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12 maggio, 2008

12 maggio 2008, moriva Irena Sendler

Il 12 maggio 2008, moriva Irena Sendler.

Irena Sendler, era una donna polacca che ha creato una rete di soccorritori in Polonia che ha contrabbandato circa 2,500 bambini ebrei fuori dal ghetto di Varsavia nella Seconda Guerra Mondiale, alcuni dei quali nelle bare, è morta lunedì a Varsavia.
Signora. Sendler era a capo dell'ufficio bambini di Zegota, un'organizzazione sotterranea creata per salvare gli ebrei dopo che i nazisti invasero la Polonia il 1 settembre 1939. Subito dopo l'invasione, circa 450,000 ebrei, circa il 30 % della popolazione di Varsavia, erano stipati in una piccola parte della città e barricati dietro mura alte sette metri.
Il 19 aprile 1943 i nazisti iniziarono ciò che si aspettavano sarebbe stata una rapida liquidazione del ghetto. Ci hanno messo più di un mese a sedare la rivolta del ghetto di Varsavia. A quel punto, solo circa 55,000 ebrei erano ancora vivi; la maggior parte dei quali erano stati mandati nei campi di morte.
Anche a quel punto, però, la signora Il gruppo di Sendler di circa 30 volontari, per lo più donne, era riuscito a far scivolare in sicurezza centinaia di neonati, bambini piccoli e adolescenti.
′′ Lei è stata l'ispirazione e il primo traslocatore di tutta la rete che ha salvato quei 2,500 bambini ebrei," Debárah Dwork, ha detto lunedì la professoressa di storia dell'olocausto alla Clark University in Massachusetts. Il professor Dwork, autore di ′′ Bambini con una stella ′′ (Yale University Press, 1991), ha detto che circa 400 bambini erano stati direttamente contrabbandati dalla signora. Sendler.
Elzbieta Ficowska, bambina nel 1942, era una di queste. ′′ Signora Sendler ha salvato non solo noi, ma anche i nostri figli, nipoti e le generazioni che verranno," Ms. Ficowska ha detto alla Associated Press.
Ci sono stati diversi corpi con cui i bambini sono stati salvati. Signora. Sendler era un assistente sociale della città, con un lasciapassare che le permetteva di entrare nel ghetto. ′′ Gli ebrei erano tutti portatori di malattie, per quanto riguarda i nazisti," ha detto il professor Dwork. ′′ Hanno messo cartelli di quarantena in tutto il ghetto." Dimentiche del pass governativo hanno permesso di entrare anche altri membri di Zegota nel ghetto. Sono entrati giorno dopo giorno per convincere i genitori ebrei a lasciare che salvano i bambini.
La via di fuga più comune, ha detto il professor Dwork, è stata attraverso i tribunali di diritto municipale di Varsavia, che hanno abuttato il ghetto.
′′ C ' erano corridoi sotterranei che avevano ingressi sul lato ghetto," ha detto. ′′ La polizia polacca è stata corrotta per consentire il traffico. Ai genitori è stato detto di vestire i bambini il più possibile, certamente senza indossare una stella."
Per un po ' i confini del ghetto si estendevano al cimitero ebraico. ′′ Alcuni bambini sono stati messi nelle bare, le loro bocche registrate, o sono stati sedati per non piangere," ha detto la signora. Stahl, della fondazione ebraica. ′′ Altri bambini sono stati contrabbandati in sacchi di patate."
A volte un carro ambulanza, con un autista accompagnato da un cane, portava i bambini attraverso i cancelli. ′′ I bambini erano sotto il pavimento," Signora Ha detto Stahl. ′′ Il cane che abbaia annegherebbe le grida di un bambino."
Una chiesa ha attraversato il confine con il ghetto. ′′ I bambini verrebbero portati in chiesa, andrebbero nel confessionale e usciranno con i documenti come un po ' cattolico," Ms. Ha detto Stahl. Sarebbero portati in una casa cristiana, in un convento o in un orfanotrofio.
In una lettera al Senato polacco dopo che il suo paese ha finalmente onorato i suoi sforzi, signora Sendler scrisse: ′′ Ogni bambino salvato con il mio aiuto e l'aiuto di tutti i meravigliosi messaggeri segreti, che oggi non vivono più, è la giustificazione della mia esistenza su questa terra, e non un titolo alla gloria."
Nel 1965, signora Sendler divenne uno dei primi dei cosiddetti gentili gentili onorati dal memoriale dell'Olocausto Yad Vashem a Gerusalemme. I leader comunisti della Polonia non le hanno permesso di viaggiare in Israele; le è stato consegnato il premio nel 1983.
Irena Krzyzanowska nacque a Otwock, in quella che oggi è Polonia, a Feb. 15, 1910. Suo padre era un medico. Il suo matrimonio con Mieczyslaw Sendler è finito con il divorzio dopo la Seconda Guerra Mondiale. Il suo secondo marito, Stefan Zgrzembski, è morto prima di lei. È sopravvissuta da sua figlia, Janka, e da una nipote.
Signora. Una volta Sendler disse alla signora. Stahl che voleva scrivere un libro sul coraggio delle madri ebree.
′′ Lei ha detto," Signora Stahl ha ricordato: ′′ Eccomi qui, uno sconosciuto, chiedendo loro di mettere il loro bambino nelle mie cure. Mi chiedono se posso garantire la loro sicurezza. Devo rispondere no. A volte mi davano il loro bambino. Altri tempi direbbero di tornare. Sarei tornato qualche giorno dopo e la famiglia era già stata deportata. ′′ ′′






15 agosto, 2003

Benedizione irlandese

 Benedizione irlandese

Possa la fortuna essere tua
e possano le tue gioie non avere mai fine.
Possa la strada venirti incontro,
il vento essere sempre alle tue spalle
il sole riscaldarti il viso
e la pioggia cadere dolcemente sui tuoi campi
e fino a quando ci rincontreremo
possa Dio tenerti nel palmo della sua mano.

