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14 febbraio, 2022

✝ Pensiero del 14 febbraio 2022

 ✝

S. T. D. E DELLA B. V. M.

G. R. A. Livatino UOMO LAICO_MARTIRE PER LA GIUSTIZIA E PER LA VERITÁ in_Odio_ alla_Fede_Beato

Meditazione sul Vangelo di Lc 10,1-9

Evangelizzare: «La nostra missione».         

Il testo evangelico è particolarmente adatto per illustrare l’azione di tutti i missionari come i due santi compatroni di Europa, Cirillo e Metodio, di cui oggi ricorre la festa. Il brano riporta una notizia comunicata solo da Luca: «Oltre ai Dodici apostoli, Gesù coinvolse nella sua missione altri settantadue discepoli, numero corrispondente a quello di tutte le nazioni della terra, secondo le convinzioni degli antichi ebrei. Perché la loro missione risultasse autentica ed efficace, i settantadue ricevettero delle istruzioni che corrispondono a quello stile di vita che Gesù stesso ha praticato: semplicità e fiducia nella Provvidenza del Padre, costruzione della pace ed attenzione ai bisognosi».

C’è bisogno di missionari del Vangelo, di persone che annuncino buone notizie: che Dio è un Padre buono, che Gesù Cristo suo Figlio si è fatto uomo per perdonare i peccati, insegnarci un modo di vivere ispirato alla carità ed aprirci le porte del Paradiso, che la Chiesa è la comunità degli uomini animati dallo Spirito Santo, che Maria Santissima veglia su di noi e che i sacramenti ci trasmettono la vita divina. Queste notizie riempiono i cuori di speranza, rendono le nostre pene e i nostri affanni meno aspri, trasformano gli uomini in meglio fino a raggiungere le vette della santità. Per annunciare queste belle notizie, i missionari, del passato e del presente, non badano a se stessi, si spendono senza misura, a volte sacrificano anche la vita come martiri. Nel passato, i missionari erano quasi esclusivamente sacerdoti e suore, oggi, insieme ad essi, sono missionari anche i laici, intere famiglie e giovani generosissimi. E laddove arriva il Vangelo la vita delle persone migliora. Cirillo e Metodio, missionari dei popoli slavi, inventarono persino un alfabeto e, in questo modo contribuirono allo sviluppo culturale di quelle nazioni. La pagina del Vangelo che ci parla dell’invio di settantadue missionari da parte di Gesù è un invito anzitutto a pregare per questi nostri fratelli e queste nostre sorelle affinché la Chiesa e il mondo non siano mai privi di tale dono preziosissimo e perché siano sempre coraggiosi, generosi e fedeli. In secondo luogo, questa pagina del Vangelo ci ricorda che ognuno di noi può essere un missionario, un portatore di buone notizie, un testimone dell’amore di Cristo.

Lunedì 14 Febbraio 
SS. CIRILLO E METODIO, patr. Europa (f)
S. Antonino, San Valentino, Sacerdote
Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo
At 13,46-49; Sal 116; Lc 10,1-9

Il Signore mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione.

(Luca 4,18)

SALMO RESPONSORIALE (Salmo 116)
Rit: Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo.

Genti tutte, lodate il Signore,
popoli tutti, cantate la sua lode.

Perché forte è il suo amore per noi
e la fedeltà del Signore dura per sempre.

Il Signore mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione.

(Luca 4,18)

13 febbraio, 2022

Camisasca saluta la Chiesa diocesana: il dono del ministero episcopale

 Camisasca saluta la Chiesa diocesana: il dono del ministero episcopale




Domenica 13 febbraio alle ore 16.30 nella Cattedrale di Reggio Emilia monsignor Massimo Camisasca ha presieduto la santa Messa di saluto alla Diocesi di Reggio Emilia-Guastalla. Qui il testo della sua omelia.

Cari fratelli e sorelle,

con questa celebrazione eucaristica si conclude la mia presenza tra voi, almeno dal punto di vista fisico. Essa continuerà, infatti, nella preghiera, nella memoria, nell’affetto e nell’amicizia con molti di voi.

Questa Messa non è soltanto una conclusione. Essa è piuttosto una sintesi, cioè l’offerta di questi miei nove anni al Signore. Vorrei restituire a lui ciò che mi ha donato affinché egli ne tragga il frutto che desidera per il Regno di Dio e per la sua gloria nel mondo.

Questi anni di ministero episcopale sono stati innanzitutto un dono. Non trovo parola più espressiva di questa. Un dono assolutamente immeritato e inatteso che Dio ha fatto alla mia vita. Mi ha concesso una partecipazione alla vita di suo Figlio attraverso le responsabilità che mi erano affidate. Il ministero episcopale, infatti, consiste innanzitutto nel prendersi cura del corpo di Cristo che è la Chiesa. La Chiesa universale, consegnata al collegio degli Apostoli sotto la guida di Pietro, e la Chiesa particolare, emergenza della Chiesa universale in questa terra reggiano-guastallese.

Prima ancora che di fronte alle varie incombenze che subito hanno occupato il mio animo, ho sentito la mia infinita sproporzione di fronte a Cristo che mi chiedeva di pascere il suo gregge. Oggi, al termine di questo mio mandato, oltre a rendere grazie, devo chiedere in ginocchio il suo perdono per tutte le mie mancanze, non solo per ciò che avrei potuto fare e non ho fatto, ma anche per ciò che avrei potuto essere e non sono stato, per la superficialità con cui ho accolto la grazia di Dio e risposto al suo amore. Se egli mi ha chiamato, ne sono certo, non mancherà di perdonarmi. Anche in grazia della vostra preghiera, grande risposta alla mia piccola donazione.

 

Nella mia gratitudine a Dio desidero ora collocare il riconoscimento verso tante persone che in questi anni mi sono state vicine, chiedendo già da ora scusa a chi non riuscirà ad essere menzionato.

