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07 ottobre, 1987

LA SPIRITUALITÀ DELLA BEATA PIERINA MOROSINI

Per «spiritualità» intendiamo gli elementi più significativi del vissuto cristiano della beata Pierina Morosini, ossia le strutture fondamentali del suo modo di personalizzare la fede.

E’ sempre difficile delineare con precisione le ricchezze create dallo Spirito Santo nella storia di un santo e una cospicua parte di esse rimane nascosta nel segreto dell’amore del Padre. Ancora più problematica la presentazione della spiritualità della beata Morosini perché siamo privi degli scritti che normalmente sono il mezzo privilegiato per conoscere la storia intima di una persona. In essi, specialmente in quelli autobiografici, si riversano l’esperienza interiore, il modo di percepire e di coadiuvare l’azione divina, le tappe del cammino secondo lo Spirito, il progressivo maturare nella visione di fede. Di Pierina possediamo pochissimi scritti. E’ necessario perciò affidarsi alle testimonianze di coloro che l’hanno frequentata. Strumento prezioso specie se in esse si delineano alcune costanti; strumento povero perché non sempre i nostri occhi sanno scorgere il vero volto delle persone. Sovente si limitano alla cronaca spicciola senza cogliere la linfa profonda che unifica i dettagli in un disegno armonioso e la cronaca in storia di salvezza.
Questo capita specialmente con le persone che vivono la vita comune e, preoccupate di passare inosservate, non si mettono in mostra con gesti clamorosi. Pierina, ha consumato la sua vita tra la casa, lo stabilimento, la parrocchia, vivendo la piccola storia dei nostri paesi e delle nostre famiglie con semplicità, cercando di apparire il meno possibile. La mamma afferma: «Solo la morte di Pierina, in un certo senso, mi aprì gli occhi su quanto il Signore aveva compiuto in mia figlia». E un’amica dice: «Era molto buona, ma di quella bontà che non pesa. Cioè noi ci siamo accorti della sua vita straordinaria (tutta straordinaria) quando è diventata Martire reale. Tutti spontaneamente le abbiamo riconosciuto dopo le virtù da lei esercitate: questo non per falsificare la sua personalità o per dire di lei più di quello che meritava: ma perché realmente ci siamo accorti tutti solo allora della sua santità esercitata nella più completa umiltà… sapeva veramente essere buona (lo notiamo solo ora pensandoci su) senza imporsi a nessuno».
Queste premesse vogliono sottolineare l’opinabilità e l’approssimatività di quanto dirò. Si deve riflettere a lungo sulla sua esperienza collocandola nel clima religioso e sociale delle nostre parrocchie degli anni ’50. Solamente così si potrà comprendere il messaggio della sua morte vista come conclusione logica della sua vita; sarà possibile afferrare la parola della sua vita fatta risuonare e spiegata dalla sua morte.

