Per «spiritualità» intendiamo gli elementi più significativi del vissuto cristiano della beata Pierina Morosini, ossia le strutture fondamentali del suo modo di personalizzare la fede.

E’ sempre difficile delineare con precisione le ricchezze create dallo Spirito Santo nella storia di un santo e una cospicua parte di esse rimane nascosta nel segreto dell’amore del Padre. Ancora più problematica la presentazione della spiritualità della beata Morosini perché siamo privi degli scritti che normalmente sono il mezzo privilegiato per conoscere la storia intima di una persona. In essi, specialmente in quelli autobiografici, si riversano l’esperienza interiore, il modo di percepire e di coadiuvare l’azione divina, le tappe del cammino secondo lo Spirito, il progressivo maturare nella visione di fede. Di Pierina possediamo pochissimi scritti. E’ necessario perciò affidarsi alle testimonianze di coloro che l’hanno frequentata. Strumento prezioso specie se in esse si delineano alcune costanti; strumento povero perché non sempre i nostri occhi sanno scorgere il vero volto delle persone. Sovente si limitano alla cronaca spicciola senza cogliere la linfa profonda che unifica i dettagli in un disegno armonioso e la cronaca in storia di salvezza.
Questo capita specialmente con le persone che vivono la vita comune e, preoccupate di passare inosservate, non si mettono in mostra con gesti clamorosi. Pierina, ha consumato la sua vita tra la casa, lo stabilimento, la parrocchia, vivendo la piccola storia dei nostri paesi e delle nostre famiglie con semplicità, cercando di apparire il meno possibile. La mamma afferma: «Solo la morte di Pierina, in un certo senso, mi aprì gli occhi su quanto il Signore aveva compiuto in mia figlia». E un’amica dice: «Era molto buona, ma di quella bontà che non pesa. Cioè noi ci siamo accorti della sua vita straordinaria (tutta straordinaria) quando è diventata Martire reale. Tutti spontaneamente le abbiamo riconosciuto dopo le virtù da lei esercitate: questo non per falsificare la sua personalità o per dire di lei più di quello che meritava: ma perché realmente ci siamo accorti tutti solo allora della sua santità esercitata nella più completa umiltà… sapeva veramente essere buona (lo notiamo solo ora pensandoci su) senza imporsi a nessuno».
Queste premesse vogliono sottolineare l’opinabilità e l’approssimatività di quanto dirò. Si deve riflettere a lungo sulla sua esperienza collocandola nel clima religioso e sociale delle nostre parrocchie degli anni ’50. Solamente così si potrà comprendere il messaggio della sua morte vista come conclusione logica della sua vita; sarà possibile afferrare la parola della sua vita fatta risuonare e spiegata dalla sua morte.

Una persona «raccolta» nel Signore

Unanimemente le testimonianze presentano Pierina come una persona semplice. Era la semplicità di chi, avendo polarizzato l’intera persona nel Signore, con estrema naturalezza viveva davanti a Lui tutti i momenti della giornata. L’esistenza era profondamente unificata e semplificata dal suo rapporto con il Signore. Scorrendo ciò che si dice di lei si ha la precisa sensazione di una persona continuamente immersa in Dio: per lei il Signore era una presenza viva, conosciuta e amata, una presenza che non lasciava spazi vuoti. In Lui ritrovava il significato e la consistenza del proprio vivere e del proprio agire, la radice della serenità che sempre l’ha accompagnata.
L’orientamento abituale verso Dio e l’attenzione amorosa alla Sua presenza sono dimostrati dall’intenso ritmo del suo pregare: in chiesa, in casa, nel viaggio tra la casa e lo stabilimen¬to, durante le pause del lavoro. Si è tentati di dire che non poteva non esplicitare con assiduità la relazione filiale con Dio, da lei intensamente sentita. Ad un’amica confessava: «A me piace tanto pregare: non smetterei mai».