Voglio innanzitutto dire il mio grazie a mons. Alberto Nicelli, mio Vicario Generale durante otto dei nove anni trascorsi con voi. Ricordo molto bene la sua resistenza di fronte alla mia designazione. Essa è stata per me un segno decisivo. Don Alberto ha vissuto accanto alla mia persona questo tempo spendendo senza risparmio le sue energie, soprattutto attraverso la vicinanza ai sacerdoti e ai diaconi, colmando le lacune della mia. È stato un collaboratore assolutamente leale. Senza esagerare in lodi per il mio operato, mi ha sostenuto in ogni decisione che assieme abbiamo preso. Accanto a lui desidero esprimere il mio grazie più sincero ai Vicari episcopali che si sono succeduti in questi anni. Il Consiglio episcopale, radunato con una periodicità mensile, è stato per me una vera esperienza di comunione o, come si usa dire oggi, di sinodalità. Il governo di questa Chiesa è sempre stato sinodale. Abbiamo camminato assieme ascoltandoci in occasione di ogni più piccola o grande decisione. Quasi nulla della vita della Diocesi era sottratto al Consiglio episcopale e alla sua valutazione. Per me, e penso anche per tutti i membri del Consiglio, il ritrovarci è stato una scuola: imparare a decidere assieme sotto lo sguardo di Dio, avendo a cuore soltanto il bene delle persone, anche quando tutto ciò doveva costare amarezza e infine, come è giusto che sia, obbligare il vescovo a una parola definitiva.

Assieme al Consiglio episcopale, voglio qui ricordare il Consiglio presbiterale che mi ha aiutato nel cammino verso la nascita e la crescita delle Unità Pastorali. Gli Uffici pastorali e amministrativi sono rinati anch’essi in una nuova forma di unità e collaborazione, in un lungo ma fruttuoso ripensamento del volto stesso della vita della Diocesi.

La Visita Pastorale è stata per me un’esperienza faticosa, ma bellissima. Mi ha portato a contatto diretto con i volti e le esperienze delle nostre comunità. Ho potuto cogliere, pur nella drastica riduzione numerica, la viva trasmissione della fede attraverso le generazioni del nostro popolo e la necessità di un ripensamento radicale delle forme educative ed espressive della vita della Chiesa, accompagnati dal lungo itinerario del magistero che dall’Evangelii nuntiandi di Paolo VI ci ha portati fino all’Evangelii gaudium di Francesco.

Attraverso la Visita Pastorale ho potuto ammirare la vita e la dedizione di tanti nostri preti, conoscendo, per via indiretta, anche molte figure del passato recente che hanno illuminato la vita della nostra Chiesa. Forse non sono riuscito ad esprimere adeguatamente la mia ammirazione e il mio affetto per ciascuno dei nostri presbiteri e dei nostri diaconi. Sappiate che nessuno è mai stato escluso dalla mia preghiera, dalla mia considerazione, dal mio desiderio di bene.

 

Nella nostra Chiesa ho incontrato la realtà, che non conoscevo, dei diaconi permanenti. Ho dedicato subito molte energie per entrare in rapporto con loro, fino alla scrittura della lettera pastorale ad essi dedicata, che rappresenta forse un unicum nelle nostre Chiese. Il diaconato permanente richiede ancora una riflessione teologica che dopo il Vaticano II non è stata adeguatamente compiuta. Mentre la vita presbiterale esige piuttosto una riflessione pastorale che rifletta sui cammini formativi e ponga la vita comune, come più volte ho avuto modo di sottolineare, al centro delle nostre comunità.

 

La vita religiosa, purtroppo, ha dovuto registrare l’abbandono di tante comunità, soprattutto femminili, che erano un bene prezioso per la nostra Chiesa diocesana. Saluto e ringrazio le comunità religiose femminili che sono rimaste al servizio delle parrocchie. Ricordo ugualmente la preziosa presenza dei Cappuccini in tante opere della nostra Chiesa. Prego il Signore che custodisca e rinnovi la presenza della vita monastica, in particolare quella dei Servi di Maria, delle Clarisse, delle Serve di Maria, delle Suore cappuccine e delle Carmelitane, faro luminoso che indica i beni più preziosi per la vita presente e futura. Saluto con molto affetto le sorelle dell’Ordo virginum e le eremite che ho cercato di alimentare e accompagnare in questo mio tempo reggiano.

 

La mia casa, la casa del vescovo, è stata sempre aperta all’accoglienza e all’incontro con tante comunità, soprattutto di giovani e di famiglie. La nostra Chiesa vive per la forza del battesimo e della fede, come per l’attesa di Cristo, di numerosissimi laici. Lo Spirito non smette mai di suscitare la fede, la speranza e la carità. Esse sorgono nel cuore degli uomini, prima ancora che per iniziativa nostra, per opera della grazia di Dio. Spetta a noi, però, intercettare, riconoscere, valorizzare ed educare ciò che lo Spirito fa sorgere, anche se ciò è molto diverso da quanto avevamo preventivato. Talvolta gli schemi pastorali o teologici cui siamo abituati ci impediscono di vedere il nuovo che sorge, così come rendono più lento il nostro cammino di uscita verso i luoghi dove le persone vivono, accontentandoci drammaticamente che esse vengano da noi.

 

Quando entrai in Diocesi dissi che avrei voluto dedicare il minor tempo possibile alle questioni amministrative. Esse in realtà hanno occupato molte delle mie energie essendo strettamente connesse al ministero dell’evangelizzazione. Ho avuto buoni collaboratori in questo campo, che desidero qui ringraziare. Abbiamo potuto realizzare il pareggio di bilancio, conoscere – non senza fatica – le entrate e le uscite dei vari Uffici e centri diocesani, e affrontare, anche con decisione, il debito straordinario che gravava sulla nostra Chiesa. È stata questa una delle ragioni che ha rivolto la mia attenzione all’immenso seminario, in gran parte vuoto, e alla necessità di far fronte a una sua diversa collocazione. Collaborazioni, che definirei miracolose, hanno permesso di realizzare questo sogno.

I seminaristi sono stati al centro della mia cura. Ho dedicato ad essi molto tempo e molte lezioni. Ho cercato di aiutare i rettori e i vicerettori nel discernimento dei candidati. Anche se ridotto numericamente, il seminario rimane il cuore della Diocesi. Dio non smette mai di chiamare al sacerdozio ordinato. La nostra pastorale, giovanile e vocazionale, aiutando a riscoprire la vita come vocazione, valorizzando ogni tipo di strada che conduce a Dio e di ministero nella Chiesa, favorirà il sorgere di nuove vocazioni presbiterali. Lascio alla nostra Chiesa la mia seconda lettera pastorale che raccoglie la sintesi delle mie indicazioni per un cammino dei giovani verso la realizzazione della loro vita.

