furono poste sotto il pavimento della chiesa, in un luogo che un tempo era usato per la sepoltura dei canonici. Nel maggio 2014, dopo la beatificazione e il riconoscimento canonico delle reliquie, il corpo di Rolando, avvolto in nastri bianchi e rossi di seta nella scatola di cristallo, è stato posto sotto la mensa dell'altare maggiore. Questo è stato il caso nei primi secoli del cristianesimo, quando l'altare è stato posto sulle reliquie dei martiri, come se si volesse fare un'ostia consacrata e reliquie di un martire che si è fatto dono totale al Signore. Nella parte anteriore dell'altare c'è un bassorilievo che mostra la gloria di Rolando in cielo.

Com'è stata la tragica morte di Rolando nella sua famiglia?

"La morte di Rolando, un figlio preferito, causò un grande dolore per i suoi genitori. Sua madre, Albertina, era così terribilmente scioccata, fisicamente e spiritualmente colpita dall'indicibile sofferenza che non le permetteva nemmeno di camminare, che dovette rimanere a letto per diversi mesi. Allo stesso modo, suo padre, Roberto, soffrì allo stesso modo, e dalla scoperta del corpo torturato di suo figlio ha condotto una vita piena di sempre più pentimento e preghiera, in memoria di Rolando, che ha sempre definito un ragazzo "innamorato di Gesù". Attraverso la sua quotidiana conversazione con Dio e il suo amore per suo figlio, che ha dato la sua vita per Gesù, sentimenti di odio e pensieri di immaginazione, apparsi anche nel cuore di Roberto, si sono lentamente allontanati, spacciando la strada alla possibilità di perdono per i aguzzini. Il 15 aprile 2018 una figlia guerrigliera è arrivata nella chiesa parrocchiale di San Valentino, che ha alzato la mano per un giovane seminarista, e davanti al vescovo della provincia di Reggio Emilia Massimo Camisasca ha chiesto perdono per l'atto del padre. Su questa richiesta, i membri sopravvissuti della famiglia di Rolando (la sorella di Rosanna e i cugini Sergio e Alfonso) risposero con un abbraccio e un dono di perdono.

" Per iniziare il processo di beatificazione, la Chiesa richiede una fama consolidata della santità del candidato per gli altari. Possiamo parlare di "fama sanctitatis" anche nel caso di Rolando Rivi?

"Certo. Tuttavia, nel dopoguerra, il predominio politico del Partito Comunista nella regione Emilia-Romagna, dove si trova San Valentino, insieme all'affermazione della cultura marxista dominante, specialmente dopo la rivoluzione del 1968, rese molto difficile parlare di alcuni eventi legati al movimento di resistenza in Italia. Così, la fama della santità del giovane seminarista si è espressa in modo molto discreto, quasi "sotterraneo", ma è stata continua e universale. Tuttavia, quando nel marzo 2004 un gruppo di coraggiosi amici organizzò a Reggio Emilia un convegno pubblico intitolato "Rolando Rivi – il figlio di un martire", e l'intera questione fu pubblicizzata – la sala del teatro cittadino non fu sufficiente ad accogliere tutti i partecipanti. Fu un chiaro segno che il popolo cristiano considerava Rolando martire e chiese che il tesoro della sua testimonianza di fede fosse in grado di "brillare" in pubblico per tutti. Gli organizzatori di questa conferenza hanno dato vita al Comitato amici di Rolando Rivi, che ha promosso il processo di beatificazione e oggi diffonde il culto del Rolando nel mondo, anche nella prospettiva della speranza di canonizzazione.

Rolando Rivi è stato beatificato il 5 ottobre 2013. Cosa può dire il beato all'uomo di oggi, specialmente ai giovani e ai bambini?

