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01 settembre, 2022

Rosario Livatino nel ricordo del cugino Salvatore Insenga

 Rosario Livatino nel ricordo del cugino Salvatore Insenga

di Francesco Inguanti
Salvatore Insenga è il cugino di Rosario Livatino. Lo abbiamo incontrato al Meeting di Rimini all’ingresso della mostra del magistrato ucciso dalla mafia e gli abbiamo chiesto di riscostruirne il ritratto dall’interno della famiglia.
Qual era con precisione il rapporto di parentela con Rosario Livatino?
Io e Rosario eravamo cugini, perché mia mamma e suo papà erano fratello e sorella. Siamo entrambi figli unici, quindi non ci sono altri cugini in famiglia. Con lui si estingue quel ramo della famiglia Livatino, anche se ci sono altri Livatino che sono parenti appartenenti ad un altro ramo.
Rosario era più grande di lei?
Tra me e lui ci sono 18 anni di differenza. Quindi io da bambino lo ricordo già universitario.
Che cosa ricorda di quei primi anni?
Il ricordo più caro è questa foto scattata per una festa di compleanno. Lui non era ancora laureato. Questa foto mi è cara perché è l’unica in cui lui è rivolto verso la macchina fotografica e sorride. Il piccolo in braccio sono io. Più avanti ci fu un avvenimento che cambiò le nostre vite e il nostro rapporto.
Quale?
La morte di mia nonna a seguito della quale il nostro rapporto si intensificò molto. Io avevo 12 anni e lui era già magistrato. Come era uso in quei tempi, la famiglia decise di affidarmi idealmente e non solo idealmente a lui. In quei giorni successivi al lutto, lui si occupò in tutti i modi di me, facendomi compagnia, consolandomi, mi distraeva in tutti i modi, mi comprava il gelato. Mi ha aiutato ad affrontare l’adolescenza. Da lì è nato un rapporto che da quel momento in poi si è fatto sempre più significativo.
Ma poi lei cresceva e diventava adolescente. Come cambiavano le cose?
Man mamo che io crescevo in conoscenza, curiosità, domande, (in quel periodo mi proclamavo ateo, avevo 16 anni, eravamo nel 1986) il rapporto si incrementava tra telefonate e incontri (la mia famiglia abitava a Palermo e la sua a Canicattì), e altro perché lui ci teneva a questo rapporto. Avevamo fortissimi scambi di opinioni.
Ma c’era sempre una certa differenza di età. Come influiva?
Certo, lui era già un uomo maturo, però mi provocava, mi stuzzicava, mi portava a intuire le cose, non mi dava mai risposte compiute. È stato per me una sorta di “precettore” sia dal punto di vista politico, cioè nell’accezione di polis, sia da un punto di vista religioso.
E quando divenne ancora più grande?
Mi iscrissi a Lettere e quindi erano molti gli spunti di discussione. Inoltre, sei mesi dopo la sua morte, io ho perso mio padre, perdendo così in breve tempo le due guide autorevoli della mia persona. Ed impressi una svolta alla mia vita.
Quale?
Decisi di lasciare Lettere per fare Teologia, all’Istituto di Scienze Religiose di Monreale. I miei maestri furono Francesco Conigliaro, Cosimo Scordato, ed anche altri che mi ricordavano in alcuni aspetti il modo di ragionare di mio cugino Rosario. Ricordo in particolare che Rosario chiedeva sempre la mia opinione. C’era una sorte di “corrispondenza d’amorosi sensi”, anche a livello letterario ma non solo, infatti, discutevano anche di cinema e teologia.
Perché a livello letterario?
Perché se vuoi conoscere Rosario devi leggere quello che lui leggeva. Non era solo un magistrato competente e basta, era un finissimo intellettuale che di professione era magistrato, ed era dotato di grande spiritualità. Ho imparato moltissimo da lui.
Un ricordo particolare?
Quando a 16 anni ero prossimo alla conversione ricordo che mi diceva presso a poco così: “non è importante che tu creda in Dio perché tanto Lui crede in te”. Questa espressione modificò il mio modo di ragionare; nel nostro rapporto vedevo che lui parlando con me parlava anche con sé stesso. Lui stava dandosi le risposte. Parlare con un ragazzo come me gli serviva per ritornare ragazzo, per ritrovare forse quella genuinità tipica dei giovani Quindi eravamo cugini atipici.