Una persona «raccolta» nel Signore

Unanimemente le testimonianze presentano Pierina come una persona semplice. Era la semplicità di chi, avendo polarizzato l’intera persona nel Signore, con estrema naturalezza viveva davanti a Lui tutti i momenti della giornata. L’esistenza era profondamente unificata e semplificata dal suo rapporto con il Signore. Scorrendo ciò che si dice di lei si ha la precisa sensazione di una persona continuamente immersa in Dio: per lei il Signore era una presenza viva, conosciuta e amata, una presenza che non lasciava spazi vuoti. In Lui ritrovava il significato e la consistenza del proprio vivere e del proprio agire, la radice della serenità che sempre l’ha accompagnata.
L’orientamento abituale verso Dio e l’attenzione amorosa alla Sua presenza sono dimostrati dall’intenso ritmo del suo pregare: in chiesa, in casa, nel viaggio tra la casa e lo stabilimen¬to, durante le pause del lavoro. Si è tentati di dire che non poteva non esplicitare con assiduità la relazione filiale con Dio, da lei intensamente sentita. Ad un’amica confessava: «A me piace tanto pregare: non smetterei mai».
La comunione quotidiana (alla quale si accostava anche a prezzo di sacrifici) era il momento privilegiato per stare con Colui che era il centro del suo cuore; il momento che la certificava che il Signore era sempre con lei: «Senza la Santa comunione la giornata mi sembra vuota», così diceva alla stessa amica. Rapporto d’amore non di paura come sovente era proposto nella predicazione di allora. Nel regolamento di vita (abbastanza comune) si legge: «Al suono di ogni ora penserò a Gesù e a Maria, con una giaculatoria o uno sguardo d’amore». Il suo direttore spirituale testimonia: «Sentiva e vedeva Dio come il bimbo: ispiratore e guida di ogni sua azione. La sua azione era impregnata di Dio. Le riusciva quasi duro «materializzare» questa presenza di Dio con le giaculatorie che per il suo spirito erano quasi una interruzione del sereno svolgersi di questa dolce presenza».
Pur non potendo dire molto sul contenuto del suo pregare, le testimonianze citate, unitamente a molte altre, dicono che nel suo itinerario di preghiera si era pienamente realizzata una delle costanti dell’orazione cristiana, la legge di semplificazione.
Era entrata (non possiamo precisare il momento) in uno stato nel quale pregare è più un amore che un pensare, un cogliersi attenti e abbandonati in Dio più che molteplicità di atti.
Il voto di verginità era la proclamazione della gioia di appartenere totalmente a Dio, la traduzione visibile del muoversi del suo essere verso il Signore, del raccogliersi dell’intera sua persona nell’amore di Dio. Benché rinnovato ogni anno a Pentecoste coll’Immacolata, per lei era una scelta di vita definitiva. Per esprimere il senso di questa scelta ha trascritto la frase di S. Teresa «La Verginità è il silenzio profondo di tutte le cose». Lo Spirito Santo le aveva fatto intuire l’indicibile bellezza di Dio, l’inimmaginabile profondità dell’Amore Divino; tutto il resto impallidiva e si relativizzava. La dove l’uomo è domanda e attesa radicale era per lei risuonata, con attrattiva irresistibile, la Parola che colma ogni attesa e risponde ad ogni domanda. Le altre realtà non parlavano più, non avevano più la possibilità di far presa sul suo cuore già inondato della Parola. Era il silenzio che scaturiva dalla meraviglia di fronte al Mistero d’amore presente nella vita: se percepito, come lei lo ha esperimentato, lascia senza parola perché indicibile e perché mostra la vacuità di tanto parlare. Era il silenzio ripieno dell’ascolto di Dio; era il far tacere tutto ciò che poteva ostacolare l’ascolto di Dio ovunque parlasse.
Questo modo di vivere il rapporto con Dio spiega anche l’accettazione tranquilla della povertà della famiglia e dell’ambiente; l’impegno (trasformato in voto) di usare con parsimonia il denaro, di ridurre al minimo i propri bisogni; il suo vestire dimesso e lo sforzo per non farsi notare. Proclamava, a suo modo, che il Signore è la ricchezza definitiva, che il suo tesoro era in Lui, che tutto il resto propriamente non è tesoro per l’uomo e quindi non merita l’affanno della ricerca o la disperazione nell’assenza. Diceva con semplicità, però con la forza della vita vissuta, che il senso della vita umana non sta nei granai pieni o nei vestiti suntuosi, ma nell’accogliere il Regno già dato, nella gioiosa scoperta che comunque in Cristo Dio è Padre di ciascuno di noi, Padre che si rivela come Misericordia e generosità sconfinata. Proclamava che la grandezza dell’uomo deve essere misurata su questa iniziativa divina e non sulle cose possedute.
Da qui anche la sua vigilante attesa, la tensione verso il Paradiso, verso l’incontro con il Signore. Tra le giaculatorie da lei ricopiate (quindi presumibilmente preferite) si trova la seguente: «O Gesù, nascosto sotto le specie sacramentali, quando verrò mai a vedervi faccia a faccia?». Diversi testimoni riferiscono di averla udita più volte esprimere il desiderio di condividere la sorte di Maria Goretti, perché le avrebbe permesso d’incontrare Colui che invadeva la sua esistenza e irresistibilmente l’attraeva a sé. Lo Spirito che muove la Chiesa a desiderare e invocare ardentemente il ritorno del suo Signore, «Vieni Signore Gesù», ha creato in Pierina un’espressione particolarmente significativa, per ordinarietà e intensità, di questa vigilante attesa. Nel suo pregare, nella sua verginità, nella povertà intesa nell’accezione più vasta, risplendeva con particolare forza la speranza cristiana. Traspariva la certezza che il compimento dell’uomo lo si deve attendere da Dio secondo Cristo e non secondo i progetti umani; perciò è necessario essere attesa vigilante dell’Unico necessario e non addormentarsi su altro o vagare annoiati. Risuonava l’invito a essere disposta a tutto pur di non perdere Colui la cui «grazia vale più della vita», Colui che in Cristo si è rilevato sempre fedele all’uomo e capace di riempire, a modo suo, anche il vuoto radicale dell’uomo.