Il giorno dopo la Beatificazione, domenica 6 ottobre 2013, all'Angelus del Signore", Papa Francesco ha detto di Rolando davanti a decine di migliaia di persone: "Quanti 14enni oggi hanno davanti a sé questo esempio: un giovane coraggioso che sapeva dove andare, conosceva l'amore di Gesù nel suo cuore e ha dato la vita per Lui. Un grande esempio per i giovani!". Per tutti noi, per tutti i giovani e giovanissimi, Rolando è un esempio, un vero amico che, con tutta la semplicità, l'entusiasmo e la concretezza della sua esistenza, ci mostra ciò che conta veramente nella vita: appartenere al Signore, amarlo con gioia, testimoniarlo con coraggio: "Io sono Gesù".



23 giugno, 2019

Giubileo dei Sacerdoti Anniversari dei Parroci di Prezzate



Giubileo dei Sacerdoti Anniversari dei Parroci di Prezzate 

Cerimonia degli anniversari di Don Luca, Don Fabio, Don Elio e Mons. Ubaldo della parrocchia di Sant'Alessandro di Prezzate (Bg)

Domenica Solennità del Corpus Domini, 23 giugno 

I RINGRAZIAMENTI VANNO A Renato Mazzoleni ed a tutti i suoi collaboratori per questo bellissimo video


25 maggio, 2019

Buon compleanno Padre Pio. Pietrelcina 25 maggio 1887

 Buon compleanno Padre Pio. Pietrelcina 25 maggio 1887

Scritto da

 Simona Marmorino


Pietrelcina: è qui che è nato Padre Pio

È qui che è nato Padre Pio, è qui che ha vissuto da bambino ed adolescente, è qui che è tornato tante volte, studente cappuccino, negli anni della formazione religiosa e poi quelli del primo sacerdozio, ogni volta che i medici stabilivano che solo l’aria salutare del paese natale poteva aiutare la sua salute così spesso vacillante. “Io di Pietrelcina ricordo pietra su pietra, la tengo tutta chiusa nel mio cuore” diceva Padre Pio.

Una famiglia di contadini, quella dove era nato Francesco quarto di 7 figli. Il padre Grazio Maria Forgione aveva allora 26 anni e la madre Maria Giuseppa De Nunzio 28. Come si usava allora, e come prima dopo per i fratelli e le sorelle, venne al mondo nell’umile e povera casa in Vico Storto Valle al numero 27, nel rione castello, che è la parte più  alta di Pietrelcina: piccole abitazioni antiche di secoli, costruite con la stessa pietra grigia su cui sorgono, addossate l’una all’altra in lunghe file che danno su vicoli e vicoletti ombrosi. Una casa che in realtà era solo la camera da letto dei genitori e un altro locale: 13 metri quadri in tutti col pavimento in terra battuta, il soffitto di tavole e cannucce e una finestra che dà sulla valle piena di luce.

Era stata sufficiente quando i Forgione erano solo due giovani sposi, ma puoi Grazio, che aveva solo una minuscola Masseria a Piana romana, un solo locale e qualche etto di terra, dovette migrare in america a New York per guadagnare e comprare a Pietrelcina un altro pezzo di casa, una porta più in là, dove fare la cucina, la sala da pranzo e anche la stanza dei ragazzi più grandi. Intanto mamma Peppa  stava lì al paese con i figli da tirar grandi,con il campo da lavorare e le poche pecore di cui occuparsi per poter vivere.

Papà Grazio

Papà Grazio era nato a Pietrelcina il 22 ottobre del 1870, era un contadino ma risultava iscritto all’anagrafe del comune come possidente per via delle case di vico storto Valle e della Masseria di Piano Romana, quel locale in cui ripararsi d’estate e custodire gli attrezzi con i muri di pietra grezza e il pavimento di ciottoli, ma anche per l’annesso fazzoletto di terra coltivato a grano e vigna con quattro pecore e una capra.Era tanto buono non sapeva far male a nessuno, neppure ad una formica, che riusciva a scansare per non schiacciarla. Aveva tanta fede in Dio e un’innata religiosità; non mangiava mai carne di venerdì e in quaresima, si asteneva dal bere liquori, vino e perfino il latte, si  imponeva severe penitenze. Tra le giovinette del rione Castello scelse Maria Giuseppa De nunzio, una “massaia”.

