Roberto Rivi Padre di Rolando Maria Rivi
Testimoni
San Valentino di Castellana, Reggio Emilia, 30 ottobre 1903 - 22 ottobre 1992
Si
chiamava Roberto Rivi ed era nato a San Valentino di Castellana
(Reggio Emilia), il 30 ottobre 1903, primo di numerosi fratelli, in
una famiglia in cui la fede animava la vita e le opere di tutti i
giorni.
Crebbe imparando, alla scuola di mamma Anna, una donna
dalla vita cristiana splendida, a pregare quotidianamente la Madonna
con il Rosario e a incontrare tutte le domeniche e poi ancor più
sovente, Gesù, nella Messa e nella Comunione. Ben presto, il
parroco, don Jemmi, divenne la sua guida spirituale.
Dopo le
scuole elementari, Roberto rimase a casa a lavorare la campagna e a
testimoniare la sua fede cristiana tra la sua gente. Era puro e leale
come un cavaliere antico. A 20 anni, prestò servizio militare,
passando anche alcuni mesi a Zara, nell’Istria, assai lontano da
casa. Un tempo, questo del militare, lungo e duro, vissuto in
ambienti difficili, ma sempre in fedeltà a Gesù, anche a costo di
qualche sacrificio.
Rientrò in famiglia a San Valentino, a metà
degli anni ’20, nel periodo in cui la Chiesa era guidata da Pio XI
che cercava di organizzare la gioventù nell’Azione Cattolica.
Roberto fece parte di quei giovani cattolici, appassionati, che si
ispiravano anche ai martiri del Messico, i quali, proprio in quegli
anni, cadevano sotto il piombo dei persecutori, gridando: “Viva
Cristo re!”.
Ventiquattrenne, Roberto incontrò Albertina e la
sposò, deciso a farsi una famiglia che avesse come centro Gesù
quale Luce, Amore e Guida. Dopo un po’ vennero i figli che furono
la sua più grande gioia. Il 7 gennaio 1931, gli nacque Rolando che
si dimostrò subito un figlio speciale. Vivace, allegro, un vero
spasso. A cinque anni, già serviva la Messa al parroco, don Olinto
Marocchini e si vedeva che gli piaceva proprio stare in chiesa a
pregare e a cantare le lodi del Signore.
Un uomo appassionato
Seppi
che il suo papà si chiamava Roberto Rivi ed era nato a S. Valentino
di Castellarano (Reggio Emilia), il 30 ottobre 1903, primo di
numerosi fratelli. Crebbe, alla scuola di mamma Anna, una donna di
fede ardente, a pregare ogni giorno la Madonna con il Rosario e a
incontrare tutte le domeniche Gesù nella S. Messa e Comunione. La
sua guida era il parroco don Jemmi.
Dopo le elementari, Roberto
rimase a casa a lavorare la campagna e a testimoniare la fede
cristiana tra la sua gente. A 20 anni, prestò servizio militare,
passando anche alcuni mesi a Zara, nell’Istria, assai lontano da
casa, vivendo in ambienti difficili, sempre in fedeltà a Gesù, a
costo di qualsiasi sacrificio.
A metà degli anni ’20, era
rientrato in famiglia a S. Valentino, proprio nel periodo in cui la
Chiesa, guidata da Papa Pio XI, organizzava la gioventù nell’Azione
Cattolica: anche Roberto fece parte di quei giovani appassionati.
Ogni giorno, con la mamma Anna, partecipava alla Messa con la
Comunione. Lo farà sino all’ultimo giorno della sua vita,
preparandosi alla Comunione quotidiana con la Confessione settimanale
e la preghiera personale.
Ventiquattrenne, Roberto aveva
incontrato Albertina e la sposò, deciso a farsi una famiglia, che
avesse come centro Gesù, Luce, Amore e Guida.
Quindi erano
venuti i figli che furono la sua più grande gioia.
Un piccolo eroe
Quando
a sette anni appena, il 16 luglio 1938, nella festa della Madonna del
Carmelo, venerata in parrocchia, Rolandino ricevette la prima
Comunione, fu davvero per lui una festa umile e solenne. Gesù
diventava finalmente il suo intimo amico.
A scuola, guidato
dalla maestra Clotilde Selmi, seppe dare buoni risultati, sostenuto
da una vivace intelligenza, imparava con facilità e aiutava
volentieri i compagni.
Era generosissimo con i poveri di
passaggio, ai quali donava con larghezza, dicendo: “La carità non
rende povero nessuno. Ogni povero per me è Gesù”.
Papà
Roberto era felice di un bambino così, proprio come lui voleva. Il
24 giugno 1940, dal Vescovo, Mons. Eduardo Bretoni, Rolando ricevette
la Cresima. Si sentì ancora più impegnato per Cristo, un “soldato
di Cristo”, come si diceva allora, e prese forti impegni con il
Signore: la Messa e la Comunione quotidiana, la Confessione
settimanale, il Rosario alla Madonna ogni giorno da solo o con la
famiglia.
I suoi piccoli amici del borgo, Rolando cercava di
portarli in chiesa, davanti al Tabernacolo e di condurli al
catechismo, per crescere nella fede. Papà Roberto tra sé, si
chiedeva: “Chi mai diventerà questo bambino?”. A 11 anni, dopo
la V elementare, il ragazzino decise: “Voglio farmi prete. Papà,
mamma, vado in Seminario”. Così, all’inizio dell’ottobre 1942,
entrò in Seminario a Marola (Reggio Emilia) e vestì subito l’abito
da prete, come allora s’usava.