Abbandonata alla volontà di Dio

Questo modo di vivere e sentire il rapporto con il Signore la conduceva a interpretare l’esistenza secondo la tradizionale affermazione: «Fare la volontà del Signore».
L’espressione diceva e l’abbandono fiducioso alla provvi¬denza Divina e l’impegno a vivere ogni momento in conformità al progetto divino così come si rivelava nelle varie vicende.
Abbandono fiducioso in Dio. Di S. Teresina aveva ricopiato il seguente pensiero: «La mia vocazione: mi lascerò condurre come una bambina di un giorno solo». Sempre riferendosi alla santa di Lisieux così confidava ad una suora: «Che bello se fossi come una pallina, che non può più parlare, nelle mani del Signore, e stare dove lui mi butta». L’esperienza di Dio, ricordata sopra, le dava la certezza della Sua continua presenza amorosa ed efficace nel salvare tutti i momenti della vita umana, anche quelli segnati dal mistero del dolore. Presenza impegnata nell’aiutare l’uomo a crescere nell’apertura filiale verso di Lui, cioè nel si al dono Suo, nella santità. Presenza sempre de¬siderosa di offrire la Sua forza all’uomo, in particolare quando la sofferenza rischia di rinchiuderlo nella disperazione. Ad un’anima che le aveva partecipato le sue sofferenze scriveva: «Non è forse Gesù che prepara ai suoi discepoli la Croce? Le anime a cui vuole più bene le fa soffrire con momenti di angosce, di lotte, di consumazione, non altro che per amor suo. In quei momenti sembrerebbe che Gesù fosse lontano; invece sono i momenti che è più vicino». Frasi abituali nel discorso religioso; se lette alla luce della sua vita quotidiana assumono la densità di un’esperienza vera, seria e viva. Non ha mai smarrito la pace, neppure nei momenti difficili; con serenità ha accettato la rinuncia alla vita religiosa imposta dalle ristrettezze familiari. Non si sentiva «frustrata» per tale rinuncia perché la realizzazione di sé la riponeva nell’accogliere il progetto del Signore e non nell’attuazione caparbia dei propri disegni. Lui il Signore, comunque l’avrebbe aiutata a «diventare santa» anche nel mondo: questo era il realizzarsi che sognava.
«Fare la volontà del Signore» significava risponderGli attivamente e concretamente vivendo ogni momento secondo la «sapienza dello Spirito» rivelato nella storia di G. Cristo. «L’unico nostro pensiero sarà di essere sempre uniti a Gesù… S. Teresina gioiva in mezzo alle tribolazioni, il soffrire per lei era divenuto cosa abituale, minuto per minuto consumarsi», così nella lettera appena citata. «Minuto per minuto consumarsi»: forse queste semplici parole ci rivelano il segreto della sua vita. Considerare ogni momento della propria giornata e ogni situazione come l’appello concreto rivolto alla propria libertà dal Signore. E quindi rispondervi con amore, vivendo tutto in comunione con Lui, secondo la Sua «sapienza» e non secondo quella del «mondo»; in ogni azione accogliere la capacità d’amore donata dallo Spirito, la capacità d’assimilarsi sempre più a Colui che è l’Amore.
Pregava volentieri, con gioia serena affrontava il lavoro dello stabilimento, il servizio ai familiari, le prestazioni richieste dalla vita parrocchiale. E tutto con disinteresse, con l’indifferenza ignaziana: volere ciò che il Signore vuole, non badare ai propri interessi ma unicamente all’appello del Signore così come si configurava concretamente. Totale e filiale ubbidienza a Lui accettando la Sua Provvidenza sulla vita: era la cosa più importante perché solo così la sua esistenza poteva realizzarsi.
Ogni cammino di preghiera deve trovare una verifica nella vita, dimostrare la sua autenticità in una esistenza che cerca di unificarsi nella carità, di essere sempre più trasparente alla volontà di Dio. L’adesione costante e gioiosa di Pierina alla volontà di Dio, la comunione filiale con Lui vissuta in ogni attività sono la dimostrazione della genuinità del suo pregare, dell’autenticità del suo dialogo con il Signore. In lei non esisteva il falso dilemma (abbastanza diffuso nella religiosità del tempo): pregare o agire? Tutto era unificato dal consumarsi nell’amore, dall’abbandono fiducioso allo Spirito che rendeva la sua esistenza sempre più filiale.
Il motto-programma «Fare la volontà del Signore» spiega l’impegno a non mettersi in mostra, la sua umiltà, il suo lavorare instancabilmente in silenzio, l’accettazione tranquilla delle mortificazioni imposte dalla vita, la ricerca, non esagerata ma continua, di quelle volontarie. Questo clima di silenzio attorno alla propria persona era frutto del suo vivere nel segre¬to del Padre. Era esercizio di purificazione del proprio io da ogni tendenza esibizionistica e autocentrata per realizzarlo totalmente nell’abbandono in Dio, per «consumarsi» e identificarsi sempre più con Cristo obbediente al Padre, fino all’identificazione suprema nella morte. Il raccoglimento le serviva anche per «ricercare» e «raccogliere» nell’esistenza concreta le possibilità e gli inviti del Signore a camminare secondo la logica del Vangelo.
Il voto di obbedienza (come disponibilità a seguire le direttive del confessore e del direttore spirituale) le garantiva autenticità nella comprensione della volontà di Dio e l’aiutava a liberarsi da ogni mira personale per essere sempre pronta nell’offerta incondizionata al Signore.
A servizio dei fratelli