Grande importanza ha avuto per me lo Studio Teologico Interdiocesano, che auspico possa continuare e approfondire la sua missione tra noi, assieme alle altre occasioni di formazione che la Diocesi ha generato in questi ultimi decenni: la Scuola Teologica Diocesana e le scuole teologiche sparse sul territorio.

 

Durante il mio ministero episcopale ho incontrato, attraverso i loro figli e figlie, don Dino Torreggiani e don Altana, don Mario Prandi, don Pietro Margini. Ho sentito perciò mio dovere lavorare con assiduità alla revisione degli Statuti delle comunità da loro nate, non per una mania canonistica, ma per un amore ecclesiale alla crescita di queste realtà. In questa direzione ho favorito la ripresa dell’inchiesta diocesana in vista della beatificazione e canonizzazione di don Torreggiani e l’apertura e conclusione di quella di don Margini.

Numerosissime sono state le occasioni di incontro con persone e realtà comunitarie, con imprenditori, professionisti, artisti. Voglio qui salutare le associazioni, i movimenti e i gruppi, presenze decisive per la vita di una Chiesa, e augurare loro, nel solco dei rispettivi carismi, una fecondità sempre più grande di missione nella società.

 

Ho cercato di favorire l’espressione culturale della fede nella consapevolezza che quest’ultima non si lega mai definitivamente a nessuna cultura, ma nello stesso tempo porta dentro di sé l’esigenza di esprimersi in forme di vita che la rendono incontrabile e apprezzabile dagli uomini di ogni tempo. La fede non può restare confinata nel segreto delle coscienze o nel chiuso delle chiese e delle sagrestie. Senza l’aria della sua espressione sociale, muore.

 

Dalla nostra Chiesa e dalla sua lunga tradizione ho ricevuto molti regali. Due qui vorrei ricordare soprattutto: il dono della Parola di Dio e il dono dei Poveri. Certamente non mancavano alla mia vita queste attenzioni, come fioritura della vita sacramentale. Altrimenti non sarei stato cristiano. Qui ho sentito ripresentare più volte l’importanza della Parola di Dio. Sono stato quasi obbligato a riscoprirla, soprattutto nella consapevolezza che la religione cristiana non è la religione del libro. La Parola di Dio è il Verbo fatto carne. In particolare, la Sacra Scrittura è la documentazione normativa della sua attesa, preparazione e avvento, a cui sempre dobbiamo rifarci per comprendere e vivere la sua venuta nell’ora presente. Ad essa dobbiamo quotidianamente alimentarci affinché il nostro amore per Cristo e la nostra conoscenza di lui crescano di giorno in giorno. La meditazione della Sacra Scrittura, soprattutto in una lettura sapienziale, che sappia coglierla nel suo insieme, genera la sete dell’Eucarestia e accompagna le nostre giornate con una luce sempre nuova.

A questo riguardo, vorrei qui accennare alle mie attenzioni per liturgia. Lascio a questa Chiesa la mia lettera pastorale e i tanti insegnamenti che ho avuto occasione di esprimere, nella consapevolezza che, come ci ha insegnato il Concilio, la liturgia è un’esperienza fontale e sintetica della vita cristiana.

Il secondo dono che ho ricevuto da questa Chiesa sono i poveri. Già entrando in Diocesi, nel mio primo incontro con i detenuti dell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario, ebbi a dire che i poveri sono Cristo, non solo un’icona di Cristo. Il realismo della vita cristiana ci impedisce di vedere nei segni di Cristo qualcosa di lontano, semplicemente una metafora, un’immagine. I poveri sono parte privilegiata del corpo di Cristo perché ci richiamano continuamente, non soltanto all’abbassamento di Dio nella forma umana, ma soprattutto alla nostra condizione creaturale. Ci richiamano alla sete che Cristo ha di noi. A un uso saggio dei beni. Alla distribuzione dei doni ricevuti. All’umiltà e alla condizione miserevole e bisognosa di grazia della nostra umanità pellegrina.


Durante il mio cammino a Reggio Emilia ho potuto sperimentare, quasi fisicamente, la presenza dei santi nella mia vita, in particolare dei nostri patroni, del beato Rolando Rivi, di san Giuseppe e di Maria. A lei, venerata nella nostra Cattedrale come Vergine Assunta, nella Basilica della Ghiara in adorazione di Colui che aveva generato e nella Basilica di Guastalla come Madonna della Porta, affido ciascuno di voi e il tempo che ancora mi rimane da vivere.

 ✝ Massimo Camisasca FSCB

Amministratore Apostolico della Diocesi di Guastalla Reggio Emilia

 



Grazie monsignor Massimo Camisasca

✝ Pensiero del 13 febbraio 2022

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S. T. D. E DELLA B. V. M.

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La Beatitudine del Regno, è il Dono del Risorto affinché nella tribolazione, della vita riconosciamo la direzione giusta.

Meditazione sul Vangelo di Lc 6,17.20-26

Ancorare il cuore in Dio.              

Il Vangelo di oggi ci presenta la versione lucana del discorso della montagna. L’evangelista vuol far risaltare innanzitutto la fiducia in Dio, che presuppone l’essere coerenti. Nella prima lettura il profeta Geremia ci ricorda, per mezzo di una bella immagine, che solo Dio è degno di fiducia e che in lui dobbiamo riporre sempre la nostra speranza, poiché solo in lui possiamo trovare i veri beni cui anela il cuore umano.

Il Vangelo di oggi ci propone le beatitudini, una specie di sintesi della nuova legge che Cristo vuol promulgare per il cristiano. Il profeta Geremia ci offre un’interessante chiave di lettura per questo brano. La contrapposizione tra chi ripone la sua speranza in Dio e chi la fa poggiare sugli uomini calza perfettamente con il modo in cui san Luca ci presenta le beatitudini. In effetti, c’è una chiara tensione tra il presente ed il futuro. I felici sono quelli che ora sono afflitti per qualche ragione: avranno la loro ricompensa. I maledetti sono quelli che ora sono soddisfatti, perché non hanno più niente da sperare. Gesù ci invita a vivere la virtù della speranza. Non si tratta di un mero ottimismo umano, ma di riporre la nostra sicurezza in Dio. Al di sopra del denaro che possiamo avere sul nostro conto in banca, o dell’apparente stato di salute, o del vigore fisico della gioventù quando sboccia alla vita adulta, la nostra sola e vera sicurezza sta in Dio e nei beni celesti. La ragione è molto semplice: i beni di questo mondo sono tutti precari, e perciò possono crollare e crollano, come ci dimostra la nostra esperienza quotidiana. Questo non significa che per essere buoni cristiani si debba sottostare a innumerevoli privazioni, ma è un segnale di allerta per chi comincia a dimenticarsi di Dio, e costruisce la sua vita lontano da lui. Dio è la risposta a tutte le nostre necessità, la sua Provvidenza è la sicura garanzia che nulla ci mancherà di ciò che è necessario per arrivare al cielo. Rinnoviamo oggi la nostra fede nel destino finale della nostra vita, l’unico porto al quale ci interessa arrivare, l’abbraccio eterno con Dio.

