Translate

04 settembre, 2016

Omelia nella santa Messa per la collocazione di una reliquia di Rolando Rivi nella Chiesa di Marola

 Omelia nella santa Messa per la collocazione di una reliquia di Rolando Rivi nella Chiesa di Marola

Marola
04-09-2016


Carissimi fratelli e sorelle,

siamo riuniti per riconsegnare solennemente a questo luogo un segno del passaggio del beato Rolando che qui ha vissuto i suoi anni di seminario.

I luoghi e le cose che hanno fatto parte della vita di una persona ci rivelano la concretezza storica della sua esistenza, sono il primo baluardo contro ogni oleografia, mitizzazione o idealizzazione che spesso, dietro il pretesto di onorare una persona, la allontanano da noi e dalla realtà concreta nella quale tutti viviamo.

 

Le reliquie di un santo, in particolare, non rappresentano solo il segno visibile della sua vita terrena, ma anche una strada di conoscenza e di accesso alla luce della sua testimonianza. Attraverso le reliquie viene in un certo senso custodita e trasmessa alle generazioni future un po’ della santità di colui a cui sono appartenute. Come è possibile questo?

 

Non possiamo comprendere il significato profondo delle reliquie, che tanta parte hanno avuto e hanno nella Chiesa Cattolica e nella fede del popolo cristiano, se non entriamo nella realtà dell’Incarnazione.

Perché, infatti, si venera il frammento di un corpo o di un vestito che ha ricoperto quel corpo? Perché si crede che l’uomo o la donna ai quali appartenevano siano stati abitati in modo particolare da Dio e siano oggi, perciò, per coloro che li accostano con fede e cuore aperto, tramite di grazia. Senza entrare in questa materialità sacramentale del cristianesimo non si può comprendere la venerazione delle reliquie ed essa finisce per essere confusa con riti pagani, magici, espressione di una religiosità superstiziosa e ignorante. Laddove viene meno l’idea e l’esperienza del sacramento, si toglie ogni fondamento alla possibilità che la santità trasfiguri la nostra vita nel tempo presente. Veneriamo il corpo dei santi perché essi per noi sono come dei sacramenti di Cristo, non nel senso stretto dei sette sacramenti, ma nel senso lato per cui tutto ciò che è stato trasformato interiormente da Dio, ha una forza particolare di comunicazione del divino.

 

I corpi dei santi – cioè di tutti i battezzati, che rispettiamo e seppelliamo con onore – sono stati incorporati a Cristo mediante il battesimo e si sono nutriti del suo Corpo eucaristico. La loro vita e i loro corpi, soprattutto quando – come nel caso di Rolando – sono stati consumati per Cristo, sono una testimonianza vivente della Sua presenza vittoriosa, che un giorno si manifesterà nella resurrezione dei corpi. Questa è la ragione profonda per cui la Chiesa, nella sua lunga Tradizione, ha preferito la sepoltura dei corpi alla loro cremazione. Ancor oggi, benché non si opponga alla cremazione, vuole che le ceneri siano onorate e non disperse.

 

La reliquia, se guardata in profondità, rivela un nesso profondo tra il battesimo, l’eucarestia e il martirio. Come il battesimo e l’eucarestia, attraverso dei segni materiali, l’acqua, l’olio, il pane e il vino, comunicano la vita di Dio, per analogia il corpo del santo che da essi è stato trasformato è una realtà santa, comunicatrice di grazia.

 

Nel martirio di Rolando vediamo risplendere il compimento di un cammino iniziato nel battesimo e continuato nella comunione eucaristica.

Il martirio, fin dalle origini, è stato ritenuto dalla Chiesa come un secondo battesimo, come una partecipazione straordinaria alla passione redentrice di Gesù, concessa da Dio ad alcuni suoi figli prediletti.

Tutti, ognuno nella forma che Dio stabilisce, siamo chiamati a partecipare alla passione di Cristo, ma il martire vi partecipa in modo fisico, vive una sponsalità particolare che fa del suo corpo una realtà carnale unita in modo speciale all’umanità risorta di Cristo. Per questo è fonte di una grazia potente per coloro che lo accostano con fede.

 

Quest’ultima considerazione è molto importante: occorre accostare con fede le reliquie. A seconda di come le si accosta, esse possono risultare insignificanti o fonte di un profondo cambiamento di vita. La reliquia non agisce di sua iniziativa, ma sollecita la fede di chi la accosta. Senza fede non c’è operazione di Dio. Certamente è Dio stesso che suscita la fede, ma contestualmente è la disponibilità del nostro cuore a farla fiorire.

 

Il primo scopo di una reliquia, quindi, è di suscitare la preghiera. È questo il miracolo più grande che possiamo chiedere. È questo il primo desiderio che esprimo davanti alla reliquia di Rolando che oggi collochiamo in questa chiesa. Ancor prima delle grazie particolari che qui verremo a chiedere per intercessione del nostro beato – grazie che dipenderanno dal disegno misterioso di Dio che solo conosce qual è il nostro bene – il miracolo che oggi chiediamo per tutti noi sono la fede, la speranza e la carità, la rinascita del nostro dialogo con Dio, uno sguardo capace di vedere, oltre la “banalità del male”, per usare un’espressione di Hannah Arendt, la presenza del bene destinato a trionfare su tutte le apparenti brutture e fatiche della nostra vita presente.

 

Amen

✝ Massimo Camisasca FSCB

Mons. Vescovo Reggio Emilia - Guastalla




16 aprile, 2016

Omelia per l’anniversario del martirio del beato Rolando Rivi – IV domenica di Pasqua (anno C)

Omelia per l’anniversario del martirio del beato Rolando Rivi – IV domenica di Pasqua (anno C)

Pieve di San Valentino
16-04-2016


Carissimi fratelli e sorelle,

siamo qui per commemorare assieme a voi il nostro Rolando, nel 71° anniversario del suo martirio. Ho desiderato essere presente in quest’occasione poiché il prossimo 29 maggio, data in cui ricorre la sua memoria liturgica, sarò a Roma per un impegno che mi ha chiesto la Santa Sede.

 

Le letture che sono state proclamate in questa IV domenica di Pasqua sembrano proprio scelte per aiutarci a entrare nel mistero della vita di Rolando. In particolare la seconda lettura, tratta dall’Apocalisse di san Giovanni, ci presenta la schiera dei martiri, di coloro che sono passati dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti, rendendole candide col sangue dell’Agnello (Ap 7,14). L’apostolo ci parla di una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide, e tenevano rami di palma nelle loro mani (Ap 7,9).