Il consumarsi per il Signore, la presenza continua e amorosa a Lui, l’aver unificato la sua persona nel conoscerlo, nell’amarLo e nel servirlo, trovavano nella carità verso il prossimo la concretizzazione privilegiata e il segno della loro verità.
Le testimonianze coralmente celebrano questa componente della spiritualità della beata Morosini evidenziandone molteplici aspetti; ricordiamo soltanto quelli da lei vissuti con particolare intensità.
Attenzione sollecita e concreta agli altri. Il suo animo verginale, appunto perché genuinamente tale, cioè affascinato dall’amore di Dio, non si sperdeva nel vago universalismo ma si rivolgeva alle persone concrete che entravano nella sua vita. Non le guardava per criticarle, anzi era sempre pronta alla comprensione e abilmente deviava i discorsi poco benevoli verso il prossimo. Le guardava con disponibile attenzione per scorgere le reali necessità, accoglierle nel suo cuore e, se possibile, soccorrerle prevenendo le stesse richieste. Erano i vari e molteplici bisogni dei familiari, lo sfogo di un’amica, il desiderio di compagnia degli ammalati, la miseria di chi era più povero di lei. Immersa in Dio, impegnata a comunicare con la Sua volontà (a volere con Lui), con e come Lui era rivolta agli altri per servirli secondo lo spirito della lavanda dei piedi. Nel silenzio di se stessa e immersa nella Parola, sapeva ascoltare le vere parole degli altri e unirsi alla loro realtà più profonda.
Un servizio svolto con naturalezza, come fosse dovuto, e con gioia. Era suo «dovere» dare e un diritto degli altri ricevere; dovere proprio di chi si lascia guidare dallo Spirito che è amore. Aveva pienamente compreso l’invito di S. Paolo «Non ab¬biate alcun debito con nessuno, se non quello di un amore vicendevole» (Rom. 14,8). Essere serva era l’imperativo del suo cuore trasformato dallo spirito di Colui che ha consumato la vita nel servizio dei fratelli. Un imperativo perciò amato e non sopportato come un fardello noioso.
Oggetto unico dei suoi desideri era la volontà di Dio colta soprattutto nel bisogno degli altri; aspirazione unica del suo cuore diventava il consumarsi nel Signore e come Lui diventare amore gratuito. Libera dai bisogni e dai progetti personali, suo progetto e suo bisogno erano le necessità degli altri. In que¬sto contesto il servizio, anche quando richiedeva sacrificio e pazienza, le offriva la possibilità di realizzare le attese del suo amore. Per questo nel suo volto e nel suo comportamento brillava la gioia tranquilla di chi vede esauriti i propri desideri, di chi sa che nel servizio Dio prende sempre più possesso della propria vita.
Il temperamento, l’ascesi, soprattutto la grazia del Signore avevano progressivamente trasformato il suo desiderio, e perciò anche la fonte della gioia. L’umiltà nell’uso delle cose e la mortificazione sono da considerarsi condizioni, alimento ed espressioni di questo suo configurarsi a Cristo servo.
Una carità gratuita, silenziosa e rispettosa. «Dimenticati, non ti difendere, silenzio come me», è una frase trascritta da Pierina.
Lo Spirito Santo, innamorandola di Cristo Crocifisso che nel silenzio indifeso della Croce si offre all’uomo, l’ha plasmata come memoria particolarmente significativa di quest’amore silenzioso e disarmato perché pura gratuità e disponibilità. Non rivendicava particolari diritti per quello che operava, non ricercava servizi brillanti, semplicemente esplicava quelli richiesti dalle circostanze anche se non considerati o non osservati:
«…in parrocchia era sempre disponibile per qualsiasi forma di attività di cui fosse richiesta».
Rispettosamente: «Mi sforzerò di sorridere sempre a tutti e di cedere con amabilità al giudizio degli altri, specialmente dei miei genitori e superiori», così un suo proposito. Delicata e rispettosa con tutti anche con coloro che non condividevano le sue scelte o la schernivano. Non ha mai preteso d’imporre agli altri il suo stile di vita o le modalità della sua esperien¬za di fede. Coraggiosa nel proseguire il cammino indicatole dallo Spirito Santo, con delicata fermezza resisteva alle critiche, alla incomprensione e alle sollecitazioni di chi giudicava esagerato il suo modo di interpretare il Vangelo. Contemporaneamente accoglieva con stima le altre modalità della sequela.
Una carità apostolica. Amando con e come il Signore sentiva fortemente l’impegno di offrire il proprio contributo per la salvezza dei fratelli. Questo sentire si esprimeva nella partecipazione attiva all’A.C., nel suo interessamento per le missioni e per il Seminario, nel collaborare alle diverse attività parroc¬chiali, nel desiderio di partire per le Missioni.
Si traduceva nel pregare: «…una delle costanti della sua preghiera era la conversione dei peccatori». Lo stile del suo apostolato è descritto eloquentemente dal direttore spirituale: «Non era una ragazza che si imponeva o che faceva apostolato per «professione». Era il complesso della sua personalità che negli altri poteva avere delle risonanze». Si è manifestato nella serena, anche se sofferta, accettazione di essere sostituita nell’incarico di delegata delle Piccolissime perché il parroco la considerava troppo antiquata. Anche qui dominava la categoria del «servo inutile»; offrirsi senza riserva a un piano di salvezza che ci supera e nel quale il nostro contributo è utilizzato da una sapienza misteriosa. Servizio costante. La sua esistenza, vivificata dal rapporto permanente con il Signore, e dall’impegno di assecondarne la volontà, appare unificata anche dall’impegno di donarsi agli altri in ogni circostanza, dalle più semplici alle più impegnative. Il consumarsi per il Signore si traduceva nel consumarsi per gli altri. Non c’erano spazi vuoti nel rapporto con il Signore, non si davano interruzioni nel suo essere presente al prossimo. Il raccoglimento (il silenzio) non la distaccava dalla realtà, anzi, unendola al Signore, la rendeva aperta e disponibile alla vera realtà degli appelli delle persone incontrate.