La comunione quotidiana (alla quale si accostava anche a prezzo di sacrifici) era il momento privilegiato per stare con Colui che era il centro del suo cuore; il momento che la certificava che il Signore era sempre con lei: «Senza la Santa comunione la giornata mi sembra vuota», così diceva alla stessa amica. Rapporto d’amore non di paura come sovente era proposto nella predicazione di allora. Nel regolamento di vita (abbastanza comune) si legge: «Al suono di ogni ora penserò a Gesù e a Maria, con una giaculatoria o uno sguardo d’amore». Il suo direttore spirituale testimonia: «Sentiva e vedeva Dio come il bimbo: ispiratore e guida di ogni sua azione. La sua azione era impregnata di Dio. Le riusciva quasi duro «materializzare» questa presenza di Dio con le giaculatorie che per il suo spirito erano quasi una interruzione del sereno svolgersi di questa dolce presenza».
Pur non potendo dire molto sul contenuto del suo pregare, le testimonianze citate, unitamente a molte altre, dicono che nel suo itinerario di preghiera si era pienamente realizzata una delle costanti dell’orazione cristiana, la legge di semplificazione.
Era entrata (non possiamo precisare il momento) in uno stato nel quale pregare è più un amore che un pensare, un cogliersi attenti e abbandonati in Dio più che molteplicità di atti.
Il voto di verginità era la proclamazione della gioia di appartenere totalmente a Dio, la traduzione visibile del muoversi del suo essere verso il Signore, del raccogliersi dell’intera sua persona nell’amore di Dio. Benché rinnovato ogni anno a Pentecoste coll’Immacolata, per lei era una scelta di vita definitiva. Per esprimere il senso di questa scelta ha trascritto la frase di S. Teresa «La Verginità è il silenzio profondo di tutte le cose». Lo Spirito Santo le aveva fatto intuire l’indicibile bellezza di Dio, l’inimmaginabile profondità dell’Amore Divino; tutto il resto impallidiva e si relativizzava. La dove l’uomo è domanda e attesa radicale era per lei risuonata, con attrattiva irresistibile, la Parola che colma ogni attesa e risponde ad ogni domanda. Le altre realtà non parlavano più, non avevano più la possibilità di far presa sul suo cuore già inondato della Parola. Era il silenzio che scaturiva dalla meraviglia di fronte al Mistero d’amore presente nella vita: se percepito, come lei lo ha esperimentato, lascia senza parola perché indicibile e perché mostra la vacuità di tanto parlare. Era il silenzio ripieno dell’ascolto di Dio; era il far tacere tutto ciò che poteva ostacolare l’ascolto di Dio ovunque parlasse.
Questo modo di vivere il rapporto con Dio spiega anche l’accettazione tranquilla della povertà della famiglia e dell’ambiente; l’impegno (trasformato in voto) di usare con parsimonia il denaro, di ridurre al minimo i propri bisogni; il suo vestire dimesso e lo sforzo per non farsi notare. Proclamava, a suo modo, che il Signore è la ricchezza definitiva, che il suo tesoro era in Lui, che tutto il resto propriamente non è tesoro per l’uomo e quindi non merita l’affanno della ricerca o la disperazione nell’assenza. Diceva con semplicità, però con la forza della vita vissuta, che il senso della vita umana non sta nei granai pieni o nei vestiti suntuosi, ma nell’accogliere il Regno già dato, nella gioiosa scoperta che comunque in Cristo Dio è Padre di ciascuno di noi, Padre che si rivela come Misericordia e generosità sconfinata. Proclamava che la grandezza dell’uomo deve essere misurata su questa iniziativa divina e non sulle cose possedute.