 

L’immagine di questi uomini che hanno reso candida la loro veste lavandola nel sangue di Cristo ci potrebbe far chiedere, come fa lo scrittore greco Ecumenio nel suo Commento all’Apocalisse: «Sarebbe stato logico che le vesti lavate nel sangue diventassero rosse piuttosto che bianche; come dunque sono diventate bianche?» (Ecumenio, Commento all’Apocalisse 5, 3). Evidentemente dietro questa immagine si nasconde un significato simbolico nel quale desidero addentrarmi questa sera assieme a voi.

Paolo e Barnaba, nella prima lettura che abbiamo ascoltato, ci aiutano a comprendere il significato di queste parole quando, citando il profeta Isaia, annunciano ai Giudei di Antiochia: Io ti ho posto per essere luce delle genti, perché tu porti la salvezza sino all’estremità della terra (At 13,47; cfr. Is 49,6). Il biancore delle vesti dei martiri è la luce che proviene dalla croce di Cristo dalla quale sgorga un fiume di salvezza che, attraverso i suoi testimoni, raggiunge ogni angolo della terra.

Io sono la luce del mondo (Gv 8,12; 9,5), ha detto Gesù, Io sono la salvezza. Eppure lo stesso Signore ha detto ai suoi discepoli: voi siete la luce del mondo (Mt 5,14), la mia luce splende davanti agli uomini attraverso di voi, nella misura in cui vi lasciate abitare dalla mia luce.

 

Non solo, quindi, coloro che, come il nostro Rolando, sono chiamati dal Signore a rendere la suprema testimonianza del sangue, fanno parte dell’immensa moltitudine attorno al trono dell’Agnello descritta da san Giovanni nell’Apocalisse. Ogni discepolo di Cristo, ognuno di noi, è parte di questa schiera festante. Il sacramento del battesimo ci ha introdotti in essa. Nel battesimo, infatti, ognuno di noi ha lavato le sue vesti nel sangue dell’Agnello, ed ognuno di noi è emerso da quelle acque con una veste candida, segno della nuova vita che Gesù, attraverso la sua morte e resurrezione, ci ha donato. Una vita per la quale ogni cristiano può affermare con san Paolo: Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me (Gal 2,20). «Il vestito dell’anima, infatti, – scrive Tertulliano – è la carne. Le sue sozzure sono lavate dal battesimo, le sue macchie sono rese candide dal martirio» (Tertulliano, Scorpiace 12,10).

 

L’unico vero martirio è quello di Cristo, egli è il testimone verace (cfr. Ap 3,14). Ogni nostro martirio, ogni nostra testimonianza è relativa a lui, trae della sua passione e resurrezione la sua luce, la sua possibilità e la sua fecondità. Per questo il battesimo rappresenta l’atto supremo della nostra partecipazione alla sua vita: nel battesimo è evidente che non siamo noi a meritare la salvezza, a procurarci, con i nostri meriti, una veste di luce, ma è la sua grazia che ci rende un solo corpo con Gesù perché nessuno, come abbiamo ascoltato nel vangelo, possa mai strapparci dalla sua mano (cfr. Gv 10,28). Io e il Padre siamo una cosa sola (Gv 10,30), continua Gesù. In questa unità anche noi siamo introdotti attraverso il battesimo.

 

Cari amici,

ringraziamo il Signore per il grande dono che ci ha fatto e chiediamogli, per l’intercessione del beato Rolando, di essere sempre più uniti a lui per poter godere della sua luce e di trasmetterla a tutti gli uomini e le donne della nostra terra.

 

Amen.

✝ Massimo Camisasca FSCB

Mons. Vescovo Reggio Emilia - Guastalla




25 luglio, 2015

COMMOSSO RICORDO DI SUOR MARTA RIVI

COMMOSSO RICORDO DI SUOR MARTA RIVI

ZIA DEL BEATO ROLANDO

Era Appartenente all’Istituto del ordine delle Dorotee di Montecchio



È con commozione carica di affetto che il Comitato Amici di Rolando Rivi ricorda Suor Marta Rivi, zia del Beato Rolando Rivi Martire, che il Signore ha chiamato al cielo oggi, sabato 25 luglio, all’età di quasi 95 anni. Suor Marta è stata protagonista, come testimone, al Processo Diocesano per la Causa di Beatificazione svoltosi a Modena nell’anno 2006.

Il suo ricordo del nipote martire era indissolubilmente legato a una lettera ricevuta da Rolando poco tempo dopo il suo ingresso nel Seminario di Marola, nell’autunno del 1942, in cui il ragazzo le raccontava della gioia provata nel vestire per la prima volta l’abito talare. Quella veste, segno della sua appartenenza al Signore, che Rolando non avrebbe più lasciato sino al martirio. 
Entrata a 18 anni nell’ordine delle Suore Dorotee, Suor Marta ricevette in convento la notizia di come Rolando fosse stato ucciso in odio alla sua fede cristiana. Il profondo dolore si trasformò in preghiera e nel desiderio di veder salire all’onore degli altari il giovane nipote che aveva donato la vita a Gesù. Questo desiderio ha trovato risposta nel 2013 quando Papa Francesco ha proclamato Rolando Beato perché Martire.

Di lei ricordiamo la gratitudine con cui ha sempre seguito tutti i passi della causa di Beatificazione e la sua fede semplice e certa che generava una letizia e un’operosità instancabile per il vero bene degli altri. 
Ora siamo certi che il Beato Rolando Rivi Martire l’ha accolta nella gloria del Cristo Risorto, dove è la gioia che non finisce.

La telefonata arriva, il nome è in memoria, suor Marta; intuisco subito, non stava bene e lei, di persona, non chiamava più. Suor Margherita mi dà la notizia con molta semplicità: “La Madonna ha chiamato suor Marta, lei l’ha presa: oggi è sabato e le campane suonavano l’Angelus”.
Sento le lacrime pungermi gli occhi ovviamente, ma rispondo: “Ora è insieme a Rolando”.
E il pensiero della zia che incontra il nipotino mi fa sorridere, così come credo abbia sorriso Gesù.
Chi era suor Marta? Una suora, sorella per tanti, educatrice per una vita intera, ma, per me, era la zia di Rolando. Così l’ho conosciuta e incontrata.
Aveva letto della vittoria del Concorso scolastico nazionale bandito dalla Cei in occasione del Congresso Eucaristico Nazionale “Ancona 2011” con i nostri ragazzini delle 4 classi quinte della Primaria di Cadelbosco Sopra, vittoria ottenuta proprio presentando come testimone della fede Rolando, frutto della nostra terra e della nostra Chiesa reggiano-guastallese, visto da bambini come lui, raccogliendo il materiale prodotto (disegni, testi, intervista…) in un dvd che è poi diventato un sussidio per parrocchie e scuole.