Possano le gocce di pioggia cadere dolcemente sulla tua fronte
i dolci venti rinfrescarti l’animo
il sole illuminare il tuo cuore
i pesi della giornata essere leggeri su di te
e possa Dio circondarti con il mantello del suo amore.

Ci sia sempre lavoro da fare per le tue mani
possa il tuo borsellino contenere sempre una o due monete
il sole risplendere sempre sul vetro della tua finestra
un arcobaleno seguire sempre ogni pioggia
la mano di un amico essere sempre vicino a te
possa Dio colmarti il cuore di gioia per rallegrarti.

Possa tu sempre avere…
un raggio di sole per riscaldarti
buona fortuna per deliziarti
un angelo protettore
così che niente ti possa far male
riso per rallegrarti
ed amici fedeli accanto a te
ed, ogni volta che pregherai,
possa il cielo ascoltarti.

Possa essere tua memoria sempre una benedizione per tutti noi.




21 giugno, 2003

È morta la Signora Corbo Rosalia in Livatino

È morta venerdì notte, dopo una lunga malattia, Rosalia Corbo, l'anziana madre del giudice Rosario Livatino, ucciso dalla mafia il 21 settembre del ' 90. Soffriva da tempo di insufficienza renale, per questo era in dialisi, aveva 78 anni Dopo l'assassinio del figlio, la donna era diventata uno dei simboli del movimento antimafia, i Livatino avevano incontrato anche il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi e Giovanni Paolo II, che avevano lodato l'impegno civile della donna e dell'anziano marito, Vincenzo. Per una singolare coincidenza, la donna è morta poche ore dopo la trasmissione "Miracoli", di Rete 4, che proprio sabato sera aveva parlato a lungo della storia del magistrato e di un presunto miracolo che gli viene attribuito. Già da qualche anno, la curia di Agrigento ha iniziato l'istruttoria per avviare il processo di beatificazione del giudice assassinato dalla mafia. 




16 maggio, 2000

Mamma Rosalia Corbo, la radice campobellese del Beato Rosario Livatino

 Il 21 Settembre 1990 veniva barbaramente assassinato dalla mafia Rosario Livatino, il Giudice Rosario Angelo, per il suo alto senso del dovere e del ruolo che ricopriva quale funzionario dello Stato! Ho visto per la prima volta Rosario Livatino mentre ero in campagna con mio padre, a Serra Vicie’, contrada a pochi passi dal centro abitato di Campobello di Licata (AG), nel terreno di nostra proprietà. Lui, quasi giovinetto, accompagnava il padre Vincenzo, che aveva l’abitudine di tanto in tanto di ispezionare il fondo agricolo percorrendo a piedi il confine, la finalità, per constatarne l’integrità del bene della moglie! Avevamo il terreno a confinare anche se lo avevano dato a terraggio ad un certo Caizza; quel giorno si fermò una Fiat 1100 bianca (almeno così ricordo) nella parte carrabile della stradella in battuto e scesero entrambi, l’avvocato Livatino e il figlio Rosario, che forse fu coinvolto a prendere consapevolezza delle proprietà di famiglia. Ci salutarono educatamente procedendo nel loro intento. Appena allontanati, mio padre mi disse chi erano e qui le spiegazioni, integrate con le mie attuali conoscenze! L’avv. Vincenzo Livatino padre di Rosario aveva sposato Rosalia, figlia di Maria Bella di Campobello e del colonnello dott. Angelo Corbo oriundo di Canicattì, nel periodo Direttore del Banco di Credito Canicattinese di Campobello.  Marietta Bella, come veniva appellata, nonna del Giudice Rosario, era appartenente alla nota famiglia benestante locale dei Bella, figlia del Cav. Vincenzo Bella (1962-1955) podestà di Campobello (1927-1932) e di Sillitti Carmela, che aveva portato in dote cospicue proprietà terriere del nostro territorio, specie in contrada Serravincenzo, che per la loro estensione furono attraversate negli anni ’70 del Novecento dalla variante esterna della SS.123. Abitavano in Via Dante n. 7, vicino la Chiesa Madre, con l’appartamento prospiciente sulla Via Umberto e sotto quella casa c’era una specie di stanza, che era più una grotta che una stanza e lì vi abitava la “sciampuliddra”, per gentile concessione della signora Bella che in grazia di questa locazione Le faceva da governante (nota del sig. Renato Cammarata). Sembra che il Colonnello Corbo nella sua qualità di Direttore di Banca abitasse anche nello stesso piano dell’istituto di credito, accanto alla Tabaccheria di don Angelo Gallo, ereditata dal nipote Angelo Capizzi, recentemente scomparso, attività poi trasferita nei pressi del Comune, dov’è tuttora. Ciò, fino alla richiamata alle armi del dott. Angelo. Difatti, da una nota del 23 Febbraio 1940 (XVIII) di P. Di Prima, Direttore della Società Banco Di Credito Canicattinese, con sede a Canicattì, indirizzata alla filiale di Campobello e al sig. Sebastiano Bella, azionista della Società, si evince l’invito alla sostituzione temporanea per la chiamata alle armi del dott. Corbo con il cassiere dell’istituto avv. Giovanni Ciotta (1909-1969).