Mamma Peppa

Mamma Peppa anche lei era popolana ma con tratti da signora. All’anagrafe era Maria Giuseppa De Nunzio. I paesani la ricordano come una donna dal fisico snello che nonostante la grande povertà, era sempre in ordine e con in testa un fazzoletto bianco fresco di bucato che cambiava tutti i giorni. Sì preparò alle nozze secondo le tradizioni, e affido alla Madonna della Libera, patrona del paese, la sua famiglia nascente.

Dopo il matrimonio le sue giornate cominciano ad essere davvero intense; Ai primi chiarori dell’alba si recava più volte alla fontana, con una grossa blocca sulla testa, per fare la provvista dell’acqua, poi se non c’era pane nella madia preparava due grosse pagnotte  che portava a cuocere al forno del rione, oppure, lavava le lenzuola e i panni da lavoro di marito.

Il giorno della nascita di Padre Pio, il 25 maggio 1887, mamma Peppa stava lavorando in campagna col marito quando avverti le prime doglie. Gli disse di non preoccuparsi di finire il lavoro, mentre lei si avviava a piedi da Piana Romana per scendere giù dal paese. Qui si mise a letto e come già aveva fatto per gli altri figli, mandò a chiamare la levatrice. Erano le 5 del pomeriggio quando la lavatrice le disse “Peppa il bambino è nato avvolto in un velo bianco ed è un buon segno: sarà un bimbo grande fortunato” Quella ingenua predilezione ai è poi rivelata davvero profetica.

09 maggio, 2019

Aldo Moro, devoto e discepolo di Padre Pio

 Prima d'essere ucciso ha compreso il senso dell’offerta vittimale.

Il mistico Cappuccino in tre circostanze previde la sua morte violenta.


Scritto da Francesco Bosco

Per tanti anni ha festeggiato il suo compleanno il 23 settembre, ignaro che in quella data avrebbe terminato il suo cammino terreno Padre Pio, di cui era molto devoto. Aldo Moro lo incontrò per l’ultima volta il 15 maggio 1968. Era in Puglia per la campagna elettorale nella sua storica circoscrizione per la Camera dei Deputati, la Bari – Foggia. Stava per concludersi la quarta legislatura dell’era repubblicana, di cui lo statista di Maglie era stato l’indiscusso protagonista. Infatti, dopo un governo balneare monocolore DC guidato da Giovanni Leone, i tre successivi, tutti quadripartito (DC, PSI, PSDI e PRI), furono presieduti da Moro, che rimase ininterrottamente a Palazzo Chigi fino al naturale scioglimento delle Camere. Le numerose foto di quel 15 maggio 1968 consegnano alla storia l’immagine di un colloquio sereno, cordiale.


Lo stesso leader politico ricordò «con commozione la benevolenza» che gli aveva riservato il Frate stimmatizzato, nel telegramma di cordoglio inviato al convento di San Giovanni Rotondo nel settembre di quell’anno (cfr. Positio super virtutibus, vol. I/1, p 51). Certamente il Presidente del Consiglio non poteva prevedere che quello sarebbe stato un addio. Il mistico Cappuccino, invece, sapeva quello che sarebbe accaduto dieci anni dopo. Lo ha rivelato Giovanni Gigliozzi in un’intervista che mi ha concesso nel 2002, parlandomi di un episodio avvenuto nel 1960: «Nel corridoio della cella di Padre Pio c’era un tavolo di vimini. Sul tavolo di vimini c’erano dei giornali. Padre Pio si soffermò un istante, guardò la copertina di uno di questi giornali, poi si portò le mani davanti alla faccia e disse: “Dio, quanto sangue… quanto sangue… quanto sangue!”. Su quel giornale c’era la foto di Aldo Moro. Poi ho capito». Lo ha confermato una confidenza di padre Tarcisio da Cervinara a padre Marciano Morra e riportata da quest’ultimo nel suo libro Con Padre Pio a tu per tu. In un pomeriggio imprecisato del 1954, mentre si recava in chiesa per confessare, il Frate stigmatizzato si fermò, si irrigidì e rimase per pochi istanti con gli occhi sbarrati, come se stesse fissando qualcosa, e gridò: «Morooo!… Morooo!… Si muoreee!…».