Quella talare che i preti si vergognano d'indossare

 Se ne vedono di tutti i colori, e non soltanto ovviamente per quel che riguarda il decoro dell’abito… evidentemente con licenza del vescovo o del superiore dell’ordine religioso di appartenenza… se la disciplina non esiste più, le regole si possono eludere senza alcun problema.

Ognuno nella vita segue, o per lo meno cerca di farlo, la sua vocazione, fra le quali esiste (anche) il sacerdozio. Non è stata la mia. Nel caso lo fosse stata avrei cercato certamente di fare il mio dovere, esercitando il ministero non come un mestiere, una professione, bensì come una missione, cioè, in primis, di portare con orgoglio e di onorare la “divisa” del prete, che era e resta (non mi risulta sia stata abolita) la veste talare.

Mi sovviene che indossava quella “divisa” il mio concittadino don Giovanni Minzoni, medaglia d’argento al valor militare nella Grande Guerra, quando venne ucciso dai fascisti il 23 agosto 1923 ad Argenta, dove era parroco, e che ugualmente la indossavano il seminarista Rolando Rivi e don Umberto Pessina quando restarono vittime dell’odio dei partigiani comunisti nell’Emilia insanguinata della e dalla guerra civile.

Ancora, ricordo che quella tale veste talare non la smise mai don Primo Mazzolari. E quando incontrai don Piero Piazza, suo successore nella parrocchia di Bozzolo nei primi anni Novanta del secolo scorso, alla mia domanda-considerazione scherzosa: ma don Piero, non indossa il clergyman?; la risposta fu: questa veste talare me l’ha abbottonata don Primo sull’altare quando venni ordinato sacerdote e io non l’ho mai abbandonata…

Romanticherie clericali – potrà dire qualcuno ligio al detto che l’abito non fa il monaco, ma al quale si potrà sempre rispondere che se non fa il monaco, certamente potrebbe aiutare a farlo!!!…

Ora, queste figure di sacerdoti, ma potrei ovviamente indicarne altre, mi sono venute alla mente considerando l’anarchia esistente fra i preti, e non soltanto ovviamente per quel che riguarda quello che un tempo veniva definitivo il decoro dell’abito.

Se ne vedono di tutti i colori, evidentemente con licenza del vescovo o del superiore dell’ordine religioso di appartenenza, se così vanno le cose: se la disciplina non esiste più, le regole si possono eludere senza alcun problema.

Vestono come metalmeccanici (con tutto il rispetto per quei lavoratori, sia chiaro), o come fighetti borghesi (senza rispetto per i fighetti medesimi), spessissimo senza avere un segno distintivo che li qualifichi, e se c’è, comunque (una crocetta, meglio una TAU che va tanto di moda) poco visibile.

La sensazione diffusa è che si vergognino di indossare abiti da… prete.

L’ultima è di sere fa, vista in un telegiornale regionale – veneto. Un servizio su un carcere e due parole dette da un giovanotto che si è scoperto essere cappellano del carcere medesimo; visto dalla cintola in su (non si sa quindi se indossasse braghe corte o pantaloni lunghi): sgargiante maglietta alla moda, a strisce orizzontali bianche e rosse, su un lato una patacca, un ricamo, non si distingueva bene; di certo non era una croce!!! In compenso. Maggiore sobrietà nel vestire dimostravano i detenuti inquadrati…

Avanti così… Potranno atei, musulmani e altri di varia estrazione avere stima di una Chiesa cattolica in cui ministri già dal vestire dimostrano di volersi… mimetizzare e non apparire per quello che sono?

Meditate, preti, meditate. E voi vescovi che fate? Non vi muovete? A, già, dimenticavo che non volete noie. Anche in presenza di vostri preti che dal vestire alla liturgia ignorano quelle regole che pure il tanto citato Concilio Vaticano II non ha eliminato.

Giovanni Lugaresi






29 maggio, 2015

Omelia nella santa Messa per la solennità del beato Rolando Rivi

 Omelia nella santa Messa per la solennità del beato Rolando Rivi

- Pieve di San Valentino
29-05-2015

Cari fratelli e sorelle,
 
abbiamo la gioia di celebrare per la seconda volta la festa liturgica del beato Rolando Rivi.
La consapevolezza del dono che ci è stato fatto attraverso la vita e la testimonianza di Rolando è ancora molto acerba. Ogni dono di Dio, infatti, esige un cammino lungo per poter essere compreso in modo sempre più profondo e accolto in tutta la sua portata.
 
Cosa vuol dire Dio alla nostra Chiesa e alla Chiesa universale indicando in Rolando un punto luminoso a cui guardare?
 
Rispondere a questa domanda è una responsabilità a cui non possiamo sottrarci, un compito che ci impegnerà per molti anni. Nel Vangelo che è stato proclamato troviamo già alcune strade per iniziare a rispondere a questa domanda.
 
1. Dio chiama ogni cristiano ad essere testimone della Resurrezione. Il martirio è una testimonianza della Resurrezione.
Se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto (Gv 12, 24). Qual è questo frutto di cui parla Gesù? Ce lo dice lui stesso: il Padre mio lo onorerà (Gv 12, 26). Lo renderà partecipe della mia Resurrezione e lo renderà testimone di essa nei secoli.
 
Dio è presente e mostra continuamente, sotto i nostri occhi, la Resurrezione del Figlio. Molto spesso, come nel caso di Rolando, lo fa servendosi di strumenti umili, piccoli, deboli. Il primo insegnamento che possiamo cogliere dalla vicenda del nostro seminarista martire è proprio l’ordinarietà dell’azione di Dio nella nostra vita. Egli si nasconde dentro le pieghe quotidiane delle nostre giornate e ci chiede di guardare a ciò che Lui fa in noi e attorno a noi.
 