Dunque, la figlia Rosalia Corbo madre del Giudice Rosario, come da atto di battesimo n. 24  del 1926 presso l’Archivio della parrocchia San Giovanni Battista di Campobello, nacque a Campobello di Licata il 16 Maggio 1925 e fu battezzata in chiesa dal sacerdote Salvatore Lo Vasco giorno 23 Marzo 1926, essendo padrino il nonno don Vincenzo Bella (1862 -1955) figlio di Stefano (1829-1907) e Sillitti Maria, quest’ultimo figlio di don Giuseppe Bella (1795-1831) e La Lomia Rosaria (1808-1848) andata in sposa a soli 13 anni il 16 Febbraio 1822 (da una nota del compianto Ugo Bella). Ritornando, dell’infanzia, dell’adolescenza e della giovinezza di Rosalia non sappiamo quasi nulla ma benissimo possiamo immaginare l’ambiente agiato della sua famiglia d’origine, l’istruzione collegiale e la formazione sotto sani principi morali e cristiani che connoteranno tutta la sua vita e che trasferirà nell’educazione al figlio Rosario. Contrasse matrimonio all’età di 25 anni, il 13 Ottobre 1951, appunto con Livatino dott. Vincenzo dell’avv. Rosario che fu sindaco di Canicattì (1920-1922) e il rito nuziale fu celebrato nella casa del Sig. Palumbo Pietro, Via Palestro n. 4, a Canicattì, alle ore 9,30; l’anno successivo il 3 Ottobre 1952 la signora diede alla luce il nostro nuovo Beato Rosario Angelo al quale com’è evidente gli furono imposti i nomi dei nonni, paterno e materno, il battesimo fu celebrato il 7 Dicembre successivo nella Chiesa Madre di Canicattì dall’arciprete mons. Vincenzo Restivo, mentre padrini furono la zia Alfonsa Livatino sorella del papà di Rosario e Angelo Corbo, papà di Rosalia.  Il bambino crebbe alla luce degli insegnamenti familiari dove la formazione cristiana ebbe un ruolo importante specie dalla figura materna che, come da molteplici testimonianze e di vivi ricordi, spesso andava a trovare mamma Marietta con il figlio Rosario, arrivava da Canicattì col pullman facente capolinea davanti il sagrato della Matrice a due passi dall’abitazione degli anziani genitori che per una forma di schizofrenia della madre erano costretti a convivere in stanze e appartamenti separati, ciò per la fobia ripetuta della donna di sequestrare il marito, forse dovuta a gelosia, da ciò il detto locale “ncucciasti  Cuorbu!”, riferito alla riuscita dell’intento. Ma nonostante tutto l’anziana e aristocratica signora era affabile e manteneva rapporti di buon vicinato. Per la profonda devozione campobellese verso la Madonna dell’Aiuto non è artificioso immaginare il sostare di Rosalia all’altare della Vergine, appena il tempo di una preghiera, specie nel giorno di solennità, magari tenendo per mano il figlio Rosario e soffermandosi a scambiare due parole con l’anziano arciprete Cascio Bosco o qualche amica e conoscente. Spesso Rosario, inventandosi mille modi ludici, rimaneva a giocare da solo nella piazzetta della Vasca, allora piazza Ciano ed ora Aldo Moro, anche se frequentata da molti bambini suoi coetanei. Ed ancora, molti ricordano la sua figura adulta e smilza, impeccabile nell’abbigliamento, ma profondamente addolorata e composta alle esequie della nonna Marietta, mentre in silenzio procedeva il corteo funebre. Questo, il mio modesto contributo alla riscoperta delle radici di Rosario Angelo Livatino, Beato della Chiesa Cattolica, che in parte è figlio della comunità campobellese. Il resto della vita di mamma Rosalia, come affettuosamente viene ricordata, la conosciamo, specie per l’atroce dolore sopportato con quanta dignità per la morte del figlio unigenito, forse mitigato dall’incontro del Papa Giovanni Paolo II ad Agrigento che nel 1993 gli aveva preannunciato le virtù eroiche e cristiane di Rosario con l’avvio del processo canonico, oggi concluso positivamente, perciò accolto con entusiasmo dalla Chiesa universale e con grande gioia da quella agrigentina che esulta, non a caso nella ricorrenza dell’anatema contro la mafia lanciato dal Pontefice Wojtyla a Piano San Gregorio. Ringrazio Piera Accascio per avermi sollecitato questo contributo che sarà accolto nelle pagine del Bollettino Voce Nostra dell’Unità Pastorale Parrocchiale “Maria Madre della Chiesa” di Campobello di Licata, dove sono state effettuate le ricerche d’archivio coadiuvato dall’amica Piera.