Da qui anche la sua vigilante attesa, la tensione verso il Paradiso, verso l’incontro con il Signore. Tra le giaculatorie da lei ricopiate (quindi presumibilmente preferite) si trova la seguente: «O Gesù, nascosto sotto le specie sacramentali, quando verrò mai a vedervi faccia a faccia?». Diversi testimoni riferiscono di averla udita più volte esprimere il desiderio di condividere la sorte di Maria Goretti, perché le avrebbe permesso d’incontrare Colui che invadeva la sua esistenza e irresistibilmente l’attraeva a sé. Lo Spirito che muove la Chiesa a desiderare e invocare ardentemente il ritorno del suo Signore, «Vieni Signore Gesù», ha creato in Pierina un’espressione particolarmente significativa, per ordinarietà e intensità, di questa vigilante attesa. Nel suo pregare, nella sua verginità, nella povertà intesa nell’accezione più vasta, risplendeva con particolare forza la speranza cristiana. Traspariva la certezza che il compimento dell’uomo lo si deve attendere da Dio secondo Cristo e non secondo i progetti umani; perciò è necessario essere attesa vigilante dell’Unico necessario e non addormentarsi su altro o vagare annoiati. Risuonava l’invito a essere disposta a tutto pur di non perdere Colui la cui «grazia vale più della vita», Colui che in Cristo si è rilevato sempre fedele all’uomo e capace di riempire, a modo suo, anche il vuoto radicale dell’uomo.

Abbandonata alla volontà di Dio

Questo modo di vivere e sentire il rapporto con il Signore la conduceva a interpretare l’esistenza secondo la tradizionale affermazione: «Fare la volontà del Signore».
L’espressione diceva e l’abbandono fiducioso alla provvi¬denza Divina e l’impegno a vivere ogni momento in conformità al progetto divino così come si rivelava nelle varie vicende.
Abbandono fiducioso in Dio. Di S. Teresina aveva ricopiato il seguente pensiero: «La mia vocazione: mi lascerò condurre come una bambina di un giorno solo». Sempre riferendosi alla santa di Lisieux così confidava ad una suora: «Che bello se fossi come una pallina, che non può più parlare, nelle mani del Signore, e stare dove lui mi butta». L’esperienza di Dio, ricordata sopra, le dava la certezza della Sua continua presenza amorosa ed efficace nel salvare tutti i momenti della vita umana, anche quelli segnati dal mistero del dolore. Presenza impegnata nell’aiutare l’uomo a crescere nell’apertura filiale verso di Lui, cioè nel si al dono Suo, nella santità. Presenza sempre de¬siderosa di offrire la Sua forza all’uomo, in particolare quando la sofferenza rischia di rinchiuderlo nella disperazione. Ad un’anima che le aveva partecipato le sue sofferenze scriveva: «Non è forse Gesù che prepara ai suoi discepoli la Croce? Le anime a cui vuole più bene le fa soffrire con momenti di angosce, di lotte, di consumazione, non altro che per amor suo. In quei momenti sembrerebbe che Gesù fosse lontano; invece sono i momenti che è più vicino». Frasi abituali nel discorso religioso; se lette alla luce della sua vita quotidiana assumono la densità di un’esperienza vera, seria e viva. Non ha mai smarrito la pace, neppure nei momenti difficili; con serenità ha accettato la rinuncia alla vita religiosa imposta dalle ristrettezze familiari. Non si sentiva «frustrata» per tale rinuncia perché la realizzazione di sé la riponeva nell’accogliere il progetto del Signore e non nell’attuazione caparbia dei propri disegni. Lui il Signore, comunque l’avrebbe aiutata a «diventare santa» anche nel mondo: questo era il realizzarsi che sognava.
«Fare la volontà del Signore» significava risponderGli attivamente e concretamente vivendo ogni momento secondo la «sapienza dello Spirito» rivelato nella storia di G. Cristo. «L’unico nostro pensiero sarà di essere sempre uniti a Gesù… S. Teresina gioiva in mezzo alle tribolazioni, il soffrire per lei era divenuto cosa abituale, minuto per minuto consumarsi», così nella lettera appena citata. «Minuto per minuto consumarsi»: forse queste semplici parole ci rivelano il segreto della sua vita. Considerare ogni momento della propria giornata e ogni situazione come l’appello concreto rivolto alla propria libertà dal Signore. E quindi rispondervi con amore, vivendo tutto in comunione con Lui, secondo la Sua «sapienza» e non secondo quella del «mondo»; in ogni azione accogliere la capacità d’amore donata dallo Spirito, la capacità d’assimilarsi sempre più a Colui che è l’Amore.