2. Ma per poterci accorgere dell’opera di Dio è necessaria la preghiera, l’apertura al dialogo con Lui. Abbiamo bisogno di uno sguardo profondo per vedere la luce e questo sguardo può donarcelo solo Dio. È questo il secondo insegnamento che ci viene da Rolando. Egli era un ragazzo di preghiera. Dentro tutte le occupazioni della sua giornata aveva sempre il cuore aperto a ciò che Dio gli suggeriva. La partecipazione alla Messa quotidiana, lo sguardo rivolto ai suoi genitori e al suo parroco, l’esperienza del servizio in parrocchia e dello studio in seminario, lo aiutavano a mantenere un rapporto stabile con Dio, che continuava anche durante i giochi, gli scherzi, le partite di pallone. Guardando la vita semplice di Rolando comprendiamo che per vivere in dialogo con Dio non occorrono grandi eventi o doni straordinari. Basta guardare e mettersi in gioco in quello che ci è dato chiedendo nella preghiera di poter essere suoi in tutto.
 
3. Se rimaniamo fedeli alla vocazione che il Signore ci dona – ed è l’ultimo aspetto che questa sera vorrei sottolineare guardando al nostro beato – il Signore opererà attraverso di noi, secondo strade e disegni che Lui solo conosce. La fedeltà di Rolando al cammino che aveva intrapreso non lo ha portato a diventare sacerdote come lui avrebbe desiderato, ma ha permesso al Signore di servirsi di lui per manifestare a tutti noi la vittoria della fede. E oggi la voce di Rolando si alza per raggiungere un numero infinito di uomini e di donne a cui difficilmente sarebbe potuta arrivare se, per poter diventare sacerdote, egli si fosse sottratto a ciò che Dio gli chiedeva. E in questo modo egli ci svela anche il senso più profondo del sacerdozio: l’immedesimazione con Gesù fino a donare la propria vita per lui e per la sua Chiesa.
Ciò che rende feconda la nostra vita non è, dunque, la realizzazione dei desideri, anche buoni e santi che abitano in noi – come quelli che abitavano il cuore di Rolando –, ma l’obbedienza lieta e quotidiana a ciò che Dio ci chiede.
 
Domandiamo che per l’intercessione del beato Rolando Rivi una nuova stagione della fede possa sorgere sulla nostra terra. A lui affidiamo ancora una volta le nostre persone, quelle dei nostri cari, soprattutto dei poveri e dei malati, e chiediamo il dono di nuove e sante vocazioni al sacerdozio, alla vita consacrata e al matrimonio cristiano.
 
Amen.

✝ Massimo Camisasca FSCB

Mons. Vescovo Reggio Emilia - Guastalla




19 maggio, 2015

Riccardo Rampi

 “Voglio pensare che Alfredino che non ha mai potuto giocare col fratello, l’abbia voluto con sé in Paradiso e quando l’ha chiesto al Signore, è stato accontentato. Ora sono lì in Paradiso, abbracciati, due angeli custodi”.







12 ottobre, 2014

Cinquantesimo di sacerdozio (1964 - 2014) di Mons. Ubaldo Nava nella mia ex parrocchia San Fermo e Rustico

 Nella mia ex Parrocchia San Fermo e Rustico di Presezzo (Bg) 



Mons. Ubaldo Nava ripercorrendo i suoi cinquant'anni di sacerdozio 1964 - 2014

I miei ringraziamenti più sinceri vanno ad Isabella Menghini, per la fotografia.


Tanti auguri di cuore, caro Padre, ancora per un buon cammino sacerdotale 

Dio, lo benedica e la Vergine Maria proteggano sotto al loro mantello. conservandolo a lungo su questa Terra.  

Canzano Barbara 

10 settembre, 2014

Il Bacio del Papa alla Reliquia di Rolando Maria Beato

Il Bacio del Papa alla Reliquia di Rolando Maria Beato






Papa Francesco mi ha dato un bel bacio sulla frontemi ha abbracciato e mi ha detto che ho un sorriso splendido. Ho provato una gioia immensa...». Tra i seicento della spedizione reggiano- modenese all’udienza generale in Vaticano dedicata anche al Beato Rolando Rivi, il martire di San Valentino di Castellarano, la più felice è lei. Velia Gallinari, 43 anni, diversamente abile di Albinea, il Papa lo ha proprio incontrato, toccato e abbracciato. E ci ha persino parlato. Con quella tenera innocenza da fare invidia a un bambino. «Pregherà per i miei amici e per la Croce Verde di Reggio e Albinea?», gli ha domandato Velia. Papa Francesco l’ha guardata con dolcezza: «Hai un sorriso bellissimo. Certo che pregherò. Prego per tutti e lo farò anche per i tuoi amici».

Velia è una delle seicento persone che assieme all’associazione «Amici di Rolando Rivi» e alla Croce Verde reggiana è andata a Roma dal Papa. Due giorni che rimarranno un ricordo indelebile per tutti quanti. Nel segno del martire seminarista, gli Amici di Rolando hanno accolto il Papa in Piazza San Pietro sventolando il foulard rosso con la scritta Io sono di Gesù.

Papa Francesco durante il suo giro sulla Papa-Mobile si è fermato proprio dal gruppo di pellegrini vicino alle transenne. Li ha salutati e si è fermato ad ascoltare il reggiano Emilio Bonicelli, segretario dell’associazione dedicata al Beato. «È stata un’emozione fortissima — racconta — Gli ho spiegato il motivo per cui eravamo tutti lì. Gli abbiamo regalato uno dei nostri foulard rossi e prima di donargli la reliquia di Rolando Rivi l’ha baciata. È stato un gesto stupendo che corona tutto il nostro cammino fatto finora. È come aver affidato Rolando alla chiesa universale». Un cammino però che non è finito. Ora si aspetta la santificazione di don Rivi col processo che è già partito.

«Prima che andasse via, ho detto al Papa che aspettiamo la canonizzazione. Lui si è girato, mi ha guardato e ha sorriso. Poi ha fatto un cenno come a dire: continuate così e vedrete che Rolando diventerà santo. È stata un’espressione di incitamento. Il Santo Padre ha questa grande capacità di accoglienza; trovarmi di fronte a lui è stato come essere davanti a un papà o a uno zio. Una persona familiare che sembra di conoscere da sempre. È stato un sogno».

Dopo il giro nella piazza del Vaticano gremita di 60mila persone, Papa Francesco ha parlato alla folla per l’omelia dell’udienza. Al suo fianco il vescovo di Reggio Massimo Camisasca con cui si è intrattenuto a lungo successivamente, con abbracci e sorrisi, e l’arcivescovo di Ferrara Luigi Negri (presidente dell’associazione Amici di Rolando). E anche qui la sorpresa: il Papa ha salutato i pellegrini reggiani ricordando che quell’udienza fosse in onore del Beato. «Rolando è un eroico testimone della Fede», ha detto Papa Bergoglio.