Domenica 13 Febbraio 

6.a del Tempo Ordinario 

S. Martiniano; S. Benigno; B. Giordano di Sassonia
Beato l’uomo che confida nel Signore
Ger 17,5-8; Sal 1; 1Cor 15,12.16-20; Lc 6,17.20-26 

Rallegratevi ed esultate, dice il Signore, perché, ecco, la vostra ricompensa è grande nel cielo.

(Luca 6,23)

SALMO RESPONSORIALE (Salmo 1)
Rit: Beato l’uomo che confida nel Signore.

Beato l’uomo che non entra nel consiglio dei malvagi,
non resta nella via dei peccatori
e non siede in compagnia degli arroganti,
ma nella legge del Signore trova la sua gioia,
la sua legge medita giorno e notte.

È come albero piantato lungo corsi d’acqua,
che dà frutto a suo tempo:
«Le sue foglie non appassiscono
e tutto quello che fa, riesce bene».


Non così, non così i malvagi,
ma come pula che il vento disperde;
poiché il Signore veglia sul cammino dei giusti,
mentre la via dei malvagi va in rovina.

Rallegratevi ed esultate, dice il Signore, perché, ecco, la vostra ricompensa è grande nel cielo.

(Luca 6,23)

12 febbraio, 2022

✝ Pensiero del 12 febbraio 2022

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S. T. D. E DELLA B. V. M.

G. R. A. Livatino UOMO LAICO_MARTIRE PER LA GIUSTIZIA E PER LA VERITÁ in_Odio_ alla_Fede_Beato

Meditazione sul Vangelo di Mc 8,1-10

Pane di vita.     

Un evangelista Marco narra di due miracoli di moltiplicazione dei pani: oggi, dal capitolo 8, abbiamo sentito della seconda; della prima ce ne parla in 6,30-44. Il fatto che il racconto di questo episodio sia riportato da tutti gli evangelisti significa che esso riveste un’importanza capitale per capire l’evoluzione della vicenda di Gesù. Tutto il racconto è permeato da un clima di grande compassione: Gesù prova tenerezza per la folla e vuole aiutarla, sfamarla, e chiede la collaborazione degli apostoli i quali, attoniti, invitano Gesù ad un sano realismo.

Da sempre si è ritenuto questo episodio come il momento più alto della popolarità di Gesù. Egli viene ora riconosciuto come Messia, ma in maniera tutt’altro che chiara. Intravediamo un’ambiguità di fondo in questa massiccia adesione da parte della folla. Non succede forse anche a noi di cercare Dio per ciò che dà piuttosto che per ciò che è veramente? Non ci è forse mai capitato di chiedere a Dio di fare qualcosa per le sofferenze del mondo e, al suo invito a darci da fare, di replicargli accampando il nostro preteso sano realismo? Eppure Dio vuole avere bisogno di noi, preferisce aver bisogno del nostro nulla per fare qualcosa. Credere non significa delegare a Dio la risoluzione dei nostri problemi, ma imparare ad affrontarli in una prospettiva diversa. In questo racconto Gesù è animato dalla compassione verso la folla. Un sentimento pieno di umanità che si manifesta nella prontezza al servizio ed alla donazione. È altresì un sentimento umano perché rende Gesù uomo come noi; lo rende partecipe dei nostri dolori e delle nostre sofferenze. Ma è anche un sentimento divino, perché proviene da Dio, perché Gesù è spinto da esso ad operare il miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci. È la compassione divina che preannuncia la Passione del Figlio. Dio sente le nostre passioni, e ci dona la sua Passione. La sua compassione ha questo doppio movimento. Da Dio all’uomo per assumere tutte le passioni umane e dall’uomo a Dio per partecipare alla Sua Passione. È qui, nella compassione umano-divina che troviamo il valore delle nostre celebrazioni eucaristiche che è l’incontro tra Dio e l’uomo: un incontro d’amore, di salvezza e di redenzione.

Sabato 12 Febbraio 
5.a del Tempo Ordinario 

Ss. Martiri di Abitene; S. Benedetto di Aniane; B. Ombelina
Ricordati di noi, Signore, per amore del tuo popolo
1Re 12,26-32; 13,33-34; Sal 105; Mc 8,1-10

Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio.

(Matteo 4,4)

SALMO RESPONSORIALE (Salmo 105)
Rit: Ricordati di noi, Signore, per amore del tuo popolo.

Abbiamo peccato con i nostri padri,
delitti e malvagità abbiamo commesso.
I nostri padri, in Egitto,
non compresero le tue meraviglie.

Si fabbricarono un vitello sull’Oreb,
sì prostrarono a una statua di metallo;
scambiarono la loro gloria
con la figura di un toro che mangia erba.

Dimenticarono Dio che li aveva salvati,
che aveva operato in Egitto cose grandi,
meraviglie nella terra di Cam,
cose terribili presso il Mar Rosso.

Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio.

(Matteo 4,4)

11 febbraio, 2022

✝ Pensiero del 11 febbraio 2022

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S. T. D. E DELLA B. V. M.

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Maria, è colei che tutta ascolto in Lei, la Parola si è fatta carne ed intercede perché anche noi possiamo aprirci all’ascolto.

Meditazione sul Vangelo di Mc 7,31-37

Ascoltare la voce del Signore.   