Pregava volentieri, con gioia serena affrontava il lavoro dello stabilimento, il servizio ai familiari, le prestazioni richieste dalla vita parrocchiale. E tutto con disinteresse, con l’indifferenza ignaziana: volere ciò che il Signore vuole, non badare ai propri interessi ma unicamente all’appello del Signore così come si configurava concretamente. Totale e filiale ubbidienza a Lui accettando la Sua Provvidenza sulla vita: era la cosa più importante perché solo così la sua esistenza poteva realizzarsi.
Ogni cammino di preghiera deve trovare una verifica nella vita, dimostrare la sua autenticità in una esistenza che cerca di unificarsi nella carità, di essere sempre più trasparente alla volontà di Dio. L’adesione costante e gioiosa di Pierina alla volontà di Dio, la comunione filiale con Lui vissuta in ogni attività sono la dimostrazione della genuinità del suo pregare, dell’autenticità del suo dialogo con il Signore. In lei non esisteva il falso dilemma (abbastanza diffuso nella religiosità del tempo): pregare o agire? Tutto era unificato dal consumarsi nell’amore, dall’abbandono fiducioso allo Spirito che rendeva la sua esistenza sempre più filiale.
Il motto-programma «Fare la volontà del Signore» spiega l’impegno a non mettersi in mostra, la sua umiltà, il suo lavorare instancabilmente in silenzio, l’accettazione tranquilla delle mortificazioni imposte dalla vita, la ricerca, non esagerata ma continua, di quelle volontarie. Questo clima di silenzio attorno alla propria persona era frutto del suo vivere nel segre¬to del Padre. Era esercizio di purificazione del proprio io da ogni tendenza esibizionistica e autocentrata per realizzarlo totalmente nell’abbandono in Dio, per «consumarsi» e identificarsi sempre più con Cristo obbediente al Padre, fino all’identificazione suprema nella morte. Il raccoglimento le serviva anche per «ricercare» e «raccogliere» nell’esistenza concreta le possibilità e gli inviti del Signore a camminare secondo la logica del Vangelo.
Il voto di obbedienza (come disponibilità a seguire le direttive del confessore e del direttore spirituale) le garantiva autenticità nella comprensione della volontà di Dio e l’aiutava a liberarsi da ogni mira personale per essere sempre pronta nell’offerta incondizionata al Signore.
A servizio dei fratelli

Il consumarsi per il Signore, la presenza continua e amorosa a Lui, l’aver unificato la sua persona nel conoscerlo, nell’amarLo e nel servirlo, trovavano nella carità verso il prossimo la concretizzazione privilegiata e il segno della loro verità.
Le testimonianze coralmente celebrano questa componente della spiritualità della beata Morosini evidenziandone molteplici aspetti; ricordiamo soltanto quelli da lei vissuti con particolare intensità.
Attenzione sollecita e concreta agli altri. Il suo animo verginale, appunto perché genuinamente tale, cioè affascinato dall’amore di Dio, non si sperdeva nel vago universalismo ma si rivolgeva alle persone concrete che entravano nella sua vita. Non le guardava per criticarle, anzi era sempre pronta alla comprensione e abilmente deviava i discorsi poco benevoli verso il prossimo. Le guardava con disponibile attenzione per scorgere le reali necessità, accoglierle nel suo cuore e, se possibile, soccorrerle prevenendo le stesse richieste. Erano i vari e molteplici bisogni dei familiari, lo sfogo di un’amica, il desiderio di compagnia degli ammalati, la miseria di chi era più povero di lei. Immersa in Dio, impegnata a comunicare con la Sua volontà (a volere con Lui), con e come Lui era rivolta agli altri per servirli secondo lo spirito della lavanda dei piedi. Nel silenzio di se stessa e immersa nella Parola, sapeva ascoltare le vere parole degli altri e unirsi alla loro realtà più profonda.