Martire

Nel martirio, con la grazia del Signore, ha portato a compimento questo suo modo di vivere la dedizione incondizionata della fede; sono usciti dal silenzio gli orientamenti che avevano informato l’intera sua esistenza.
Il martirio è il consegnarsi definitivo a Dio nella speranza e nell’amore. E’ affidare ciò che si è di attesa di vita e di desiderio di pienezza all’amore fedele del Padre, nella certezza che Lui realizzerà ciò che ha promesso; è affidarsi quando i1 desiderio e l’attesa sono smentiti dalla morte. Pierina, con l’aiuto dello Spirito frutto dell’obbedienza pasquale di Cristo, ha potuto vivere con pienezza il «Nelle Tue mani affido ciò che sono di attesa e di desiderio» perché in ogni momento si era consegnata al Signore. Sempre si era offerta a Dio con totale fiducia operando il discernimento nell’orizzonte della fede; la sorreggeva la certezza che Lui avrebbe realizzato il suo progetto di renderla figlia come Gesù.
Si era fidata di Lui nell’interpretare la sua vita, nell’interpretarla come servizio, nel perderla per gli altri; si è fidata di Lui quando si è trattato di perderla nel modo più radicale. Non ha perso la vita per la difesa dell’onore sociologicamente inteso, ma, come aveva più volte detto, per non peccare, cioè per non rompere il legame di fiducia con il Signore. Per affermare che la persona umana non può essere cosificata dalla concupiscenza altrui, perché è una libertà che ha come Tu definitivo Colui che è amore infinito, libertà assoluta e piena accoglienza.
Il martire proclama che il Bene ultimo dell’uomo è Dio; e appunto perché ultimo per Lui si è disposti a rinunciare ad ogni altro bene, vita compresa. In Pierina l’atto di speranza fi¬nale è stato preparato, pur rimanendo sempre una grazia, dall’attesa vigilante già ricordata, dalla tensione verso Dio che l’aveva guidata nella rinuncia a tanti beni per Colui che è il Bene. Nella Chiesa primitiva si scorgeva un legame intimo tra verginità e martirio, perché ambedue testimoniano esplicitamente la speranza cristiana: la fecondità dell’esistenza umana può essere attesa solo come dono di Dio, perché è Dio stesso.
La verginità, il silenzio della sua persona, la povertà di sé per dare agli altri, erano il frutto e le condizioni di questa vigilante attesa che ha trovato l’inveramento definitivo nella morte.
Il consegnarsi sperante del martirio non può sussistere se non è sostenuto da un amore intenso per Dio amato sopra ogni cosa, ubbidito per amore fino allo spogliamento di se stessi.
«Il fare la volontà del Signore», nel senso ricordato, ha rappresentato il cammino quotidiano nel quale lo Spirito ha progressivamente ampliato la capacità di amare di Pierina fino al dono supremo, rivelatore dell’intensità della carità verso Dio vissuta con costanza nel quotidiano.
Anche per questo aspetto il martirio e la verginità erano considerate strettamente collegati: doni di grazia concessi all’uomo per esprimere con particolare evidenza la natura totalitaria dell’amore a Dio che nasce dalla fede cristiana. Per proclamare la possibilità donata all’uomo di rispondere con un sì totale al donarsi radicale del Padre nella morte di Cristo.