Quindi tornò in sé e riprese a camminare, come se nulla fosse accaduto. Padre Tarcisio, che lo accompagnava, chiese spiegazioni per quel singolare comportamento. Ma non ottenne risposta. Nei giorni seguenti Padre Pio si chiuse in un insolito silenzio e non manifestò nessuno dei suoi consueti tratti di buonumore. Secondo l’avvocato Nicola Giampaolo, postulatore e incaricato di raccogliere la documentazione per la Causa di beatificazione e canonizzazione dell’esponente democristiano, «san Pio da Pietrelcina, durante una visita dello stesso statista a San Giovanni Rotondo, gli avrebbe preannunciato l’orrenda morte» anche personalmente (Aldo Moro. Un cristiano verso l’altare, p.61).


Il leader politico pugliese può essere certamente annoverato tra gli autentici devoti del Cappuccino stigmatizzato. Sono, infatti, documentati almeno tre suoi viaggi-pellegrinaggi a San Giovanni Rotondo: il primo negli anni Cinquanta, l’ultimo il 6 giugno 1976, per pregare sulla tomba di Padre Pio, poco più di un mese dopo le dimissioni dal suo ultimo mandato di presidente del Consiglio dei Ministri. Lo si deduce anche dalla testimonianza di monsignor Antonio Mennini, all’epoca vice parroco di Santa Lucia, oggi nunzio apostolico in servizio presso la Segreteria di Stato, che in un’intervista rilasciatami il 20 settembre scorso ha raccontato che spesso il suo amico Aldo Moro, «parlando della situazione italiana, diceva che, se ad una stagione di diritti non fosse subentrata una stagione di doveri, certamente il popolo italiano sarebbe andato incontro a molte difficoltà e aggiungeva: “Avremmo bisogno di santi come Padre Pio per sfuggire soprattutto alla morsa dell’egoismo”».

Sicuramente il giurista pugliese ha sempre seguito la stella polare del Vangelo nel suo percorso di impegno sociale e politico, a cominciare dalla sua adesione alla FUCI, nel novembre del 1934, subito dopo l’iscrizione alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Bari, divenendone il presidente del circolo cittadino. Anche in questo ambito, come nel brillante e rapido curriculum di studente, il giovane Moro presto si fece notare per le sue doti di serietà e di impegno, soprattutto nell’organizzare il XXII Congresso nazionale FUCI, che si svolse nel capoluogo pugliese nel 1936. Per questo, tre anni dopo, Papa Pio XII lo nominò presidente nazionale della Federazione Universitaria Cattolica Italiana, su suggerimento dell’allora mons. Giovanni Battista Montini, ex assistente ecclesiastico generale della FUCI nonché convinto estimatore di Padre Pio (cfr. Paolo VI, futuro santo e devoto di Padre Pio, in Voce di Padre Pio, settembre 2018, pp. 28-31). Un altro passo significativo nell’evoluzione del pensiero sociale di Moro, a due anni dall’inizio della sua carriera di docente universitario, è la partecipazione alla “Settimana teologica per laici”, che si svolse dal 18 al 24 luglio del 1943 presso l’eremo benedettino di Camaldoli, dove si riunirono circa 30 intellettuali cattolici (economisti, giuristi, sociologi, tecnici e dirigenti). Ne scaturì un documento programmatico, denominato appunto “Codice di Camaldoli”, da cui trasse ispirazione l’azione politica della Democrazia Cristiana. Tale percorso formativo ha orientato il pensiero del professore di Maglie, dal suo ingresso nel palazzo di Montecitorio come deputato dell’Assemblea Costituente fino all’ultimo giorno di prigionia nelle mani delle Brigate rosse, inducendolo alla costante e ostinata ricerca del dialogo per cercare di conquistare la convergenza tra i partiti, ravvisando in questa linea l’essenza della democrazia. Con la stessa coerenza egli riuscì a mantenere sempre viva la sua fede, come dimostra la corona del Rosario, visibilmente consumata, e la catenina con una medaglietta della Madonna, ritrovate nella Renault 4 rossa, accanto al suo corpo. E come confermano le parole, scritte nelle sue lettere durante il sequestro, che ricalcano la spiritualità di Padre Pio: «Ho solo capito in questi giorni che vuol dire che bisogna aggiungere la propria sofferenza alla sofferenza di Gesù Cristo per la salvezza del mondo». Questa fede gli ha dato la forza persino di perdonare i suoi sequestratori (cfr. A. VENEZIA – N. GIAMPAOLO, Occhi al Cielo, pp. 77 e s.).