Un servizio svolto con naturalezza, come fosse dovuto, e con gioia. Era suo «dovere» dare e un diritto degli altri ricevere; dovere proprio di chi si lascia guidare dallo Spirito che è amore. Aveva pienamente compreso l’invito di S. Paolo «Non ab¬biate alcun debito con nessuno, se non quello di un amore vicendevole» (Rom. 14,8). Essere serva era l’imperativo del suo cuore trasformato dallo spirito di Colui che ha consumato la vita nel servizio dei fratelli. Un imperativo perciò amato e non sopportato come un fardello noioso.
Oggetto unico dei suoi desideri era la volontà di Dio colta soprattutto nel bisogno degli altri; aspirazione unica del suo cuore diventava il consumarsi nel Signore e come Lui diventare amore gratuito. Libera dai bisogni e dai progetti personali, suo progetto e suo bisogno erano le necessità degli altri. In que¬sto contesto il servizio, anche quando richiedeva sacrificio e pazienza, le offriva la possibilità di realizzare le attese del suo amore. Per questo nel suo volto e nel suo comportamento brillava la gioia tranquilla di chi vede esauriti i propri desideri, di chi sa che nel servizio Dio prende sempre più possesso della propria vita.
Il temperamento, l’ascesi, soprattutto la grazia del Signore avevano progressivamente trasformato il suo desiderio, e perciò anche la fonte della gioia. L’umiltà nell’uso delle cose e la mortificazione sono da considerarsi condizioni, alimento ed espressioni di questo suo configurarsi a Cristo servo.
Una carità gratuita, silenziosa e rispettosa. «Dimenticati, non ti difendere, silenzio come me», è una frase trascritta da Pierina.
Lo Spirito Santo, innamorandola di Cristo Crocifisso che nel silenzio indifeso della Croce si offre all’uomo, l’ha plasmata come memoria particolarmente significativa di quest’amore silenzioso e disarmato perché pura gratuità e disponibilità. Non rivendicava particolari diritti per quello che operava, non ricercava servizi brillanti, semplicemente esplicava quelli richiesti dalle circostanze anche se non considerati o non osservati:
«…in parrocchia era sempre disponibile per qualsiasi forma di attività di cui fosse richiesta».
Rispettosamente: «Mi sforzerò di sorridere sempre a tutti e di cedere con amabilità al giudizio degli altri, specialmente dei miei genitori e superiori», così un suo proposito. Delicata e rispettosa con tutti anche con coloro che non condividevano le sue scelte o la schernivano. Non ha mai preteso d’imporre agli altri il suo stile di vita o le modalità della sua esperien¬za di fede. Coraggiosa nel proseguire il cammino indicatole dallo Spirito Santo, con delicata fermezza resisteva alle critiche, alla incomprensione e alle sollecitazioni di chi giudicava esagerato il suo modo di interpretare il Vangelo. Contemporaneamente accoglieva con stima le altre modalità della sequela.
Una carità apostolica. Amando con e come il Signore sentiva fortemente l’impegno di offrire il proprio contributo per la salvezza dei fratelli. Questo sentire si esprimeva nella partecipazione attiva all’A.C., nel suo interessamento per le missioni e per il Seminario, nel collaborare alle diverse attività parroc¬chiali, nel desiderio di partire per le Missioni.