Una gioia immensa lo è stata anche per la Croce Verde di Reggio e Albinea. Ottanta volontari si sono aggregati alla spedizione voluta in occasione del centenario.

«È stata una giornata incredibile — racconta Cristiano Cucchi, organizzatore del viaggio — E il momento più emozionante, soprattutto per me, è stato quando il Papa ha benedetto il nostro vessillo che portavo in mano io. E poi, quando Velia ci ha detto che il Papa ha promesso che pregherà per noi siamo stati davvero felici».

Al pomeriggio poi, la spedizione ha concluso il pellegrinaggio con l’ultima messa nella Basilica di San Paolo fuori le Mura. A presiederla è stato il vescovo Massimo Camisasca che nonostante un blackout e quindi impianto audio spento, ha fatto l’omelia a «voce naturale», con i fedeli che hanno osservato tutti un rigoroso silenzio. Un momento di preghiera molto sentito da tutti. Infine, la partenza da Roma per il ritorno a casa. Tutti stremati, anche per l’incessante traffico incontrato sul Grande Raccordo Anulare e per un incidente stradale lungo la A1 che li ha lasciati imbottigliati per ore. Tutti stanchi, ma felici. Con la gioia nel cuore.

24 agosto, 2014

Adelaide Roncalli in Bissola

 Nel 1944, al Torchio, sottofrazione delle Ghiaie di Bonate Sopra, abitava la famiglia Roncalli composta da un figlio Luigi e da sette figlie: Caterina, Vittoria, Maria, Adelaide, Palmina, Annunziata e Romana (e Federica morta in tenera età). Papà Enrico aveva rinunciato alla vita del contadino e prestava servizio come operaio in uno stabilimento locale. La mamma Anna Gamba, casalinga, doveva crescere con pazienza certosina la numerosa prole.

Adelaide aveva allora sette anni. Era nata il 23 aprile 1937 alle ore 11 al Torchio e battezzata il 25 aprile dal parroco Don Cesare Vitale. Frequentava la classe prima elementare; era una bambina comune, piena di salute e di vivacità, le piaceva giocare.

Nulla faceva presagire fino a quel pomeriggio del 13 maggio 1944 quando le apparve la Sacra Famiglia, che il suo nome avrebbe varcato non solo i confini d'Italia, ma quelli d'Europa.

Mentre il mondo bruciava tra le fiamme dell'odio e delle armi e la guerra sembrava non finire mai, la Madonna, madre di unità e regina della pace, scelse una fanciulla di Bonate, Adelaide Roncalli, per lanciare i suoi messaggi al mondo. Le apparve per tredici giorni in due cicli: il primo dal 13 al 21 maggio, il secondo dal 28 al 31 maggio.

La Madonna le predisse:
"Soffrirai molto, ma non piangere perché dopo verrai con me in paradiso." "In questa valle di veri dolori sarai una piccola martire…" Ma Adelaide era troppo bambina per valutare subito la gravità di queste parole. Dopo le apparizioni, fu isolata, intimorita, spaventata e tormentata psicologicamente, tanto che alla fine qualcuno, il 15 settembre 1945, riuscì a strapparle uno scritto di ritrattazione che peserà come un macigno sul processo di riconoscimento delle apparizioni.

Il 12 luglio 1946, smentì la ritrattazione che le era stata dettata, riaffermando per iscritto la veridicità delle apparizioni, ma purtroppo non ebbe l'esito sperato poiché il 30 aprile 1948, il vescovo di Bergamo mons. Bernareggi emise il decreto di "non consta" proibendo ogni forma di devozione alla Madonna, venerata come apparsa a Ghiaie di Bonate.

Spostata di qua e di là, contro il suo volere e all'insaputa dei suoi genitori, contrastata, derisa e calunniata, Adelaide portò la sua croce, lontano da casa.

Al compimento del suo quindicesimo anno, ottenne dal vescovo di entrare tra le suore Sacramentine di Bergamo. Morto il vescovo, qualcuno riuscì a strappare l'ordine di farla uscire dal convento costringendola a rinunciare al disegno vocazionale che Maria aveva manifestato su di lei. Questa rinunzia le portò molta sofferenza e le costò una lunga malattia.

Qualunque adolescente sarebbe uscita distrutta da una vicenda come la sua, ma Adelaide era forte e si riprese. Stanca di aspettare che le si riaprisse la porta del convento, decise di sposarsi ed andò a vivere a Milano dove si dedicò con sacrificio alla cura degli ammalati. Passarono gli anni e Adelaide rimase chiusa nel silenzio impostole dai superiori.

Finalmente, avvalendosi dei decreti del Concilio Vaticano II in materia di diritto all'informazione, Adelaide si sentì sgravata dalle proibizioni che le erano state imposte e decise di riaffermare solennemente e ufficialmente, davanti a notaio, la veridicità delle apparizioni.

Ora, Adelaide Roncalli, la veggente di Ghiaie, non c'è più. Colpita da un male incurabile, si è spenta alle tre di domenica mattina 24 agosto 2014. Visse nell'assoluto riserbo, lontana dai riflettori, in obbedienza alla Chiesa e soprattutto senza rancori per coloro che le hanno inflitto dolori e grandi dispiaceri.

 


 

22 giugno, 2014

Festa Anniversari mons. Ubaldo, Don Costantino, Don Elio.



Festa d'Anniversario 50^ anni di Sacerdozio
Parrocchia di Sant'Alessandro in Prezzate di Mapello (Bg)
Mons. Ubaldo Nava, Don Costantino Amedeo, e Don Elio Artifoni
Domenica 22 giugno 2014, Solennità del Corpus Domini. Festa d'Anniversario di Sacerdozio
I RINGRAZIAMENTI VANNO A Renato Mazzoleni ed a tutti i suoi collaboratori per questo bellissimo video



10 giugno, 2014

Daniele Massaro, nipote del cugino del seminarista ucciso, racconta la sua storia

 

Castellarano: Daniele Massaro, nipote del cugino del seminarista ucciso, racconta la sua storia


CASTELLARANO. A Castellarano, tra i discendenti di Rolando Rivi, c’è chi è diventato catechista ed è affascinato dalla sua storia particolarmente breve ma intensa.


«Quando ero bambino – dichiara Daniele Massaro – mio nonno Alfonsino Rivi mi raccontava sempre di suo cugino Rolando, della sua passione per la religione, di quando giocavano assieme e anche del momento della sua tragica morte».