Gesù continua il suo viaggio per la Decapoli; questa volta entra a Sidone. La gente di quella regione era già preparata a riceverlo. Appena entra in città gli presentano un sordomuto, sicuramente uno dei tanti nella fila di malati che chiedevano di essere guariti. Gesù, nonostante volesse passare inosservato in quella città di pagani – è per questo, infatti, che chiede di non raccontare a nessuno del miracolo -, non può rinunciare a compiere il bene.

Certamente, pochi tra quanti oggi si accostano a questo Vangelo sono sordomuti nel senso abituale della parola. Purtroppo, il numero delle persone che non sono capaci di parlare con Dio, o di ascoltarlo, è sicuramente più elevato. Nell’era della comunicazione, sono molti quelli che balbettano quando si rivolgono all’interlocutore più importante della nostra vita: Dio. Nella vita dello spirito c’è di tutto. Chi sa parlare con Dio solo per chiedere, e non ringrazia mai per i benefici che Dio concede continuamente. Chi si rivolge a Dio con aria quasi di superiorità, cercando di fargli vedere quel che più gli conviene, senza neppure badare a ciò che Dio vuole da lui. Sono i muti del linguaggio divino. Ci sono anche i sordi: quelle persone incapaci di scoprire la voce di Dio negli avvenimenti ordinari della vita, o perfino in quelli straordinari, che cercano sempre una spiegazione che chiama caso o destino ciò che, in realtà, è Provvidenza. Gesù ci viene incontro per aiutarci a dialogare con lui. Il suo cuore è ansioso di ricevere le nostre confidenze. Vuol consolare chi è afflitto, confortare chi soffre, assicurare chi vacilla. Ci viene incontro perfino prima che noi lo cerchiamo. Oggi, Cristo vuol dirci “Effatà”. Apre i nostri orecchi. Apre le nostre labbra. Ascoltiamo la voce di Dio che oggi parla al nostro cuore. Confidiamogli le nostre pene e le nostre gioie. Insomma, impariamo a pregare davvero.

Venerdì 11 Febbraio

Memoria della B.V. Maria di Lourdes

Ave Maria, piena di grazia,
il Signore e con te;
benedetta tu tra le donne.
Non temere, Maria,
perché hai trovato grazia presso Dio.

Apri, Signore, il nostro cuore e accoglieremo le parole del Figlio tuo.

(Atti degli Apostoli 16,14)

SALMO RESPONSORIALE (Salmo 80)
Rit: Sono io il Signore, tuo Dio: ascolta popolo mio.

Ascolta, popolo mio, non ci sia in mezzo a te un dio estraneo
e non prostrarti a un dio straniero.
Sono io il Signore, tuo Dio,
che ti ha fatto salire dal paese d’Egitto.

Ma il mio popolo non ha ascoltato la mia voce,
Israele non mi ha obbedito:
l’ho abbandonato alla durezza del suo cuore.
Seguano pure i loro progetti!

Se il mio popolo mi ascoltasse!
Se Israele camminasse per le mie vie!
Subito piegherei i suoi nemici
e contro i suoi avversari volgerei la mia mano.

Apri, Signore, il nostro cuore e accoglieremo le parole del Figlio tuo.

(Atti degli Apostoli 16,14)

10 febbraio, 2022

✝ Pensiero del 10 febbraio 2022

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Nel RICORDO DELLE FOIBE

10 FEBBRAIO 1943 - 10 FEBBRAIO 2022

Non c'è il Presente senza il Passato, non c'è Futuro senza la Memoria! 

Meditazione sul Vangelo di Mc 7,24-30

Il potere della fede.       

Gesù Cristo prosegue la sua missione trasferendosi a Tiro, sulla frontiera settentrionale della Galilea. Città commerciale per eccellenza, con un grande porto, era abitata in maggioranza da pagani. Per questo motivo, forse, Gesù credeva di poter passare facilmente inosservato. Tuttavia, la sua fama si era già estesa tra i pagani e una donna lo riconosce e gli chiede un miracolo. La risposta di Gesù è scoraggiante, ma ella non si lascia vincere dallo scoraggiamento e, con la sua insistenza, strappa a Gesù la grazia che desiderava.

La fede degli uomini non resta inosservata davanti agli occhi di Dio. Questa donna fenicia è il paradigma dell’atteggiamento di fede del credente, che segue il consiglio che lo stesso Gesù dà in un altro brano. «Chiedete e vi sarà dato; cercate e troverete; bussate e vi sarà aperto» (cf. Lc 11,9). Gesù propose anche l’immagine della vedova e del giudice ingiusto che, per l’insistenza di lei, le fa giustizia. Il Maestro ci dà ora in prima persona la testimonianza della sensibilità del cuore di Dio davanti alle necessità degli uomini. Gesù si stupisce della fede di questa donna; nel testo parallelo del vangelo di Matteo (15,21-28), commenta:  “Donna, davvero grande è la tua fede!». A prima vista, può sembrarci esagerata la frase del Vangelo che dice che la fede può muovere le montagne. Viviamo la nostra vita cristiana come se la forza della fede fosse una favola, un mito. Basta pensare alle nostre difficoltà quotidiane. Di fronte a qualsiasi problema, pensiamo immediatamente ad un’infinità di soluzioni umane: davanti alla malattia, chiamiamo il medico; davanti alle difficoltà familiari, ricorriamo allo psicologo. Ovviamente, tutto questo è giusto ed è così che si deve fare. Ma ci ricordiamo anche di pregare con fede, affinché questi problemi si risolvano? Non sarà che la nostra preghiera di supplica è solo un’ultima disperata risorsa, o un’abitudine svuotata di significato? Se pensiamo alla nostra vita spirituale – quella che più interessa a Dio – preghiamo per essere più santi e per raggiungere le virtù cristiane, per sopportare cristianamente la sofferenza, cercando di associarci alla passione di Cristo?  Questo Vangelo non può smettere di interpellare seriamente la nostra stessa vita di preghiera e di fede; che l’esempio di questa donna ci aiuti a seguire con fedeltà il comando di Cristo: “Vegliate e pregate, per non cadere in tentazione”.

Giovedì 10 Febbraio 
5.a del Tempo Ordinario
S. Scolastica (m); S. Silvano; B. Luigi Stepinac
Ricordati di noi, Signore, per amore del tuo popolo
1Re 11,4-13; Sal 105; Mc 7,24-30

Accogliete con docilità la Parola che è stata piantata in voi e può portarvi alla salvezza.