11 febbraio, 2000

Riccardo Cocciante & Scarlett Wollenmann - Io vivo per te




 Riccardo Cocciante & Scarlett Wollenmann - Io vivo per te


11 Febbraio 2000 per il Giubileo dei malati, Riccardo Cocciante riesce a convincere Scarlett Von Wollenmann, cantante britannica con la quale aveva collaborato nel 1994 con il brano "Io vivo per te", a partecipare alla serata Luci della speranza, trasmessa su Rai 2, dopo che un terribile incidente stradale l'aveva lasciata su una sedia a rotelle. Cocciante/Monti

Testo: È andata così
un'improvvisa passione
quando ti ho conosciuta
mi sei sembrata irreale
C'è voluto del tempo
del tempo poi per capire
capire se ci amavamo
sul serio e veramente
È sorpassato lo so
parlare così di noi
ma io non trovo parole
per dirti solo che
Io vivo per te
io vivo di te
tu guidi i miei passi
tu mi aiuterai il tempo fa di me e di te
un tutto
Cercavo qualcuno intorno a me
un qualche cosa di più
l'introvabile forse
per stare insieme felici
C'è voluto del tempo
del tempo sai per trovarti
tu che sei quasi ideale
il tipo d'uomo per me
È sorpassato lo so
parlare così di noi
ma io non trovo parole
per dirti solo che
Io vivo per te
io vivo di te
tu guidi i miei passi
tu mi proteggerai
il tempo fa di me e di te
Qualche cosa di più
un rapporto ideale
te sei così diversa
tu sei l'uomo per me
È sorpassato lo so
parlare così di noi
ma io non so
come dirti
che vivo per te.

30 maggio, 1994

L' AMORE PER IL L'ALTRO FILM RITRATTO DI PADRE MASSIMILIANO MARIA KOLBE FRATE CAPUCCINO

L’uomo uscì dai ranghi – era il “numero 16670” – e con passo deciso si diresse verso il comandante del campo. Come un soffio di vento, un bisbiglio sommesso passò, da un “blocco” all’altro, per tutte le file del grande quadrato: «Chi è?»; «Che fa?»; «Ma cosa vuole?»; «È impazzito?». A ricordo dei superstiti più anziani di Auschwitz, nessuno, mai, senza un ordine preciso, aveva osato rompere le file, passare in mezzo ai compagni e soprattutto uscire sullo spiazzo aperto e muovere direttamente verso “Testa di mastino”.

L’infrazione alla ferrea disciplina del campo era così clamorosa e incredibile che avvennero due fatti altrettanto incredibili e clamorosi: il primo fu che nessuna delle numerose guardie che assistevano alla scena, use tutte a premere il grilletto alla prima mossa sospetta, lasciò partire un sol colpo; il secondo fu che il terribile Lagerführer Fritsch, vedendo venire verso di lui a passo fermo quell’uomo inerme, fece un balzo all’indietro estraendo fulmineamente dalla fondina la P38 dalla lunga canna: «Alt! – urlò con voce strozzata –. Cosa vuole da me questo porco polacco?».

 

Lungo le file del grande quadrato passò di nuovo un bisbiglio sommesso: «È padre Kolbe!…»; «Sicuro, è padre Massimiliano Kolbe!… »; «È il francescano di Niepokalanòw!… ».

Il “numero 16670” aveva finalmente un nome: padre Massimiliano Kolbe, fondatore di Niepokalanòw, la “città dell’Immacolata”. Ma cosa voleva dal purosangue germanico Fritsch quel «porco polacco»?

Si tolse il berretto e si pose dignitosamente sull’attenti davanti al comandante del campo. Era calmo e sorridente negli occhi dolci, alto al punto che la magrezza lo faceva allampanato, pallido in volto da parer diafano, la testa leggermente inclinata a sinistra.

Disse, quasi sottovoce: «Vorrei morire al posto di uno di quelli», e fece un cenno con la mano verso il gruppo dei dieci condannati al bunker, serrati fra gli sgherri.

 

Nello sguardo invasato di “Testa di mastino” passò l’ombra dello sbalordimento. Quello che aveva udito superava a tal punto ogni sua possibilità intellettiva, ch’ebbe, per qualche attimo, il dubbio di sognare. Eppure non sognava; e tuttavia lui, l’onnipotente che non ammetteva obiezioni ai suoi ordini, l’inflessibile che non ritornava mai su una decisione presa, il sanguinario che freddava chiunque recalcitrasse davanti a lui con un sol colpo della sua P38, lui, sotto la chiarezza di quello sguardo sereno, non trovò che una parola, per formulare una domanda.

«Warum?», (Perché?).

 

Non era mai accaduto che il Lagerführer Fritsch parlasse direttamente con un “numero” del suo campo, o, peggio, discutesse con lui.

Padre Kolbe comprese subito che un suo atteggiamento eroico, in quel momento, poteva guastare tutto. Meglio facilitare la ritirata del carnefice, che per la prima volta si trovava visibilmente in difficoltà, e spianargli la strada invocando un paragrafo non scritto, ma fondamentale, della legge nazista: i malati e i deboli devono essere liquidati.

«Sono vecchio, ormai, e buono a nulla
– rispose –. La mia vita non può più servire granché…».
«E per chi vuoi morire?», boccheggiò Fritsch, sempre più interdetto.

«Per lui. Ha moglie, lui, e ha bambini… », e indicò col dito, oltre la siepe degli elmetti d’acciaio delle SS, il sergente Francesco Gajowniczek, ancora singhiozzante, le mani avvinghiate alla fronte.

«Ma tu chi sei?», sbottò Fritsch.

«Un prete cattolico».