Studiava con serietà, con la
sua bella voce faceva parte del coro. Nei momenti liberi stava
volentieri davanti all’Eucaristia, appassionato com’era della sua
vocazione sentendosi un prediletto da Dio. A casa, in vacanza,
durante l’estate, continuava a vivere da seminarista con fedeltà
ai suoi impegni e facendo apostolato tra i suoi compagni.
Il
papà era contento e orgoglioso che il buon Dio gli avesse donato un
figlio così e già pregustava la gioia di vederlo sacerdote. Era
felice di cantare in chiesa, quando Rolando suonava l’armonium e
accompagnava i cantori durante le celebrazioni, la Messa e i
Vespri.
Nel 1944, il Seminario, a causa della guerra, fu chiuso.
Rolando tornò a casa e viveva, nonostante le difficoltà, la sua
stessa vita, ardente e luminosa, sulle colline di San Valentino. A
chi gli chiedeva di vestire come gli altri ragazzi, rispondeva: “Non
posso lasciare la mia veste: è il segno che io appartengo al
Signore”.
Il 10 aprile 1945, finì in mano ai comunisti a
Monchio, in provincia di Modena. Lo portarono nella loro base e lo
processarono. Lo schiaffeggiarono, lo percossero con la cinghia e gli
tolsero l’abito religioso. Poi emisero la sentenza: “Uccidiamolo,
avremo un prete in meno”. Lo portarono in un bosco presso Piane di
Monchio. Qui scavata la fossa, mentre Rolando, in ginocchio pregava
il suo Gesù per sé, per i genitori, per gli stessi aguzzini, questi
lo presero a calci, poi con due colpi di pistola, uno al cuore e uno
alla fronte, gli tolsero la vita. Era il 13 aprile 1945, quando
Rolando Rivi, a 14 anni appena, fu freddato da due colpi di
rivoltella, nel clima di odio contro la Chiesa e i sacerdoti. Era un
venerdì, giorno dedicato alla morte di Gesù in croce. La veste da
prete diventò, nelle mani dei comunisti, un trofeo che fu appeso
sotto il porticato di una fattoria vicina.
Al di là dell’odio
Il
papà, su quella immane tragedia, disse soltanto: “Perdono”. Era
straziato, ma con la sua fede grandissima, riprese a vivere
infondendo coraggio ai suoi e illuminando il dolore con la preghiera
incessante, sentendosi quasi chiamato a compiere lui il bene al posto
di Rolando.
Il martirio del figlio seminarista lo spinse ad
impegnarsi a fondo, in prima persona, per costruire, negli anni del
dopoguerra, una società cristiana. Nel tempo dell’immane
conflitto, gli erano morti al fronte, lontanissimo da casa i due
fratelli Rino e Adolfo, e in casa, la sorella Lina. Negli anni che
verranno, altri lutti e dolori provarono la forte tempra e la fede
invincibile di papà Roberto.
La sua vita stupiva chi lo
avvicinava, perfino i sacerdoti, che lo stimavano e ne amavano la
compagnia, e la sorella suora: “Con tutto quanto ha patito, come
può essere così forte e sereno?”. La sua risposta era la Croce di
Cristo.
Così papà Roberto portava la sua fede davanti a
chiunque, sempre “uno con Gesù”: nella famiglia, nel lavoro, nei
rapporti sociali, nel modo di intendere le cose e nelle scelte
quotidiane. Una vera mentalità di fede, la sua, tradotta in
semplicità interiore e letizia.
Gli anni passavano e la sua
esistenza si faceva sempre traboccante di preghiera: molto spesso,
forse ogni giorno, la Messa e la Comunione, in un colloquio lungo con
Gesù per la Chiesa, per il mondo, per i sacerdoti, fino al punto di
riconoscere con semplicità: “Io starei sempre davanti al Signore
vivo, nel Tabernacolo”.
Nel cuore, una capacità grande di
amare e di donare, sempre pronto ad aiutare chiunque come un
fratello.
La Via Crucis diventò la sua preghiera preferita: la
ripeteva anche più volte al giorno, tenendo la foto di suo figlio
Rolando, tra le mani, ricordando al Divin Sofferente i suoi
familiari, gli amici i sacerdoti e coloro che gli avevano fatto del
male.
Si illuminava tutto quando parlava di Rolando e commuoveva
chi lo ascoltava quando diceva: “Forse il Signore ha permesso così,
perché Rolando non avesse a prendere una cattiva strada... l’ha
voluto con Sé, tra i santi. Ho sofferto tanto, ma non sono
arrabbiato con il Signore. Siamo sulla terra per compiere la sua
volontà”.
Il 22 ottobre 1992, a 89 anni, papà Roberto
rivedeva il suo Rolando e i suoi cari che lo avevano preceduto in
Paradiso. Chi lo ha conosciuto di persona o chi semplicemente lo ha
solo ascoltato poche volte al telefono, è rimasto incantato dalla
sua fede granitica e dolce. Gesù solo, il Redentore dell’uomo,
forma uomini così, Lui che ha assicurato: “Abbiate pace in me. Nel
mondo avrete tribolazioni, ma abbiate coraggio: io ho vinto il mondo”
(Giovanni 16:33).Con Gesù, vincitore del peccato, del dolore e della
morte, anche papà Roberto, con il suo piccolo figlio martire, appare
un vincitore.
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