Si traduceva nel pregare: «…una delle costanti della sua preghiera era la conversione dei peccatori». Lo stile del suo apostolato è descritto eloquentemente dal direttore spirituale: «Non era una ragazza che si imponeva o che faceva apostolato per «professione». Era il complesso della sua personalità che negli altri poteva avere delle risonanze». Si è manifestato nella serena, anche se sofferta, accettazione di essere sostituita nell’incarico di delegata delle Piccolissime perché il parroco la considerava troppo antiquata. Anche qui dominava la categoria del «servo inutile»; offrirsi senza riserva a un piano di salvezza che ci supera e nel quale il nostro contributo è utilizzato da una sapienza misteriosa. Servizio costante. La sua esistenza, vivificata dal rapporto permanente con il Signore, e dall’impegno di assecondarne la volontà, appare unificata anche dall’impegno di donarsi agli altri in ogni circostanza, dalle più semplici alle più impegnative. Il consumarsi per il Signore si traduceva nel consumarsi per gli altri. Non c’erano spazi vuoti nel rapporto con il Signore, non si davano interruzioni nel suo essere presente al prossimo. Il raccoglimento (il silenzio) non la distaccava dalla realtà, anzi, unendola al Signore, la rendeva aperta e disponibile alla vera realtà degli appelli delle persone incontrate.

Martire

Nel martirio, con la grazia del Signore, ha portato a compimento questo suo modo di vivere la dedizione incondizionata della fede; sono usciti dal silenzio gli orientamenti che avevano informato l’intera sua esistenza.
Il martirio è il consegnarsi definitivo a Dio nella speranza e nell’amore. E’ affidare ciò che si è di attesa di vita e di desiderio di pienezza all’amore fedele del Padre, nella certezza che Lui realizzerà ciò che ha promesso; è affidarsi quando i1 desiderio e l’attesa sono smentiti dalla morte. Pierina, con l’aiuto dello Spirito frutto dell’obbedienza pasquale di Cristo, ha potuto vivere con pienezza il «Nelle Tue mani affido ciò che sono di attesa e di desiderio» perché in ogni momento si era consegnata al Signore. Sempre si era offerta a Dio con totale fiducia operando il discernimento nell’orizzonte della fede; la sorreggeva la certezza che Lui avrebbe realizzato il suo progetto di renderla figlia come Gesù.
Si era fidata di Lui nell’interpretare la sua vita, nell’interpretarla come servizio, nel perderla per gli altri; si è fidata di Lui quando si è trattato di perderla nel modo più radicale. Non ha perso la vita per la difesa dell’onore sociologicamente inteso, ma, come aveva più volte detto, per non peccare, cioè per non rompere il legame di fiducia con il Signore. Per affermare che la persona umana non può essere cosificata dalla concupiscenza altrui, perché è una libertà che ha come Tu definitivo Colui che è amore infinito, libertà assoluta e piena accoglienza.
Il martire proclama che il Bene ultimo dell’uomo è Dio; e appunto perché ultimo per Lui si è disposti a rinunciare ad ogni altro bene, vita compresa. In Pierina l’atto di speranza fi¬nale è stato preparato, pur rimanendo sempre una grazia, dall’attesa vigilante già ricordata, dalla tensione verso Dio che l’aveva guidata nella rinuncia a tanti beni per Colui che è il Bene. Nella Chiesa primitiva si scorgeva un legame intimo tra verginità e martirio, perché ambedue testimoniano esplicitamente la speranza cristiana: la fecondità dell’esistenza umana può essere attesa solo come dono di Dio, perché è Dio stesso.
La verginità, il silenzio della sua persona, la povertà di sé per dare agli altri, erano il frutto e le condizioni di questa vigilante attesa che ha trovato l’inveramento definitivo nella morte.
Il consegnarsi sperante del martirio non può sussistere se non è sostenuto da un amore intenso per Dio amato sopra ogni cosa, ubbidito per amore fino allo spogliamento di se stessi.
«Il fare la volontà del Signore», nel senso ricordato, ha rappresentato il cammino quotidiano nel quale lo Spirito ha progressivamente ampliato la capacità di amare di Pierina fino al dono supremo, rivelatore dell’intensità della carità verso Dio vissuta con costanza nel quotidiano.