 

Non disse un religioso, non disse un francescano, non disse il fondatore della milizia dell’Immacolata. Semplicemente «un prete». E lo disse per umiltà. E per offrire a Fritsch un solido pretesto che giustificasse quel suo ritorno su una decisione già presa. Perché i preti, nella considerazione degli aguzzini di Auschwitz – se “considerazione” conserva ancora un significato, parlando di fatti avvenuti in quell’inferno recinto di filo spinato – i
preti, dicevo, occupavano la penultima bolgia; l’ultima essendo riservata, per diritto
di razza, agli ebrei. Ma dopo i «porci
ebrei» venivano subito i «porci preti»,
die schweinerische pfaffen, e ad essi erano imposti i lavori più sfibranti, e su di essi cadevano con maggior predilezione i colpi di staffile.

 

Umiliati, calpestati, ridotti a stracci umani, l’odio ideologico li braccava senza tregua come bestie rognose.
«Un pfaffe» (un prete), disse con un ghigno livido il Lagerführer, rivolgendosi a Palitsch. E in quel ghigno padre Kolbe lesse ormai la certezza che la sua richiesta sarebbe stata esaudita.

«Accetto», fu infatti la risposta di Fritsch; e Palitsch tracciò un rigo sul numero 5659 del sergente Gajowniczek, e lo sostituì nella lista col numero 16670 di padre Kolbe. Tutto era a posto. I conti tornavano. Ma il campo pareva impietrito nello stupore. Ad Auschwitz mai si era verificato il caso che un prigioniero avesse offerto la propria vita per un altro prigioniero a lui completamente sconosciuto. Per la prima volta, nel cupo regno dell’odio era esplosa la luce abbagliante d’un atto d’amore.

 

Box

Santi come creature umane

 

I primi cristiani e san Girolamo, Charles de Foucauld e padre Damiano, santa Giovanna d’Arco e san Tommaso Moro… e altri ancora. Sono decine le vite di santi (canonizzati e no) scritte a suo tempo da Gino Lubich, per il nostro periodico. Pubblicate a puntate, erano tra gli articoli più ricercati dai lettori, per essere poi raccolte in volume. La più fortunata di tutte, La vita raccontata di papa Giovanni, fa parte tuttora del catalogo della nostra editrice. Ma qual era il motivo di tanto successo? Lo spiegò una volta Gino stesso, all’inizio di questo suo impegno letterario, rispondendo alla domanda con quale criterio affrontava e scriveva questo tipo di biografie.

 

«Con l’unico criterio di far leggere queste vite anche a coloro – e sono i più, in quest’era del rotocalco – che alimentano le loro affrettate letture quasi esclusivamente di foraggio giornalistico, nelle confezioni dei reportages e dei memoriali. Un criterio esclusivamente pratico, dunque? E più di forma che di sostanza? Fino a un certo punto. Se ripenso all’impressione penosa lasciata in me tanti anni fa, nell’epoca della mia fanciullezza, dalla lettura di qualche vita di santo, letteralmente impaludata, e stucchevole per leziosità, allora mi coglie il sospetto che questo mio criterio sia una reazione a distanza a quel mio senso di malessere e risponda a quel lontano desiderio di liberare almeno qualcuno dei giganti del cristianesimo dai fondali oleografici su cui, troppo spesso allora, ma talvolta ancor oggi, vennero e vengono dipinti: figure rarefatte dai volti diafani, sguardi patetici rivolti all’insù e i piedi sfioranti nuvolette di candida bambagia; personaggi pulitini di storie così infallantemente celestiali dalla culla alla tomba, da far disperare chiunque di noi di poterli mai imitare; esseri disumanati, assolutamente estranei al comune modo di pensare, troppo alti e troppo eterei perché l’uomo della strada possa ancora sentirli come creature umane e amarli come fratelli.

 

«Fu dal giorno che qualcuno m’invitò a scrivere da giornalista le avventure di qualche santo, anziché le disavventure d’una Liz Taylor o i melanconici ricordi di un pezzo grosso a riposo, che m’accorsi, studiandoli, come i santi, pur nella loro vertiginosa statura spirituale, altro non siano stati che uomini come me e come noi tutti, fatti anch’essi di carne ed ossa, anch’essi tentati dai nostri stessi turbamenti, anch’essi soggetti alle nostre stesse grane; individui genuini, spontanei, pratici, umanissimi; col paradiso nel cuore, ma coi piedi piantati sulla terra. E così, inquadrati nei chiaroscuri della realtà d’ogni tempo, finalmente li ho amati; perché solo così li ho potuti amare, e amandoli ho compreso che, con l’aiuto di Dio, chiunque di noi – perfino io! – sol che lo si voglia, sol che cadendo non ci si afflosci ma ci si rialzi, possiamo diventare come loro… Ecco, questo è l’insegnamento autentico che io mi illudo possa sgorgare da quelle due o tre storie di santi, che, senza alcuna pretesa letteraria, ho messo insieme alla buona, usando lo stesso linguaggio piano e la stringatezza essenziale d’un cronista del nostro tempo, che bada solo alla realtà dei fatti. Perché fatti, solo fatti, esige di poter leggere l’affrettato lettore dell’era del rotocalco. Anche e soprattutto se i fatti riguardano i santi».