La vita di Aldo Moro in breve

Nato a Maglie (LE) il 23 settembre 1916, dopo aver conseguito la maturità classica al liceo “Archita” di Taranto, nel 1938 si è laureato in giurisprudenza all’Università di Bari. Nel 1945 ha sposato, a Montemarciano (AN), Eleonora Chiavarelli. Dal matrimonio sono nati: Maria Fida (1946), Anna (1949), Agnese (1952) e Giovanni (1958). Ha cominciato ad insegnare nel 1941 presso l’Ateneo barese. Nel 1963 si è trasferito all’Università di Roma. Dopo una ultratrentennale attività politica, è stato rapito il 16 marzo 1978 e ucciso il 9 maggio dello stesso anno. Il 21 settembre 2012 è stato accettato il libello di domanda per l’avvio della Causa di beatificazione e canonizzazione.






07 aprile, 2019

Omelia per la V domenica di Quaresima, nella commemorazione del martirio del beato Rolando Rivi

 Omelia per la V domenica di Quaresima, nella commemorazione del martirio del beato Rolando Rivi

Santuario di San Valentino (Castellarano)
07-04-2019

Cari fratelli e sorelle,

il 13 aprile di 74 anni fa, poco lontano da qui, il beato Rolando Rivi viveva il suo martirio. Lo ricordiamo solennemente oggi in questo santuario a lui dedicato, con qualche giorno di anticipo, in occasione dell’ultima domenica di Quaresima.

La figura di Rolando, che tutti ben conosciamo, può aiutarci a comprendere il senso profondo delle letture che abbiamo ascoltato, in modo particolare il brano di san Paolo e la pagina giovannea dell’adultera perdonata. I santi sono infatti i migliori esegeti, cioè i più grandi interpreti del Vangelo. Essi, per grazia di Dio e per il merito delle loro eroiche virtù, hanno rivissuto la vita di Gesù dentro le circostanze particolari che sono stati chiamati a vivere, e così hanno riempito il mondo di luce. La loro vita è quindi un’attualizzazione del Vangelo, una concretizzazione eminente di una o più delle parole che Dio ha rivolto al suo popolo e che rimarranno, per tutto il tempo della storia, come fonte somma e irrinunciabile di insegnamento per tutta la Chiesa.

Di Rolando Rivi non sappiamo molto, sia perché la sua vita fu molto breve, sia per il fatto che non ci ha lasciato nulla di scritto. Resta solo una frase, ormai divenuta celebre in tante parti del mondo: “Io sono di Gesù”. Tante volte, in questi anni del mio episcopato, ho cercato di commentare queste parole, così profonde e ricche nella loro semplicità, così alte e drammatiche, per il fatto che furono pronunciate da un giovane ragazzo mentre andava incontro alla morte. La testimonianza di Rolando e il suo messaggio ci consentono oggi di entrare nelle parole che la liturgia ci ha proposto: Ritengo che tutto sia una perdita a motivo della sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore. Per lui ho lasciato tutte queste cose e le considero spazzatura, per guadagnare Cristo ed essere trovato in lui (Fil 3,8-9).