(Giacomo 1,21)

SALMO RESPONSORIALE (Salmo 105)
Rit: Ricordati di noi, Signore, per amore del tuo popolo.

Beati coloro che osservano il diritto
ed agiscono con giustizia in ogni tempo.
Ricordati di me, Signore, per amore del tuo popolo,
visitami con la tua salvezza.

I nostri padri si mescolarono con le genti
e impararono ad agire come loro.
Servirono i loro idoli
e questi furono per loro un tranello.

Immolarono i loro figli
e le loro figlie ai falsi dèi.
L’ira del Signore si accese contro il suo popolo
ed egli ebbe in orrore la sua eredità.

Accogliete con docilità la Parola che è stata piantata in voi e può portarvi alla salvezza.

(Giacomo 1,21)

09 febbraio, 2022

✝ Pensiero del 09 febbraio 2022

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S. T. D. E DELLA B. V. M.

G. R. A. Livatino UOMO LAICO_MARTIRE PER LA GIUSTIZIA E PER LA VERITÁ in_Odio_ alla_Fede_Beato

Il cuore, può essere la sorgente del male. Ma Gesù, lo rinnova radicalmente, rendendolo il luogo della Sua Dimora.

Meditazione sul Vangelo di Mc 7,14-23

L’opera di Dio poggia sul cuore degli umili.        

Il Vangelo ci presenta oggi il seguito dell’episodio di ieri, in cui Cristo discute coi farisei. Una volta che essi hanno evidentemente già abbandonato la scena, Gesù approfitta dell’opportunità per spiegare con un esempio concreto che la legge non è fine a se stessa, ma solo un’espressione esteriore di ciò che portiamo nel cuore. La vera impurità è la malvagità del cuore umano.

A Dio piace operare attraverso gli umili. Ci permette di vedere che non siamo noi ad avere il controllo del suo piano di salvezza. Egli agisce se le persone si lasciano condurre dallo Spirito Santo. Maria è il prototipo della persona umile che viene esaltata da Dio. Lei, una semplice fanciulla di Nazareth, scelta da Dio per la bellezza della sua anima immacolata, ricevette la grazia di essere la Madre di Dio. Anche noi, come la Vergine Maria, siamo chiamati a collaborare al piano salvifico di Dio. Certo, non attraverso le grazie di guarigione che Dio concede nella grotta di Lourdes, ma attraverso la testimonianza di vita cristiana che possiamo offrire alle altre persone. La gioia cristiana, che riscalda il cuore del credente, può essere la scintilla che fa divampare il fuoco della fede in tante altre persone che vagano senza trovare il senso per continuare a vivere. Saremo allora strumenti della grazia di Dio, per la salvezza degli uomini.

Mercoledì 9 Febbraio 
5.a del Tempo Ordinario
S. Apollonia; S. Sabino; B. Anna C. Emmerick
La bocca del giusto medita la sapienza
1Re 10,1-10; Sal 36; Mc 7,14-23

La tua parola, Signore, è verità: «Consacraci nella verità».

(Giovanni 17,17)

SALMO RESPONSORIALE (Salmo 36)
Rit: La bocca del giusto medita la sapienza.

Affida al Signore la tua via,
confida in lui ed egli agirà:

«Farà brillare come luce la tua giustizia,
il tuo diritto come il mezzogiorno».


La bocca del giusto medita la sapienza
e la sua lingua esprime il diritto;
la legge del suo Dio è nel suo cuore:
«I suoi passi non vacilleranno.

La salvezza dei giusti viene dal Signore:

«Nel tempo dell’angoscia è loro fortezza.
Il Signore li aiuta e li libera,
li libera dai malvagi e li salva,
perché in lui si sono rifugiati».

La tua parola, Signore, è verità: «Consacraci nella verità».

(Giovanni 17,17)

08 febbraio, 2022

In Cattedrale il nostro saluto al vescovo Massimo

 In Cattedrale il nostro saluto al vescovo Massimo


Carissimi,

domenica 13 febbraio alle ore 16.30 la nostra Chiesa diocesana è convocata in Cattedrale per rendere grazie al Padre per il ministero episcopale di Mons. Massimo Camisasca e per salutare il nostro Pastore che si accinge a lasciare la diocesi dopo nove anni di servizio.

Per desiderio di Mons. Massimo la partecipazione alla celebrazione Eucaristica sarà aperta a tutti, senza alcun particolare invito, fino ad esaurimento dei posti disponibili.
Chiedo cortesemente ai Sacerdoti e ai Diaconi di confermare la loro presenza alla concelebrazione, il sarà il bianco.
Le porte della Cattedrale saranno aperte un’ora prima dell’inizio della celebrazione; l’accesso per i Sacerdoti e Diaconi concelebranti sarà dal portico del palazzo vescovile dove persone incaricate daranno indicazioni per raggiungere le sagrestie.

Al termine Mons. Vescovo si fermerà in Cattedrale per quanti desidereranno salutarlo personalmente.
Mentre fin da ora accompagniamo don Massimo con la preghiera e l’affetto per questo importante passaggio della sua vita, vi saluto fraternamente e invito a dare massima diffusione alla presente convocazione a tutti i fedeli delle nostre Comunità.

Mons. Alberto Nicelli

Vicario Generale d.a.o.

 

Santa Giuseppina Bakhita

 Santa Giuseppina Bakhita


Nome: Santa Giuseppina Bakhita
Titolo: Vergine
Nascita: Olglossa, Darfur, Sudan
Morte: 8 febbraio 1947, Schio, Vicenza
Ricorrenza: 8 febbraio
Tipologia: Commemorazione


In nessun tempo i bambini hanno interamente goduto del rispetto e dell'amore che la loro condizione e la loro fragilità richiedono. Nonostante le apparenze. Si pensi a Erode che ne fa strage per salvaguardare il proprio trono o ai pedofili le cui turpi vicende ammorbano le cronache dei nostri giorni. Bakhita, la suora di colore che il primo ottobre del 2000 Giovanni Paolo II ha proclamato santa, ha sofferto pene indicibili per la crudeltà degli adulti. Era nata nel 1869 a Olglossa, nel Darfur, una regione a sudest del Sudan. La sua era una famiglia ricca, possedeva terreni con piantagioni c bestiame. E lei viveva felice, assieme ai genitori, tre fratelli e tre sorelle. «Non sapevo che cosa fosse il dolore», ricordava.