Franciszek Gajowniczek

Nel 1994, Gajowniczek visitò la Chiesa cattolica di St. Maximilian Kolbe a Houston, texas, dove disse al suo traduttore Cappellano Thaddeus Horbowy che "Finché ... ha respiro nei polmoni, avrebbe chiamato il suo dovere di raccontare alla gente l'eroico atto d'amore di Massimilliano Maria Kolbe. 



22 ottobre, 1992

Roberto Rivi Padre di Rolando Maria Rivi

Roberto Rivi Padre di Rolando Maria Rivi



Testimoni

San Valentino di Castellana, Reggio Emilia, 30 ottobre 1903 - 22 ottobre 1992

Si chiamava Roberto Rivi ed era nato a San Valentino di Castellana (Reggio Emilia), il 30 ottobre 1903, primo di numerosi fratelli, in una famiglia in cui la fede animava la vita e le opere di tutti i giorni.
Crebbe imparando, alla scuola di mamma Anna, una donna dalla vita cristiana splendida, a pregare quotidianamente la Madonna con il Rosario e a incontrare tutte le domeniche e poi ancor più sovente, Gesù, nella Messa e nella Comunione. Ben presto, il parroco, don Jemmi, divenne la sua guida spirituale.
Dopo le scuole elementari, Roberto rimase a casa a lavorare la campagna e a testimoniare la sua fede cristiana tra la sua gente. Era puro e leale come un cavaliere antico. A 20 anni, prestò servizio militare, passando anche alcuni mesi a Zara, nell’Istria, assai lontano da casa. Un tempo, questo del militare, lungo e duro, vissuto in ambienti difficili, ma sempre in fedeltà a Gesù, anche a costo di qualche sacrificio.
Rientrò in famiglia a San Valentino, a metà degli anni ’20, nel periodo in cui la Chiesa era guidata da Pio XI che cercava di organizzare la gioventù nell’Azione Cattolica. Roberto fece parte di quei giovani cattolici, appassionati, che si ispiravano anche ai martiri del Messico, i quali, proprio in quegli anni, cadevano sotto il piombo dei persecutori, gridando: “Viva Cristo re!”.
Ventiquattrenne, Roberto incontrò Albertina e la sposò, deciso a farsi una famiglia che avesse come centro Gesù quale Luce, Amore e Guida. Dopo un po’ vennero i figli che furono la sua più grande gioia. Il 7 gennaio 1931, gli nacque Rolando che si dimostrò subito un figlio speciale. Vivace, allegro, un vero spasso. A cinque anni, già serviva la Messa al parroco, don Olinto Marocchini e si vedeva che gli piaceva proprio stare in chiesa a pregare e a cantare le lodi del Signore.

Un uomo appassionato

Seppi che il suo papà si chiamava Roberto Rivi ed era nato a S. Valentino di Castellarano (Reggio Emilia), il 30 ottobre 1903, primo di numerosi fratelli. Crebbe, alla scuola di mamma Anna, una donna di fede ardente, a pregare ogni giorno la Madonna con il Rosario e a incontrare tutte le domeniche Gesù nella S. Messa e Comunione. La sua guida era il parroco don Jemmi.
Dopo le elementari, Roberto rimase a casa a lavorare la campagna e a testimoniare la fede cristiana tra la sua gente. A 20 anni, prestò servizio militare, passando anche alcuni mesi a Zara, nell’Istria, assai lontano da casa, vivendo in ambienti difficili, sempre in fedeltà a Gesù, a costo di qualsiasi sacrificio.
A metà degli anni ’20, era rientrato in famiglia a S. Valentino, proprio nel periodo in cui la Chiesa, guidata da Papa Pio XI, organizzava la gioventù nell’Azione Cattolica: anche Roberto fece parte di quei giovani appassionati. Ogni giorno, con la mamma Anna, partecipava alla Messa con la Comunione. Lo farà sino all’ultimo giorno della sua vita, preparandosi alla Comunione quotidiana con la Confessione settimanale e la preghiera personale.
Ventiquattrenne, Roberto aveva incontrato Albertina e la sposò, deciso a farsi una famiglia, che avesse come centro Gesù, Luce, Amore e Guida.
Quindi erano venuti i figli che furono la sua più grande gioia.