Credente «insolita»

Pierina ha mostrato cosa comporti vivere la fede cristiana seriamente, cioè affidarsi incondizionatamente allo Spirito di Cristo nel discernimento e nelle scelte quotidiane. Ha dimostrato che ciò è possibile anche nelle condizioni comuni intessute di fatiche, doveri da compiere, preoccupazioni, imprevisti, gioie semplici, rapporti logoranti e richieste continue. Forse per questa «serietà nella fede» è, pur nella sua semplicità, «insolita»: «Nella misura in cui un cristiano professa la sua fede e tenta di viverla, egli diviene insolito per i credenti e per i non credenti… l’insolito del cristiano è unicamente e semplicemente la sua somiglianza con Gesù Cristo. La somiglianza con Gesù Cristo inserita in un uomo col Battesimo e che attraversando il suo cuore gli arriva come a fior di pelle… Questo «insolito» non è conferito al cristiano dell’essere un uomo notevole e notato. E’ il rifiuto e l’accusa nella propria vita di tutto ciò che può incrinare la propria somiglianza con Gesù Cristo. (M. Delbrèl).
Per Pierina questo «insolito» è determinato in particolare dalla somiglianza con Cristo negli elementi fondamentali del suo profilo spirituale. Si deve sottolineare quest’«insolito» cioè questa conformità al Figlio che si affida al Padre e perciò ai fratelli; questa adesione al Figlio la cui esistenza è stata un cammino continuo verso il Padre nel servizio dei fratelli. Solamente così si colgono le ricchezze operate in lei dallo Spirito Santo, si comprende la natura cristiana delle sue scelte, si percepisce «l’originalità» della sua religiosità rispetto a quella del suo tempo.
Giustamente si evidenziano i legami tra l’ambiente religioso dell’epoca (famiglia, parrocchia, Azione Cattolica) e la sua vicenda spirituale. A proposito di questi legami mi sembrano opportune alcune precisazioni. Il santo non è una ricchezza che la Chiesa possa esibire come proprietà sua perché frutto innanzitutto dell’opera dello Spirito Santo. La Chiesa antica ricordava queste verità specialmente per i martiri. Coloro che sacrificavano la vita per Cristo erano chiamati «martiri» (= testimoni) non perché dimostravano con coraggio (testimoniavano) la loro fedeltà a Dio, ma perché nel loro gesto si rivelava la forza dello Spirito di Cristo Risorto. Lo Spirito agiva nel martire aiutandolo a ripetere il gesto di Cristo sulla Croce. Il morire per la fede dimostrava (testimoniava) che Cristo era veramente Risorto e continuava ad agire nei suoi fedeli, proseguiva il suo cammino nel cammino dei discepoli, la sua morte nella morte dei credenti.
Pierina è certo frutto dell’ambiente ma più ancora dello Spirito che ha operato in lei «grandi cose», critiche anche nei confronti dell’ambiente.
Sono noti alcuni limiti (o rischi) della religiosità dell’epoca: il pregare considerato più come «dovere» da compiere che dialogo personale con il Signore, che «un far compagnia al Signore». L’eccessivo proliferare di devozioni poteva attenuare la centralità di Cristo. L’accettazione tranquilla dei valori cristiani da parte della coscienza sociale e dell’ambiente non ra¬ramente produceva un certo conformismo o una religione delle norme. L’ascesi sovente era celebrata come valore in sé; l’esperienza religiosa non sempre si allargava al coinvolgimento dell’intera esistenza.
Mi sembra che in Pierina questi limiti siano stati decisamente superati e i rischi evitati; in lei possiamo perciò contemplare i frutti migliori di quella feconda stagione ecclesiale. Anche in lei troviamo il «dovere della preghiera», ma è un «dovere» che nasce da un cuore trasformato dallo Spirito filiale; è la «necessità» del figlio di dialogare con il Padre, di guardarLo con amore disponibile. Pure lei praticava le devozioni più diffuse, però il centro della sua esperienza di fede rimaneva il rapporto personale e radicale con il Signore. Le devozioni erano espressioni particolari di questo rapporto e momenti per alimentarlo. Seguiva le norme comunemente accettate ma, fondandole nel Signore, le superava secondo la logica della libertà dello Spirito: era la vera religione del Signore e non delle regole.
L’ascesi sgorgava e rifluiva nell’amore di Dio, cioè nella co¬munione profonda con Lui. E’ significativo che le tre frasi da lei ricopiate siano di sapore mistico e non ascetico, mettano al centro l’esperienza della grazia del Signore e non lo sforzo umano. Il rapporto con il Signore, intimamente vissuto, determinava ogni suo comportamento, in particolare guidava i suoi rapporti con gli altri. La carità da lei praticata non la si ritrovava facilmente neppure tra i buoni cristiani delle nostre parrocchie.
Era «ordinaria» e «insolita» insieme; viveva il «quotidiano ordinario» ma con motivazioni più cristianamente centrate, con intensità d’amore particolare, alla luce della «sapienza evangelica», lasciandosi guidare dallo Spirito e non dalla norma arida.
La sua vicenda ci ricorda che l’efficacia di una vita cristiana (e quindi della storia di una comunità cristiana) non sta nell’’efficientismo apostolico perseguito ad ogni costo, nell’efficacia visibile e subito verificata del nostro agire. E’ radicata nella qualità della fede, nell’adesione incondizionata a Cristo, nella logica pasquale che ci sollecita a partecipare alla morte di Cristo quale gesto d’obbedienza filiale al Padre e d’amore fraterno per gli uomini.
Non a caso la sua vicenda si sviluppa negli anni cinquanta quando nelle nostre parrocchie fervevano numerose iniziative pastorali, per molti aspetti lodevoli. Con la vita della beata Morosini e, in particolare, con il suo martirio (la morte è una sconfitta, è inefficace nella lotta per la vita) lo Spirito ha voluto, forse, ricordare alle nostre comunità che il vivere cristiano è fruttuoso solo se partecipa al sì di Cristo. Certamente l’obbedienza al Padre deve coinvolgere l’intera esistenza, deve diventare visione della realtà, sapienza di vivere, impegno concreto nella storia; deve, in una parola, essere il centro unificatore della persona e del suo agire. E’ il minimo e il massimo della fede cristiana e quindi della sua efficacia storica.
Ci ricorda che per essere attenti agli altri e condividerne le necessità si devono semplificare i propri desideri e trasformare in proprio progetto il bisogno degli altri. La sua testimonianza si è completata alla vigilia del boom economico e dell’irrompere del benessere nelle nostre povere contrade. Con il benessere sono arrivate tante altre realtà non proprio positive. Tra queste la perdita (o l’attenuarsi) della capacità di condivisione, caratteristica di chi non si limitava a subire la povertà ma l’accettava serenamente perché aveva scoperto il vero tesoro. Pierina ci ricorda che non è possibile un’autentica condivisione se il cuore non considera quale suo tesoro quel Padre che in Cristo si è rivelato «condivisione».