Ma quella stagione di felicità durò poco. Nel 1874 dei mercanti di schiavi rapirono sua sorella maggiore, due anni dopo toccava a lei identica sorte. I rapitori, due arabi, le diedero il nome di Bakhita, che significa «fortunata» e la rivendettero a un mercante di schiavi. Iniziava così una lunga drammatica odissea "alla quale tentò invano di sottrarsi, fuggendo" sballottata da un paese all'altro, da un padrone all'altro. Ne ebbe ben sei di padroni, e nessuno ebbe compassione di lei. Il più cattivo fu un generale turco, che la sottopose a un vasto tatuaggio che le lasciò libero solo il volto: 114 tagli inferti con un rasoio, trattati poi con il sale per evidenziarne i segni. Un vero supplizio, e fu un miracolo se Bakhita ne uscì viva. «Il Signore mi voleva per cose migliori», commentava lei stessa.

Poi le cose cambiarono. Il generale turco vendette la ragazzina, che era tra l'altro di una struggente bellezza, a un italiano, il console Callisto Legnani, che la trattò bene. L'avrebbe anzi riportata al suo villaggio, dai suoi, solo se Bakhita, rapita piccolissima, si fosse ricordata quale fosse.

Quando il Legnani lasciò l'Africa, Bakhita ottenne di seguirlo in Italia, al seguito di un amico del console, Augusto Michieli, ricco commerciante di Venezia, che la portò con sé nella villa di Zianigo di Mirano Veneto, perché facesse da babysitter alla figlioletta Alice.

I coniugi Michieli erano buona gente: lui cattolico ma assai poco praticante; lei, la signora Turina, ortodossa ma poco convinta. Alla bella ragazza di colore venne proibito di frequentare la chiesa. Con grande disappunto dell'amministratore di casa Michieli, Illuminato Cecchini, il quale, fervente cattolico, s'era, messo in testa di «convertirla». E approfittava di tutte le occasioni migliori per poterle parlare di Dio, di Gesù e della chiesa. Era a metà del suo cammino quando i Michieli ritornarono in Africa con Bakhita al seguito. Cecchini, amareggiato per non avere completato la sua opera, si affidò a Dio, e nelle mani della giovane nera partente che lo salutava aveva messo un piccolo crocifisso: «Pensaci tu, Signore».

Il Signore ci pensò. Infatti i Michieli, alla vigilia di uno dei loro frequenti viaggi d'affari in Africa, decisero di ritornare in Italia ad affidare la figlia Alice e la bambinaia all'istituto delle suore canossiane di Venezia. «Solo per qualche mese "avevano detto i Michieli", poi passeremo a riprenderle per trasferirci definitivamente in Africa». Ma quando andarono a riprenderle trovarono una sorpresa: Bakhita, che nel frattempo aveva studiato catechismo e si stava preparando a ricevere il battesimo, con dolcezza, ma decisione, comunicò che non li avrebbe seguiti in Africa: «Non potrei professarvi la mia fede nel Signore», si giustificava Bakhita con la signora che insisteva considerando la ragazza «sua schiava».

Ma Bakhita la spuntò, sostenuta anche dal patriarca di Venezia, il cardinale Agostini, e dal procuratore del re, che la dichiarò libera perché la legge italiana vietava ogni forma di schiavitù. E rimase. Era il 29 novembre 1889. Per la giovane di colore iniziava una nuova vita. Il 9 gennaio dell'anno seguente riceveva dal patriarca il battesimo con i nomi di Giuseppina, Margherita e Fortunata, e insieme la cresima e la prima comunione. Fu per lei una giornata memorabile, incredibile. La consapevolezza di essere diventata, da schiava che era e per di più nera e ignorante, figlia di Dio la sgomentava e insieme la colmava di gioia. Si rammaricava per non avere nulla da offrirgli in cambio. «Ma tu lo ami il Signore "la consolava la sua catechista". Questo basta».

Intanto, vivendo e approfondendo la sua esperienza religiosa, Bakhita maturava il desiderio di consacrarsi al Signore nella vita religiosa canossiana. Temeva però di manifestarlo ritenendo che la sua condizione di nera non avrebbe giovato alla congregazione. Quando lo fece, fu accolta a braccia aperte. Dopo tre anni di noviziato, 1'8 dicembre 1896, a Verona, pronunciava i voti. Era felice. Lo stesso patriarca di Venezia, il cardinale Sarto, futuro Pio X, dopo averla esaminata, l'aveva incoraggiata nella sua scelta: «Pronunciate pure i voti "le aveva detto". Gesù vi vuole. Gesù vi ama; voi amatelo e servitelo sempre così».

Dopo la professione venne mandata nel convento delle canossiane a Schio, Vicenza, dove rimarrà per quarantacinque anni, edificando le consorelle per la sua umile disponibilità ad accettare e svolgere qualsiasi incombenza le venisse richiesta: in cucina, in guardaroba, in portineria, a ricamare... E guadagnandosi la stima di tutti, fuori dal convento, per la sua bontà, dolcezza, cordiale accoglienza, soprattutto dei poveri e dei bambini che frequentavano le scuole dell'istituto, i quali ascoltavano incantati i racconti della «madre moretta». Seppe essere per tutti una vera testimone dell'amore di Dio, che lei con un misto di familiarità e riverenza chiamava alla veneta «el me Paron».

Si occupò anche delle missioni. Per un paio d'anni fu nel noviziato missionario di Vimercate, dal quale partiva con una consorella reduce dalla missione in Cina per recarsi in varie città d'Italia a promuovere lo spirito missionario. E la sua storia «meravigliosa», di piccola schiava, di convertita, di amata da Dio a tal punto da farla tutta sua, costituiva il nucleo centrale di ogni incontro. Due anni di viaggi, su e giù per l'Italia, che le costarono molta fatica ma durante i quali ha lasciato una scia di bontà. Lasciava a tutti questo semplice messaggio: «Siate buoni, amate il Signore, pregate per quelli che non lo conoscono. Sapeste che grande grazia è conoscere Dio». E avrebbe voluto lei stessa poter volare presso la sua gente, per far conoscere a tutti l'amore di Dio.