Quando hai iniziato a interessarti alla storia di Rolando?


«Fino a 16 anni, nonostante in famiglia se ne parlasse spesso, non era un argomento che mi attirava. Ma dopo ho iniziato a leggere e ad approfondire la vita di quel mio giovane parente e ho capito che vi era qualcosa di eccezionale in lui, tanto che da tre anni lo porto come esempio ai ragazzi a cui insegno catechismo».

Agli adolescenti interessa la figura di Rolando?


«Sembra strano ma l’idea di questo ragazzo che, giovanissimo, ha seguito la sua fede fino alla morte affascina e coinvolge molto i giovani. Basta pensare al fatto che quando organizziamo la camminata da Castellarano fino alla chiesa di San Valentino, dove Rolando è sepolto, sono tantissimi i ragazzi che partecipano».


Che cosa ti ha colpito di Rolando Rivi?


«Il fatto che lui dicesse sempre “Sono di Gesù”. Uno dei modi per dimostrarlo era quello di portare sempre la veste talare. Non se ne separava mai, era come una seconda pelle: mio nonno mi raccontava che la portava anche quando giocava a calcio con gli amici. Non se la tolse nemmeno quando tutti in paese gli consigliarono di toglierla perché sul finire della guerra i partigiani comunisti erano a caccia anche dei religiosi».


Dopo quasi settanta anni dalla fine delle guerra, che idea ti sei fatto sulla morte di Rolando?


«Della sua morte sono sempre state date due versioni. Una era quella che fosse una spia dei tedeschi e per questo venne preso e ucciso dai partigiani. La seconda, invece, si basa sulla politica attuata dai partigiani comunisti, ossia quella di eliminare il più alto numero di preti e di religiosi. E Rolando, visto che portava la veste talare, era sicuramente un buon obiettivo. In ogni caso si è trattato di un atto disumano ed è inconcepibile pensare, ancora oggi, che un ragazzo di poco più di 14 anni sia stato preso, torturato per tre giorni e poi giustiziato solo perché non ha mai rinnegato la sua fede in Gesù».


E a proposito delle accuse di collaborazionismo con i nazisti cosa dici?


«Su queste accuse si basava la difesa degli assassini di Rolando. Una difesa che non resse in tribunale: in ben tre processi non fu mai ritenuta valida e nemmeno accolta. Alla fine i giudici diedero delle pene particolarmente alte, oltre 25 anni di galera, ai responsabili di quell’omicidio. Ma, a rigor di logica, come poteva fare la spia un ragazzino che andava sempre vestito da prete? Sinceramente non credo abbia senso, anche perché Rolando considerava la sua vita come una missione per diffondere il Vangelo e le idee di Gesù».


Cosa vuole dire avere un beato in famiglia?


«Sono felicissimo e spero di seguire i suoi insegnamenti. Il fatto che papa Francesco abbia nominato Rolando Rivi beato è stato un risultato eccezionale. E se la sua memoria non è stata persa, un grande merito lo si deve dare ai padri della Consolata, che hanno retto negli scorsi anni la parrocchia di San Valentino e che si sono impegnati a ricordarne la memoria. Insieme agli altri familiari di Rolando, ovviamente».


Adesso che cosa manca secondo te?


«Manca solo la proclamazione a santo, ma per questo è necessario il miracolo».


(Paolo Ruini)




01 maggio, 2014

Preghiera scritta da Adelaide Roncalli

Preghiera scritta da Adelaide Roncalli 


Cara Madre nostra amatissima, vogliamo tutti ringraziarti per il tuo amorevole intervento nel 1944 in piena seconda guerra mondiale sul nostro suolo bergamasco.

Ci hai sempre seguiti con i tuoi materni insegnamenti, anche davanti alle nostre debolezze, con grande misericordia e il tuo amore non ci manca mai.
Continua o Regina delle Famiglie a stendere il tuo manto su di noi ed elargire le tue generose grazie su tutti.
Donaci sempre il tuo figlio Gesù Eucaristico nostra vita con il Pane e lo Spirito Santo.
Adelaide Roncalli



06 ottobre, 2013

Redazione – Papa Francesco dopo l’Angelus – Osservatore Romano – 6 ottobre 2013

 Redazione – Papa Francesco dopo l’Angelus – Osservatore Romano – 6 ottobre 2013

“Cari fratelli e sorelle, ieri, a Modena, è stato proclamato Beato Rolando Rivi, un seminarista di quella terra, l’Emilia, ucciso nel 1945, quando aveva 14 anni, in odio alla sua fede, colpevole solo di indossare la veste talare in quel periodo di violenza scatenata contro il clero, che alzava la voce a condannare in nome di Dio gli eccidi dell’immediato dopoguerra. Ma la fede in Gesù vince lo spirito del mondo! Rendiamo grazie a Dio per questo giovane martire, eroico testimone del Vangelo. E quanti giovani di 14 anni, oggi, hanno davanti agli occhi questo esempio: un giovane coraggioso, che sapeva dove doveva andare, conosceva l’amore di Gesù nel suo cuore e ha dato la vita per Lui. Un bell’esempio per i giovani!”



05 ottobre, 2013

Cardinale Angelo Amato – Omelia della Beatificazione – Congregazione delle Cause dei Santi – 5 ottobre 2013

 Cardinale Angelo Amato – Omelia della Beatificazione – Congregazione delle Cause dei Santi – 5 ottobre 2013