IMPRIMATUR
Bergomi, 31 octobris 1987
† IULIUS OGGIONI, Episcopus

[Testo della relazione di Mons. Roberto Amadei ai sacerdoti diocesani e religiosi presenti a Fiobbio il 7 ottobre 1987]

05 ottobre, 1987

UDIENZA CON I PELLEGRINI

 A voi di Fiobbio e della diocesi di Bergamo vorrei dire: « Stì bé! — State bene!». Era, questo, un saluto abituale della beata Morosini, quando andava e veniva dal lavoro. Le sue labbra e il suo cuore lo ridicono ancora oggi, a tutti, nel dialetto a voi familiare e nella lingua universale dell’amore cristiano. È un augurio di bene, seminato lungo le strade di tutti i giorni. Un saluto feriale che sulle labbra di chi crede acquista la ricchezza di un calore nuovo, attinto alla fiamma che brucia nel cuore stesso di Dio. I passi che voi tutti muovete, ogni giorno, nella vita familiare e parrocchiale, nell’ambiente di lavoro o nella comunità civile, sappiano seguire le orme lasciate dalla beata Pierina: siano passi di credenti che incontrano il Signore nell’Eucaristia, nella Comunità, in ogni fratello; passi di lavoratori e di lavoratrici, che nell’adempimento del dovere quotidiano sanno di collaborare con Dio nell’edificazione del mondo;

passi di testimoni che sentono la responsabilità di accompagnare chi è piccolo o debole verso la piena maturità della fede;
passi di chi non leva mai la mano per ferire, ma per sostenere, per confortare, per beneficiare. ..
È quanto vi chiede la vostra Beata, ripetendo anche oggi il suo saluto: « Stì bé! » .
3. Miei cari, le campane delle vostre Comunità hanno dato l’annuncio gioioso di queste beatificazioni. Sono un invito alla gioia ed alla conversione, perché Dio, «che incorona gli umili di vittoria » (Sal 146,6), ha mostrato ancora una volta in queste giovani donne la potenza della sua grazia. Il mio augurio è che, per loro intercessione, Egli «vi renda degni della sua chiamata e porti a compimento, con la sua potenza, ogni vostra volontà di bene e l’opera della vostra fede» (2 Ts 1,11). Portare con voi, nelle vostre Comunità, la speranza della Chiesa intera: che «sia glorificato il nome del Signore Gesù in voi e voi in Lui » (2 Ts 1,12).
Beata Antonia, beata Pierina, pregate per noi!
Pregate per noi, affinché sappiamo accogliere il valore impagabile della vita, insieme con le indicazioni che il senso cristiano offre sul modo di spenderla bene!
Pregate per noi, affinché sappiamo accogliere il fascino dell’età giovanile, scoprendone la radice in quel Dio che abbraccia ogni età con la sua eterna giovinezza!
Pregate per noi, affinché sappiamo accogliere il fascino del corpo per la vocazione umana e cristiana, senza tuttavia mai dimenticare che vi sono valori più grandi, per i quali può essere giusto perdere la vita stessa per riaverla in Dio!
Pregate per noi, infine, affinché siamo trovati fedeli a Cristo e al mondo nel quale il Signore ci colloca come laici, religiosi e sacerdoti. Amen!