Un piccolo eroe

Quando a sette anni appena, il 16 luglio 1938, nella festa della Madonna del Carmelo, venerata in parrocchia, Rolandino ricevette la prima Comunione, fu davvero per lui una festa umile e solenne. Gesù diventava finalmente il suo intimo amico.
A scuola, guidato dalla maestra Clotilde Selmi, seppe dare buoni risultati, sostenuto da una vivace intelligenza, imparava con facilità e aiutava volentieri i compagni.
Era generosissimo con i poveri di passaggio, ai quali donava con larghezza, dicendo: “La carità non rende povero nessuno. Ogni povero per me è Gesù”.
Papà Roberto era felice di un bambino così, proprio come lui voleva. Il 24 giugno 1940, dal Vescovo, Mons. Eduardo Bretoni, Rolando ricevette la Cresima. Si sentì ancora più impegnato per Cristo, un “soldato di Cristo”, come si diceva allora, e prese forti impegni con il Signore: la Messa e la Comunione quotidiana, la Confessione settimanale, il Rosario alla Madonna ogni giorno da solo o con la famiglia.
I suoi piccoli amici del borgo, Rolando cercava di portarli in chiesa, davanti al Tabernacolo e di condurli al catechismo, per crescere nella fede. Papà Roberto tra sé, si chiedeva: “Chi mai diventerà questo bambino?”. A 11 anni, dopo la V elementare, il ragazzino decise: “Voglio farmi prete. Papà, mamma, vado in Seminario”. Così, all’inizio dell’ottobre 1942, entrò in Seminario a Marola (Reggio Emilia) e vestì subito l’abito da prete, come allora s’usava.
Studiava con serietà, con la sua bella voce faceva parte del coro. Nei momenti liberi stava volentieri davanti all’Eucaristia, appassionato com’era della sua vocazione sentendosi un prediletto da Dio. A casa, in vacanza, durante l’estate, continuava a vivere da seminarista con fedeltà ai suoi impegni e facendo apostolato tra i suoi compagni.
Il papà era contento e orgoglioso che il buon Dio gli avesse donato un figlio così e già pregustava la gioia di vederlo sacerdote. Era felice di cantare in chiesa, quando Rolando suonava l’armonium e accompagnava i cantori durante le celebrazioni, la Messa e i Vespri.
Nel 1944, il Seminario, a causa della guerra, fu chiuso. Rolando tornò a casa e viveva, nonostante le difficoltà, la sua stessa vita, ardente e luminosa, sulle colline di San Valentino. A chi gli chiedeva di vestire come gli altri ragazzi, rispondeva: “Non posso lasciare la mia veste: è il segno che io appartengo al Signore”.
Il 10 aprile 1945, finì in mano ai comunisti a Monchio, in provincia di Modena. Lo portarono nella loro base e lo processarono. Lo schiaffeggiarono, lo percossero con la cinghia e gli tolsero l’abito religioso. Poi emisero la sentenza: “Uccidiamolo, avremo un prete in meno”. Lo portarono in un bosco presso Piane di Monchio. Qui scavata la fossa, mentre Rolando, in ginocchio pregava il suo Gesù per sé, per i genitori, per gli stessi aguzzini, questi lo presero a calci, poi con due colpi di pistola, uno al cuore e uno alla fronte, gli tolsero la vita. Era il 13 aprile 1945, quando Rolando Rivi, a 14 anni appena, fu freddato da due colpi di rivoltella, nel clima di odio contro la Chiesa e i sacerdoti. Era un venerdì, giorno dedicato alla morte di Gesù in croce. La veste da prete diventò, nelle mani dei comunisti, un trofeo che fu appeso sotto il porticato di una fattoria vicina.

Al di là dell’odio

Il papà, su quella immane tragedia, disse soltanto: “Perdono”. Era straziato, ma con la sua fede grandissima, riprese a vivere infondendo coraggio ai suoi e illuminando il dolore con la preghiera incessante, sentendosi quasi chiamato a compiere lui il bene al posto di Rolando.
Il martirio del figlio seminarista lo spinse ad impegnarsi a fondo, in prima persona, per costruire, negli anni del dopoguerra, una società cristiana. Nel tempo dell’immane conflitto, gli erano morti al fronte, lontanissimo da casa i due fratelli Rino e Adolfo, e in casa, la sorella Lina. Negli anni che verranno, altri lutti e dolori provarono la forte tempra e la fede invincibile di papà Roberto.
La sua vita stupiva chi lo avvicinava, perfino i sacerdoti, che lo stimavano e ne amavano la compagnia, e la sorella suora: “Con tutto quanto ha patito, come può essere così forte e sereno?”. La sua risposta era la Croce di Cristo.
Così papà Roberto portava la sua fede davanti a chiunque, sempre “uno con Gesù”: nella famiglia, nel lavoro, nei rapporti sociali, nel modo di intendere le cose e nelle scelte quotidiane. Una vera mentalità di fede, la sua, tradotta in semplicità interiore e letizia.
Gli anni passavano e la sua esistenza si faceva sempre traboccante di preghiera: molto spesso, forse ogni giorno, la Messa e la Comunione, in un colloquio lungo con Gesù per la Chiesa, per il mondo, per i sacerdoti, fino al punto di riconoscere con semplicità: “Io starei sempre davanti al Signore vivo, nel Tabernacolo”.
Nel cuore, una capacità grande di amare e di donare, sempre pronto ad aiutare chiunque come un fratello.
La Via Crucis diventò la sua preghiera preferita: la ripeteva anche più volte al giorno, tenendo la foto di suo figlio Rolando, tra le mani, ricordando al Divin Sofferente i suoi familiari, gli amici i sacerdoti e coloro che gli avevano fatto del male.
Si illuminava tutto quando parlava di Rolando e commuoveva chi lo ascoltava quando diceva: “Forse il Signore ha permesso così, perché Rolando non avesse a prendere una cattiva strada... l’ha voluto con Sé, tra i santi. Ho sofferto tanto, ma non sono arrabbiato con il Signore. Siamo sulla terra per compiere la sua volontà”.
Il 22 ottobre 1992, a 89 anni, papà Roberto rivedeva il suo Rolando e i suoi cari che lo avevano preceduto in Paradiso. Chi lo ha conosciuto di persona o chi semplicemente lo ha solo ascoltato poche volte al telefono, è rimasto incantato dalla sua fede granitica e dolce. Gesù solo, il Redentore dell’uomo, forma uomini così, Lui che ha assicurato: “Abbiate pace in me. Nel mondo avrete tribolazioni, ma abbiate coraggio: io ho vinto il mondo” (Giovanni 16:33).Con Gesù, vincitore del peccato, del dolore e della morte, anche papà Roberto, con il suo piccolo figlio martire, appare un vincitore.