“Fratelli e sorelle è con le lacrime agli occhi che mi accingo a parlare del Beato, Rolando Rivi, morto martire per la fede.[2] La commozione sgorga dal mio cuore di vescovo, che piange la morte di questo ragazzo, forte come una quercia per onorare e difendere la sua identità di seminarista. Al lampo di odio dei suoi carnefici egli rispose con la mitezza dei martiri, che inermi offrono la vita perdonando e pregando per i loro persecutori.
Il martirio di Rolando Rivi è una lezione di esistenza evangelica. Era troppo piccolo per avere nemici. Erano gli altri, che lo consideravano un nemico. Per lui tutti erano fratelli e sorelle. Egli non seguiva una ideologia di sangue e di morte, ma professava il Vangelo della vita e della carità.
Obbediva con semplicità e gioia alle parole del Signore Gesù, che un giorno rivelò ai suoi discepoli l’atteggiamento giusto per affrontare i nemici: «A voi che ascoltate, io dico: amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano, benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi trattano male. A chi ti percuote sulla guancia, offri anche l’altra, a chi ti strappa il mantello, non rifiutare neanche la tunica […]. Amate i vostri nemici» (Lc 6,27-29.35).
Ecco cosa aveva Rolando nel suo cuore di bambino, un amore per tutti: amare non solo i genitori e i fratelli, ma anche i nemici, fare del bene a a chi lo odiava e benedire chi lo malediceva. Era questa – e lo è ancora – una dottrina rivoluzionaria, certo, ma nel senso buono, perché porta ad atteggiamenti di fraternità, di tolleranza e di rispetto della libertà altrui, senza soprusi, senza imposizioni forzate e senza spargimento di sangue.
Cari fratelli, davanti a questa immagine luminosa di bambino, strappato con violenza alla vita e all’amore, noi cristiani non siamo pieni di rancore in cerca di rivincite. No, vogliamo ricordare e celebrare la vicenda martiriale del piccolo Rolando Rivi con un atteggiamento di perdono, di riconciliazione, di fraternità umana. Vogliamo gridare forte: mai più odio fratricida, perché il vero cristiano non odia nessuno, non combatte nessuno, non fa male a nessuno. L’unica legge del cristiano è l’amore di Dio e l’amore del prossimo.
Le ideologie umane crollano, ma il Vangelo dell’amore non tramonta mai perché è una buona notizia. E oggi il nostro piccolo Beato è una buona notizia per tutti. Di fronte alla sua bontà e alla sua gioia di vivere, siamo qui riuniti per piangere sì il suo sacrificio, ma soprattutto per celebrare la vittoria della vita sulla morte, del bene sul male, della carità sull’odio. La sua memoria è di benedizione, mentre la memoria dei suoi carnefici si è persa nelle nebbie del nulla o forse – lo speriamo – nelle lacrime del pentimento.

Il piccolo Rolando, come tutti i bambini, aveva un sogno: diventare sacerdote. A undici anni, entrò in seminario e, come si usava allora, vestì la veste talare, che da quel giorno diventò la sua divisa. La portava con orgoglio. Era il segno visibile del suo amore sconfinato a Gesù e della sua totale appartenenza alla Chiesa. Non si vergognava della sua piccola talare. Ne era fiero. La portava in seminario, in campagna, in casa. Era il suo tesoro da custodire gelosamente. Era il distintivo della sua scelta di vita, che tutti potevano vedere e capire.
Come tutti i bambini della sua età, Rolando era sereno, vivace, buono. Giocava a pallone con passione, imparò a servire messa, a suonare l’organo, a cantare. Davanti al tabernacolo ripeteva continuamente: «Gesù, voglio

farmi prete». Era entusiasta della sua vocazione. Del resto, il sacerdozio è una chiamata a fare del bene a tutti, senza distinzione. Quale pericolo poteva nascondere il suo ideale sacerdotale? Non c’è da meravigliarsi della
fermezza della decisione del piccolo Rolando. Gli studiosi di psicologia infantile concordano sul fatto, che anche i bambini possono fare scelte decisive per la loro vita e mantenerle con fedeltà e coraggio. Nei piccoli è più che mai vivo un proprio progetto di vita in campo artistico, scientifico, professionale, sportivo e anche religioso. Alcuni fanciulli sviluppano fino al virtuosismo i loro talenti di natura e di grazia. Sono molti i bambini prodigio, che primeggiano nell’arte, nella scienza, nell’altruismo. Così, non sono pochi i santi bambini e adolescenti, come sant’Agnese, san Tarcisio, santa Maria Goretti, san Domenico Savio.
A chi gli chiedeva, che – data la situazione di guerra – era pericoloso indossare la veste talare, Rolando rispondeva con fierezza: «Non posso, non devo togliermi la veste. Io non ho paura, io sono orgoglioso di portarla. Non posso nascondermi. Io sono del Signore».
Ma un brutto giorno arrivarono le iene, piene di odio e in cerca di prede da straziare e divorare. E lo spogliarono della sua veste, come fecero i carnefici con Gesù, prima di crocifiggerlo. Non erano stranieri, parlavano la stessa lingua e abitavano nella stessa terra di Rolando. Non erano piccoli delinquenti, ma giovani maturi. Avevano, però, dimenticato i comandamenti del Signore: non nominare il nome di Dio invano, non ammazzare, non dire falsa testimonianza. Anzi, erano stati imbottiti di odio e indottrinati a combattere il
cristianesimo, a umiliare i preti, a uccidere i parroci, a distruggere la morale cattolica. Ma niente di tutto questo era eroico e patriottico. E le iene non si fermarono nemmeno di fronte a un adolescente, annientando la sua vita e i suoi sogni, ma soprattutto macchiando la loro umanità e il loro cosiddetto patriottismo.
Erano veramente tempi duri allora per l’Europa. In quel periodo il nostro continente era avvolto nella nube nera della morte, della guerra e della persecuzione religiosa. Dopo quella spagnola degli anni ’30, arrivò la persecuzione nazista e quella comunista. Il loro lascito di morte furono i milioni di vittime nei gulag, nei lager e nelle mille prigioni delle nostre belle nazioni.
Anche nelle zone comprese nelle diocesi di Modena e Reggio Emilia si era diffuso un profondo spirito di intolleranza verso la religione, la Chiesa, i sacerdoti, i fedeli. Alcuni avevano dimenticato la loro infanzia buona ed erano diventati fanatici, profondamente invasi dall’odio di classe. Abbiamo sentito che, dopo la chiusura del seminario, Rolando era tornato al paese. Un giorno -10 aprile 1945 -dopo aver suonato e cantato alla santa Messa, prese i libri come al solito e si recò a studiare nel boschetto vicino. Fu catturato e rinchiuso in una stalla. Il ragazzo fu spogliato, insultato e seviziato con percosse e cinghiate per ottenere l’ammissione di una improbabile attività spionistica. Ma Rolando – fu accertato al processo penale di qualche anno dopo – non poteva confessare niente, perché le accuse erano totalmente false. Dopo tre giorni di sequestro, con una procedura arbitraria e a insaputa dei capi, il 13 aprile 1945, il ragazzo fu prima barbaramente mutilato e poi assassinato con due colpi di pistola, uno alla tempia sinistra e l’altro al cuore.
In quel momento il sangue del piccolo martire non si sparse per terra, ma fu raccolto da Dio nel calice santo del sacrificio eucaristico. Non c’era nessuna mamma a piangere la morte del suo bambino. Secondo i testimoni oculari di quello scempio, i carnefici gettarono il corpo nella fossa e fecero della veste un macabro bottino di guerra. La talare fu appesa sotto il porticato di una casa vicina. Il carnefice, al padre angosciato in cerca del suo figliolo, disse semplicemente: «L’ho ucciso io, ma sono perfettamente tranquillo».
Quel 13 aprile, cari fedeli, era venerdì e l’uccisione era avvenuta di pomeriggio. Il richiamo al venerdì santo e alla morte di Gesù è evidente. Un bambino consacrato a Dio in mano a uomini senza Dio.
Quando il ragazzo vide la buca chiese di poter pregare. Si inginocchiò e in quell’istante lo fulminarono. Coprirono il corpo con un po’ di terra e poche foglie.
Le iene aveva sbranato un agnello inerme. Se mai c’era valore nei combattenti, era stato per sempre disonorato da un’azione vile. Avevano umiliato e spento la vita di un loro figlio innocente, che, crescendo, li avrebbe solo benedetti, dando serenità e significato alle loro vite. La mancanza di umana comprensione fa risaltare di più la nobiltà e la fortezza del piccolo seminarista, che, anche nella sofferenza e nella umiliazione, mai aveva rinunciato a proclamarsi amico di Gesù.
Il 15 aprile, domenica del Buon Pastore, ci furono i funerali. Il suo corpo martoriato fu portato in chiesa. C’erano solo poche donne vestite a lutto. Non ci furono canti e suoni. Ma non mancarono certo gli alleluja degli Angeli, che cantando accompagnarono il giovane martire in Paradiso. Cari fratelli, cosa impariamo da questa lezione di vita e di sacrificio del nostro giovane seminarista, Martire della fede?
Il perdono è un gesto che ci avvicina di più a Dio, padre buono e misericordioso. Anche il primo martire cristiano, il giovane Stefano, quando veniva lapidato, pregava Gesù dicendo: «Signore Gesù, accogli il mio spirito […]. Signore,