Gesù è il Signore e conoscerlo, cioè stare con lui e desiderare di vivere come lui, è la cosa più sublime. Tutto il resto non conta nulla. O meglio: tutto il resto ha valore solamente nella misura in cui ci consente di amare di più Cristo e di rendergli gloria. Rolando, per vivere fino in fondo la sua vocazione, ha letteralmente lasciato perdere tutto, addirittura la sua stessa vita. Accettando il supremo sacrificio di sé, è diventato una cosa sola con Gesù, ha conosciuto in pienezza il mistero e la dottrina del suo Maestro. Ed in questo modo ha guadagnato Cristo, ed è stato trovato in lui (cf. Fil 3,9). Già chiedendo d'entrare nel seminario di Marola, Rolando desiderava guadagnare Cristo. Chiedeva cioè di poter essere unito a lui sempre di più e per sempre. Gesù lo ha esaudito presto, attraverso la grazia del martirio. In quel momento, Rolando è stato trovato in lui (cf. Fil 3,9), cioè il Padre ha rivisto nel suo corpo martoriato lo stesso amore rivelato dal Figlio sulla croce. In quel momento, Rolando ha reso gloria a Dio con tutto se stesso, e per questo motivo Dio lo ha glorificato, spalancandogli le porte del Paradiso per sempre e consegnandogli la palma di vittoria del martirio.

Rolando si sentiva chiamato al sacerdozio. Desiderava celebrare il sacrificio dell’altare. Il suo parroco e i formatori del seminario lo avevano confermato in questa intuizione. Poi la sua vita è stata violentemente interrotta e proprio allora, attraverso il martirio, la sua vocazione ha trovato pieno compimento, secondo modalità misteriose ma realissime. Egli ha offerto il sacrificio di sé, in unione al sacrificio di Cristo. Come Gesù, anche Rolando è stato sacerdote e vittima.

A conclusione di questa omelia, vorrei brevemente accennare alla pagina di Vangelo che abbiamo ascoltato (cf. Gv 8,1-11). Si tratta di un brano molto noto, il cui protagonista assoluto è Gesù (e non tanto l’adultera o gli scribi e i farisei). Attraverso le sue parole e i suoi gesti, infatti, Gesù ci rivela qualcosa del suo cuore: egli è desiderio di vita e di libertà. Certamente il peccato è da condannare e da combattere, perché si oppone al progetto di bene e di felicità che Dio ha per l’uomo. Ma all’origine di questa lotta, cui ciascuno di noi è chiamato, stanno l’amore e la stima che Gesù ha per la persona, la quale sempre può cambiare, sempre può convertirsi, sempre è ed ha un valore. Questo è il messaggio più importante di questa pagina di Vangelo: l’amore di Gesù per ogni uomo e ogni donna, il bene che lui vuole a ciascuno di noi, il rischio che egli è pronto a correre (davanti agli scribi e ai farisei di tutti i tempi, che potrebbero prendersela con lui) per difenderci.

Quando sappiamo, con la mente e con il cuore, che tale è il volto di Gesù, che tanto grande è il suo amore per noi, allora nulla ci fa più paura. E possiamo abbandonarci in pace alla sua volontà, qualunque essa sia. “Io sono di Gesù”, diceva Rolando Rivi. “Io ho un rapporto con lui! Gesù è mio amico!” Ed essendo lui così grande e così buono, è bello dare la vita per lui, imitarlo in tutto ciò che ha fatto, fino al punto d'abbracciare anche noi la croce.

Il beato Rolando interceda per noi presso il Padre e accompagni sempre il nostro cammino.

Amen

✝ Massimo Camisasca FSCB

Mons. Vescovo Reggio Emilia - Guastalla




21 marzo, 2019