19 luglio, 1992

Biografia di Paolo Borsellino

 Biografia di Paolo Borsellino

Paolo Emanuele Borsellino nasce a Palermo il 19 gennaio 1940. Il padre Diego era farmacista e dalla moglie Maria Pia avrebbe avuto, oltre a Paolo, i figli Salvatore, Adele e Rita. Fin da giovanissimo, per le strade del quartiere La Kalsa, Paolo comincia a frequentare il coetaneo Giovanni Falcone con cui da principio “gioca a pallone con gli altri ragazzi” e che ritroverà più tardi – dopo il diploma Classico – alla facoltà di Giurisprudenza di Palermo.

Borsellino è studente irrequieto e attivo politicamente, tanto da far parte dei gruppi legati alla destra (Fronte Universitario di Azione Nazionale, MSI) con ruoli anche importanti. Ma per lui più della politica sono importanti gli studi. Si laurea in breve tempo e – vincendo il primo concorso di Magistratura nel 1963 –  a soli 23 anni, diviene il giudice più giovane d’Italia.

Nel 1968 sposa Agnese Piraino Leto e da lei ha tre figli: Lucia, nata nel 1969, Manfredi, classe 1971, e nel 1973 Fiammetta. Descritto spesso come padre amorevole e sempre presente, nonostante gli impegni di lavoro, Borsellino soffrì molto quando capì di essere il prossimo bersaglio dei boss. Il figlio Manfredi ricorda che divenne scostante, severo, freddo … come se volesse preparare la famiglia al distacco.

Dopo l’omicidio del collega e amico di una vita, Giovanni Falcone, il giudice Borsellino intensificò la propria attività di lotta contro la mafia ben sapendo di essere in pericolo ogni giorno. La vendetta dei boss arrivò, tuttavia, a sorpresa in un luogo che il giudice non poteva immaginare: davanti alla casa della sua anziana madre. Il tritolo devastò via D’Amelio nel pomeriggio del 19 luglio 1992. Borsellino e cinque agenti di scorta, tra cui la giovanissima Emanuela Loi, morirono per le gravi ferite riportate.

Misure di Paolo Borsellino

Di quest’uomo attivo e schivo si sa davvero poco, per cui scendere nel personale è difficilissimo. Ma si intuisce dalle foto che fosse di statura media, 175 cm circa, per un peso equilibrato di  75 kg. Portava con fierezza e attenta cura i baffi e spesso tra le labbra la immancabile sigaretta.

L’attentato del 19 luglio 1992

Mentre il giudice si recava a trovare l’anziana madre a casa sua in via D’Amelio, a Palermo, un’auto imbottita di esplosivo fu fatta saltare in aria alle 16:58. L’esplosione violentissima devastò l’intera strada, ruppe i vetri di quasi tutte le finestre del condominio di fronte. Sull’asfalto rimasero i corpi di Borsellino, degli agenti Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Cosina, Claudio Traina. L’agente Agostino Vullo si salvò solo perché stava parcheggiando l’auto blindata poco lontano.

I funerali di Borsellino furono svolti in forma privata, in una chiesetta di periferia che il giudice amava tanto, mentre le esequie della scorta si tennero nella Cattedrale di Palermo. Tra feroci proteste, il popolo presente cercò di cacciare dalla chiesa i rappresentanti dello Stato, considerati dalla vedova del giudice e da molti parenti degli agenti di scorta come responsabili della “solitudine” di Borsellino.

La carriera

Il più giovane magistrato italiano, Paolo Borsellino, iniziò la propria carriera nel 1963. Lavorò presso i tribunali di Mazara del Vallo e di Monreale. Trasferito nuovamente a Palermo nel 1980, dovette seguire una delle indagini lasciate incomplete dal commissario Boris Giuliano ucciso pochi anni prima. La forte amicizia con Rocco Chinnici,con Antonino Caponnetto e con il collega Giovanni Falcone portò alla nascita del Pool Antimafia, che mirava a riunire i giudici istruttori che fino ad allora avevano sempre lavorato da soli, e più esposti.

Grazie al lavoro del Pool finirono sotto inchiesta 476 esponenti della mafia e questo aumentò il rischio per i giudici, specialmente per Falcone e Borsellino che lo guidavano. I due magistrati furono trasferiti all’Asinara per tenerli al riparo da possibili attentati. Subito dopo Borsellino fu trasferito alla Procura di Marsala. Nel 1987 però il Pool venne smantellato – ufficialmente per problemi di salute di Caponnetto – e da allora il lavoro divenne più a rischio per Borsellino e i colleghi.

Tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, i giudici furono “lasciati soli” , o almeno così loro percepirono il silenzio delle istituzioni intorno al loro lavoro. E mentre la mafia progettava attentati, Borsellino “rischiò” di essere eletto a Presidente della Repubblica: il partito MSI fece il suo nome, durante gli scrutini, e ottenne anche dei voti! Il 23 maggio 1992 Giovanni Falcone fu ucciso in un gravissimo attentato sull’autostrada nei pressi di Capaci e da allora, fino al giorno della morte, Borsellino lavorò da solo e consapevole che il prossimo a cadere sarebbe stato lui e morì a cinquantasette giorni dopo Giovanni Falcone.