Visse le drammatiche esperienze di due guerre. Dalla prima ne era uscita rinvigorita nello spirito per il grande bene che aveva fatto tra i soldati feriti ricoverati negli ospedali militari, e tra la gente, per alleviarne le sofferenze fisiche e le angustie morali. Dalla seconda, invece, uscì fortemente provata nel fisico. Gli anni ormai erano tanti. Nel dicembre del 1943 con la comunità religiosa e i cittadini di Schio aveva festeggiato (nei limiti concessi dai difficili tempi di guerra) il cinquantesimo di vita religiosa. Un bel traguardo che porta inevitabilmente con sé un bel po' di acciacchi, per lei in particolare un'artrite deformante che la obbligò prima ad aggrapparsi al bastone per muoversi e poi a ricorrere alla sedia a rotelle, e una bronchite asmatica con la tosse che le squassava il petto.

Stava male, ma non si lamentava mai. Accettava tutto con coraggiosa pazienza. Il suo pensiero andava a Gesù in croce, alla Madonna addolorata e ogni guaio diventava sopportabile. «Come sta?», le chiedeva chi andava a farle visita. «Come volo el Paron, come vuole il Padrone», rispondeva con un tono che non sapeva di rassegnazione, ma era testimonianza di fede, di bontà e di speranza cristiana.

Alla fine sopraggiunse una polmonite, che le fu fatale. Durante l'agonia rivisse i terribili giorni in cui, bambina, era prigioniera. Tanto da supplicare l'infermiera di «allargare le catene perché pesano». Poi venne la Madonna a liberarla da quegli incubi oppressivi. Si spense infatti mormorando: «La Madonna, la Madonna...», mentre il sorriso le illuminava e le distendeva il volto prima contratto dalla sofferenza. Era l'8 febbraio 1947. La comunità religiosa e la gente di Schio si raccolsero attorno a lei in preghiera. Ognuno voleva vedere per l'ultima volta la madre moretta. La fama della sua santità, testimoniata da più di un fatto prodigioso, diede subito il via a una devozione sentita e vasta. Giovanni Paolo II l'ha iscritta nell'albo dei santi l'1 ottobre 2000.

MARTIROLOGIO ROMANO. Santa Giuseppina Bakhita, vergine, che, nata nella regione del Darfur in Sudan, fu rapita bambina e, venduta più volte nei mercati africani di schiavi, patì una crudele schiavitù; resa, infine, libera, a Venezia divenne cristiana e religiosa presso le Figlie della Carità e passò il resto della sua vita in Cristo nella città di Schio nel territorio di Vicenza prodigandosi per tutti.

✝ Pensiero del 08 febbraio 2022

 ✝

S. T. D. E DELLA B. V. M.

G. R. A. Livatino UOMO LAICO_MARTIRE PER LA GIUSTIZIA E PER LA VERITÁ in_Odio_ alla_Fede_Beato

Troppo spesso nelle nostre devozioni, si nasconde il tarlo dell'auto salvezza. Bisogna lasciare che il Signore ci pulisca il cuore.

Meditazione sul Vangelo di Mc 7,1-13

Allargare il cuore per amare tutti.          

Il Vangelo di oggi ci presenta una delle numerose polemiche che Gesù ebbe con le autorità religiose del suo tempo. Il Maestro rimprovera loro di aver ridotto il contenuto della rivelazione di Dio ad un insieme di prescrizioni legali, ormai svuotate di ogni significato. Cristo fa vedere che l’aspetto peggiore della situazione è che il comandamento essenziale della legge di Dio, l’amore, è relegato ad un posto secondario in favore della inutile moltiplicazione di precetti legali, privi di significato.

Oggi la liturgia ci pone di fronte ad uno dei pericoli più grandi che possiamo affrontare come cristiani. Si tratta di uno scoglio che può essere molto insidioso, soprattutto per quelle persone che hanno già ricevuto una minima catechesi, e che credono di sapere tutto della fede. Ed è il rischio di ridurre il messaggio di Dio nei limiti delle nostre categorie umane. Non è Dio quello che deve ridimensionarsi nelle nostre rachitiche misure, secondo una maniera schematica di vivere la fede cattolica, riducendola ad un insieme di rituali; siamo noi che dobbiamo imparare ad allargare il nostro cuore per vivere il messaggio centrale del cristianesimo, che è l’amore. Quante volte abbiamo sentito accusare i cristiani di ipocrisia: assistono con molta pietà agli uffici liturgici, ma trattano male le persone che li servono, imbrogliano, parlano male della Egente, ecc. Questa è una delle perversioni della religione che più scandalizza quelli che non conoscono la fede, soprattutto se si verifica nei suoi ministri, o in persone “impegnate”. Gesù ci invita a non perdere di vista il fatto che non possiamo vivere davvero la nostra fede, se non amiamo con un amore reale tutti i nostri fratelli; se non c’è coerenza tra le parole che rivolgiamo a Dio, in chiesa, e il modo in cui trattiamo gli altri. Lo diceva già san Giovanni ai primi cristiani: «Chi non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede» (cf. 1Gv 4,20). Vivere il comandamento della carità, più di qualsiasi devozione esteriore, è la vera misura della nostra fede.

Martedì 08 Febbraio 
5.a del Tempo Ordinario
S. Girolamo Emiliani (mf); S. Giuseppina Bakhita (mf)
Quanto sono amabili, Signore, le tue dimore!
1Re 8,22-23.27-30; Sal 83; Mc 7,1-13

Piega il mio cuore, o Dio, verso i tuoi insegnamenti; donami la grazia della tua legge.

(Salmo 118)

SALMO RESPONSORIALE (Salmo 83)
Rit: Quanto sono amabili, Signore, le tue dimore!

L’anima mia anela
e desidera gli atri del Signore.
Il mio cuore e la mia carne
esultano nel Dio vivente.

Anche il passero trova una casa
e la rondine il nido dove porre i suoi piccoli,
presso i tuoi altari, Signore degli eserciti,
mio re e mio Dio.

Beato chi abita nella tua casa:
senza fine canta le tue lodi.
Guarda, o Dio, colui che è il nostro scudo,
guarda il volto del tuo consacrato.

Sì, è meglio un giorno nei tuoi atri
che mille nella mia casa;
stare sulla soglia della casa del mio Dio
è meglio che abitare nelle tende dei malvagi.

Piega il mio cuore, o Dio, verso i tuoi insegnamenti; donami la grazia della tua legge.

(Salmo 118)