Voi in famiglia cosa percepivate del suo lavoro?
La sua professionalità emergeva nel “come”; nel come si portava il lavoro a casa, nel come assiduamente ci lavorava, nel come non si disperdeva mai quando lavorava. Per lui il lavoro era il lavoro. Però nel momento in cui lasciava il lavoro, esisteva la famiglia, e riusciva a trovare il tempo per i suoi genitori, per me e per tutti. Non mi telefonava quando lavorava, ma quando aveva tempo per potermi chiedere come stavo e cosa stessi facendo. E le telefonate non erano mai brevi né formali.
Ma del contenuto del suo lavoro cosa sapevate?
Lui non parlava certo del contenuto del suo lavoro, ma certamente del suo valore, del concetto del giudice, dell’interesse che aveva per l’anima degli altri. Questa attenzione per le persone e per le loro anime l’ha ricevuta da suo nonno.
Chi era suo nonno?
Il nonno era stato sindaco dal 1920 al 1923, in un tempo molto difficile. Si era dimesso con l’avvento del Fascismo poiché non ne condivideva i valori. Era uomo di grande personalità, avvocato, sindaco, antimafioso e antifascista. So dai racconti di mia madre, che ha fatto da balia a Rosario quando era piccolo e che era anche la sua madrina di battesimo, che erano simbiotici. Da lui ha ereditato e ha trasmesso a me e alla famiglia non solo la passione per gli studi giuridici, ma per la giustizia. Fin da bambino respirava in famiglia l’aria che lo portò a fare il magistrato.
Che rilievo ha avuto ed ha questa figura nella sua famiglia?
Ho tre figlie. La grande vive la figura di Rosario con distacco, perché ne avverte una sorta di paura; lo vede come una figura molto alta e colta e quindi difficile da raggiungere. La seconda invece vorrebbe ripercorrerne la strada e non a caso si è iscritta a giurisprudenza. La terza è ancora al liceo psico-pedagogico ed ha una spiccata tendenza nei rapporti con i ragazzi diversamente abili, che ha ereditato proprio da Rosario.
Torniamo alla formazione di Rosario.
Conosceva benissimo i “sacri testi” del marxismo come altrettanto bene conosceva tutti gli autori cattolici. Era poi particolarmente affezionato e competente di San Paolo VI. Le encicliche sociali di Montini erano per lui come una seconda Bibbia. Ecco perché per capire che tipo di giudice fosse Rosario, bisognerebbe leggere tutti i libri che sono conservati nella Casa Museo.
Cosa vi si trova e come si può visitare?
All’interno della casa Museo vi sono conservati tutti gli oggetti tra i quali è cresciuto e basta rivolgersi ai suoi custodi che prontamente la aprono. È un museo ma dovrebbe essere considerato anche un luogo di culto.
Come è nata la sua scelta di fare il magistrato?
Ho già detto dell’aria che ha respirato in casa. Da piccolo si sapeva che avrebbe fatto giurisprudenza, anche se non necessariamente il giudice. Magari avrebbe fatto l’avvocato, visto che il nonno e il padre erano avvocati.
E della pericolosità del suo lavoro faceva cenno in famiglia?
Mai. La scelta di non avere la scorta si accompagnava anche al fatto che tutta la famiglia e il vicinato vivevano con fastidio il via vai di auto della polizia che transitavano nei pressi. Ma probabilmente il motivo principale fu, come i fatti gli hanno dato ragione, di non coinvolgere altri in un ipotetico attentato.
Quindi la notizia della morte cruenta fu inaspettata?
Nessuno sapeva quali pericoli correva e lui faceva di tutto per occultarli; basti pensare che il giornalaio presso cui si recava tutti i giorni non sapeva che fosse un giudice.
Qual è la più grande eredità che ci lascia suo cugino?
La sua più grande eredità è una vera e propria “rivoluzione Copernicana”: lui non era semplicemente contro la mafia e più in generale contro l’illegalità, lui era sempre pro giustizia e pro legalità. Vedeva nell’altro sempre l’uomo e Dio anche se in quel momento era eclissato dalle azioni delittuose e viveva nella speranza che un giorno sarebbe “risorto”, proprio come Cristo.




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