Anche per questo aspetto il martirio e la verginità erano considerate strettamente collegati: doni di grazia concessi all’uomo per esprimere con particolare evidenza la natura totalitaria dell’amore a Dio che nasce dalla fede cristiana. Per proclamare la possibilità donata all’uomo di rispondere con un sì totale al donarsi radicale del Padre nella morte di Cristo.

Credente «insolita»

Pierina ha mostrato cosa comporti vivere la fede cristiana seriamente, cioè affidarsi incondizionatamente allo Spirito di Cristo nel discernimento e nelle scelte quotidiane. Ha dimostrato che ciò è possibile anche nelle condizioni comuni intessute di fatiche, doveri da compiere, preoccupazioni, imprevisti, gioie semplici, rapporti logoranti e richieste continue. Forse per questa «serietà nella fede» è, pur nella sua semplicità, «insolita»: «Nella misura in cui un cristiano professa la sua fede e tenta di viverla, egli diviene insolito per i credenti e per i non credenti… l’insolito del cristiano è unicamente e semplicemente la sua somiglianza con Gesù Cristo. La somiglianza con Gesù Cristo inserita in un uomo col Battesimo e che attraversando il suo cuore gli arriva come a fior di pelle… Questo «insolito» non è conferito al cristiano dell’essere un uomo notevole e notato. E’ il rifiuto e l’accusa nella propria vita di tutto ciò che può incrinare la propria somiglianza con Gesù Cristo. (M. Delbrèl).
Per Pierina questo «insolito» è determinato in particolare dalla somiglianza con Cristo negli elementi fondamentali del suo profilo spirituale. Si deve sottolineare quest’«insolito» cioè questa conformità al Figlio che si affida al Padre e perciò ai fratelli; questa adesione al Figlio la cui esistenza è stata un cammino continuo verso il Padre nel servizio dei fratelli. Solamente così si colgono le ricchezze operate in lei dallo Spirito Santo, si comprende la natura cristiana delle sue scelte, si percepisce «l’originalità» della sua religiosità rispetto a quella del suo tempo.
Giustamente si evidenziano i legami tra l’ambiente religioso dell’epoca (famiglia, parrocchia, Azione Cattolica) e la sua vicenda spirituale. A proposito di questi legami mi sembrano opportune alcune precisazioni. Il santo non è una ricchezza che la Chiesa possa esibire come proprietà sua perché frutto innanzitutto dell’opera dello Spirito Santo. La Chiesa antica ricordava queste verità specialmente per i martiri. Coloro che sacrificavano la vita per Cristo erano chiamati «martiri» (= testimoni) non perché dimostravano con coraggio (testimoniavano) la loro fedeltà a Dio, ma perché nel loro gesto si rivelava la forza dello Spirito di Cristo Risorto. Lo Spirito agiva nel martire aiutandolo a ripetere il gesto di Cristo sulla Croce. Il morire per la fede dimostrava (testimoniava) che Cristo era veramente Risorto e continuava ad agire nei suoi fedeli, proseguiva il suo cammino nel cammino dei discepoli, la sua morte nella morte dei credenti.
Pierina è certo frutto dell’ambiente ma più ancora dello Spirito che ha operato in lei «grandi cose», critiche anche nei confronti dell’ambiente.
Sono noti alcuni limiti (o rischi) della religiosità dell’epoca: il pregare considerato più come «dovere» da compiere che dialogo personale con il Signore, che «un far compagnia al Signore». L’eccessivo proliferare di devozioni poteva attenuare la centralità di Cristo. L’accettazione tranquilla dei valori cristiani da parte della coscienza sociale e dell’ambiente non ra¬ramente produceva un certo conformismo o una religione delle norme. L’ascesi sovente era celebrata come valore in sé; l’esperienza religiosa non sempre si allargava al coinvolgimento dell’intera esistenza.