non imputare loro questo peccato» (At 7,55-60). È lo stesso atteggiamento del nostro piccolo ma grande Beato, che alla ferocia dei suoi aguzzini rispose con la dolcezza della preghiera e del perdono.
Il perdono è la medicina che sana ogni ferita, cancella l’odio, converte i cuori, incoraggia la fraternità. Abbiamo bisogno di perdono, come l’aria che respiriamo. In famiglia, nella società, sul lavoro, nei rapporti umani abbiamo bisogno di essere continuamente perdonati e di perdonare. Così si dimentica il male e si fa il bene. Dobbiamo uscire da questa beatificazione con il cuore e la mente pieni di perdono e sgombri di ogni ombra di contrasto. Nei pochi giorni della nostra vita mortale, il nostro piccolo Beato ci invita a vivere da fratelli e da amici, condividendo solo il bene e mai il male.
La seconda parola che Rolando ci consegna è la fortezza, una virtù fondamentale per la nostra esistenza cristiana. Nel brano della lettera ai Romani, che oggi abbiamo ascoltato, san Paolo ci esorta a essere forti e fermi nella fede, dicendo: «Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada?» (Rm 8,35).
Niente separò Rolando dall’amore di Cristo. Non fu vinto né dalle percosse, né dalla fame, né dalla nudità, né dalle pallottole. Fu trattato come pecora al macello, ma in ciò fu più che vincitore nella grazia e nell’amore del Signore
Gesù. Perché Rolando nel suo cuore ripeteva le parole dell’Apostolo: «Io sono persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore» (Rm 8,38-39).
In questo anno della fede, accresciamo la nostra fortezza per andare controcorrente nei confronti di tutto ciò che viola e umilia la nostra condizione di uomini e di battezzati, rimanendo fedeli a Gesù, alla Chiesa, al magistero del Santo Padre. Il Vangelo sia per noi una roccia di rifugio, un luogo fortificato che ci salva. Il Signore Gesù sia sempre la nostra rupe e la nostra fortezza. La sua grazia ci guidi e ci conduca sulla via della salvezza.
Il nostro martire ci consegna una terza parola: servizio. Gesù, nel vangelo odierno, ci ricorda che il chicco di grano se non muore non produce frutto, ma se muore produce molto frutto. E aggiunge: «Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna. Se uno mi vuole servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore. Se uno serve me, il Padre lo onorerà» (Gv 12,24-26).
Il servizio di Rolando a Gesù e alla sua Chiesa fu l’offerta della giovane vita, come seme fecondo di cristiani autentici e forti. Il suo martirio fu anche un gesto eroico di lealtà umana. Mai tradì la propria identità di figlio di Dio e di seminarista, chiamato a testimoniare nel sacerdozio le parole divine di Gesù.
Oggi, la sua veste talare, macchiata di sangue innocente, è la sua bandiera di gloria. Egli si rivolge ai seminaristi d’Italia e del mondo, esortandoli a rimanere fedeli a Gesù, a essere fieri della loro vocazione sacerdotale e a testimoniarla senza rispetto umano, con gioia, serenità e carità.
d) Perdono, fortezza e servizio faranno progredire la nostra umanità verso il porto della pace, della comprensione reciproca, del bene comune. Papa Francesco ci ripete continuamente di convertirci alla pace. La Chiesa ha sempre una porta aperta per accogliere i suoi figli peccatori. Non importa quanto siano spregevoli i nostri peccati, la misericordia del Signore Gesù è più grande della nostra miseria. Liberiamoci del peso delle nostre cattive azioni ed entriamo in chiesa, la nostra vera casa, dove troviamo accoglienza, conforto e guarigione da tutte le nostre ferite spirituali.
Ora non è tempo di pianto ma di gioia, non è tempo di divisione ma di comunione, non è tempo di inimicizia ma di fraternità. Pace, pace ci grida il nostro piccolo martire. Pace a tutti e con tutti. Riconciliamoci  e perdoniamoci. Diventiamo uomini di pace. Amiamo la pace, costruiamo la pace, viviamo nella pace. Le nostre città e le nostre famiglie siano oasi di pace. Se ci convertiamo alla pace, se diventiamo costruttori di pace, non avremo più nemici da combattere e da annientare, ma solo amici da amare e da perdonare. E noi saremo benedetti dagli uomini e dal Signore. In tal modo il martirio del nostro Rolando non sarà stato invano. Amen.”

Cardinale Angelo Amato – Omelia della Beatificazione – Congregazione delle Cause dei Santi – 5 ottobre 2013