Mi sembra che in Pierina questi limiti siano stati decisamente superati e i rischi evitati; in lei possiamo perciò contemplare i frutti migliori di quella feconda stagione ecclesiale. Anche in lei troviamo il «dovere della preghiera», ma è un «dovere» che nasce da un cuore trasformato dallo Spirito filiale; è la «necessità» del figlio di dialogare con il Padre, di guardarLo con amore disponibile. Pure lei praticava le devozioni più diffuse, però il centro della sua esperienza di fede rimaneva il rapporto personale e radicale con il Signore. Le devozioni erano espressioni particolari di questo rapporto e momenti per alimentarlo. Seguiva le norme comunemente accettate ma, fondandole nel Signore, le superava secondo la logica della libertà dello Spirito: era la vera religione del Signore e non delle regole.
L’ascesi sgorgava e rifluiva nell’amore di Dio, cioè nella co¬munione profonda con Lui. E’ significativo che le tre frasi da lei ricopiate siano di sapore mistico e non ascetico, mettano al centro l’esperienza della grazia del Signore e non lo sforzo umano. Il rapporto con il Signore, intimamente vissuto, determinava ogni suo comportamento, in particolare guidava i suoi rapporti con gli altri. La carità da lei praticata non la si ritrovava facilmente neppure tra i buoni cristiani delle nostre parrocchie.
Era «ordinaria» e «insolita» insieme; viveva il «quotidiano ordinario» ma con motivazioni più cristianamente centrate, con intensità d’amore particolare, alla luce della «sapienza evangelica», lasciandosi guidare dallo Spirito e non dalla norma arida.
La sua vicenda ci ricorda che l’efficacia di una vita cristiana (e quindi della storia di una comunità cristiana) non sta nell’’efficientismo apostolico perseguito ad ogni costo, nell’efficacia visibile e subito verificata del nostro agire. E’ radicata nella qualità della fede, nell’adesione incondizionata a Cristo, nella logica pasquale che ci sollecita a partecipare alla morte di Cristo quale gesto d’obbedienza filiale al Padre e d’amore fraterno per gli uomini.
Non a caso la sua vicenda si sviluppa negli anni cinquanta quando nelle nostre parrocchie fervevano numerose iniziative pastorali, per molti aspetti lodevoli. Con la vita della beata Morosini e, in particolare, con il suo martirio (la morte è una sconfitta, è inefficace nella lotta per la vita) lo Spirito ha voluto, forse, ricordare alle nostre comunità che il vivere cristiano è fruttuoso solo se partecipa al sì di Cristo. Certamente l’obbedienza al Padre deve coinvolgere l’intera esistenza, deve diventare visione della realtà, sapienza di vivere, impegno concreto nella storia; deve, in una parola, essere il centro unificatore della persona e del suo agire. E’ il minimo e il massimo della fede cristiana e quindi della sua efficacia storica.
Ci ricorda che per essere attenti agli altri e condividerne le necessità si devono semplificare i propri desideri e trasformare in proprio progetto il bisogno degli altri. La sua testimonianza si è completata alla vigilia del boom economico e dell’irrompere del benessere nelle nostre povere contrade. Con il benessere sono arrivate tante altre realtà non proprio positive. Tra queste la perdita (o l’attenuarsi) della capacità di condivisione, caratteristica di chi non si limitava a subire la povertà ma l’accettava serenamente perché aveva scoperto il vero tesoro. Pierina ci ricorda che non è possibile un’autentica condivisione se il cuore non considera quale suo tesoro quel Padre che in Cristo si è rivelato «condivisione».

IMPRIMATUR
Bergomi, 31 octobris 1987
† IULIUS OGGIONI, Episcopus

[Testo della relazione di Mons. Roberto Amadei ai sacerdoti diocesani e religiosi presenti a Fiobbio il 7 ottobre 1987]