[Saluto del papa ai pellegrini giunti a Roma per la Beatificazione di Pierina Morosini, 5 ottobre 1987]




04 ottobre, 1987

RITO DI BEATIFICAZIONE DEI GIOVANI LAICI MARCEL CALLO, ANTONIA MESINA E PIERINA MOROSINI

 RITO DI  BEATIFICAZIONE DEI GIOVANI LAICI MARCEL CALLO,

ANTONIA MESINA E PIERINA MOROSINI

OMELIA DI GIOVANNI PAOLO II

Domenica, 4 ottobre 1987

 

1. “La vigna del Signore è la casa d’Israele” (Is 5, 7). Noi siamo la vigna del Signore, cari fratelli e sorelle! Noi suo popolo, convocato alla mensa della Parola e del Pane di vita! Noi, suo popolo radunato nell’unità e varietà dei doni dello Spirito!

La vigna: ecco la parola centrale della liturgia di oggi, l’immagine che lega tra loro il brano di Isaia, il salmo responsoriale e il Vangelo di Matteo.

Oggi risuona ancora una volta nei nostri orecchi il canto della vigna, cantico di amore e parabola di giudizio. Isaia canta l’amore di Dio, padrone ed agricoltore, per la “sua piantagione preferita”: “Che cosa dovevo fare ancora alla mia vigna, che io non abbia fatto?” (Is 5, 4). Ma è lo stesso profeta che manifesta la delusione di Dio di fronte all’uva selvatica, di fronte alla violenza fisica e morale che abita nella casa di Israele (cf. Is 5, 7 e 3, 14). Ed allora, ecco il giudizio: Dio è pronto ad abbandonare questo terreno che ha coltivato: senza la sua protezione esso tornerà ad essere un deserto inospitale.

2. Ma proprio qui si leva un grido di smarrimento e insieme di fiducia: “Perché hai abbattuto la sua cinta e ogni viandante ne fa vendemmia?” (Sal 80, 13). È il Salmista che richiama con insistenza l’attenzione di Dio, ne invoca la presenza: “Volgiti, guarda dal cielo, vedi e visita questa vigna, proteggi il ceppo che la tua destra ha piantato, il germoglio che ti sei coltivato” (Sal 80, 15-16). In questo grido ed in questo crescendo di invocazioni, si realizza il passaggio da Isaia al Vangelo.

3. Nella parabola di Matteo la vigna è ormai solo lo sfondo del dramma. Balzano in primo piano coloro che la coltivano. Il centro dell’attenzione si sposta su una nuova ingiustizia: non più il rifiuto del lavoro, ma il rifiuto di consegnarne i frutti al Padrone della vigna.

Il rapporto di alleanza viene misconosciuto dai vignaioli, i quali, nel “tempo dei frutti” (Mt 21, 34), non riconoscono altro padrone che se stessi.

C’è di più. I vignaioli si spingono fino al punto di bastonare gli inviati del Padrone, i suoi servi fedeli, i profeti. E quando Egli manda loro il suo Figlio, come definitiva parola di convincimento e di mediazione, essi “lo prendono, lo buttano fuori dalla vigna e lo uccidono” (Mt 21, 39). Al Figlio, cui doveva andare tutto il rispetto (Mt 21, 37), viene riservato il trattamento in uso per i bestemmiatori presso Israele.

A questo punto la parabola diventa preannuncio degli avvenimenti pasquali. Inizia il dramma del Figlio di Dio, dell’Alleanza nel sangue di Lui (Mt 26, 28). Gesù dice di se stesso: “La pietra che i costruttori hanno scartato”, proprio quella pietra “è diventata testata d’angolo” (Mt 21, 24).

La vigna del Signore è la casa d’Israele . . .”. Mediante il mistero pasquale diventa chiaro che il Dio dell’Alleanza costruisce la sua casa, nella storia dell’uomo, su Cristo: la pietra rifiutata diventa sul Calvario la pietra angolare della costruzione divina nella storia del mondo. Da quel momento la croce diventa l’inizio della risurrezione nella potenza dello Spirito Santo.

4. Fratelli e sorelle, nell’Eucaristia che celebriamo, l’ora del Figlio di Dio si fa ora della Chiesa, di un popolo nuovo che ha in Cristo la sua pietra angolare.

A questo popolo appartengono i tre giovani che la Chiesa eleva oggi alla gloria dei Beati: Marcel Callo, Pierina Morosini e Antonia Mesina.

Tutti e tre sono laici, sono giovani, sono martiri!

Figli di questo nostro secolo, difficile ma appassionante, hanno condiviso l’ora del Figlio di Dio, rimanendo intimamente uniti a Lui nel mondo. Con trepidazione e gioia li presentiamo al popolo cristiano e a tutti gli uomini di buona volontà come “germogli scelti” che il divino Agricoltore ha coltivato nel nostro tempo attraverso le loro famiglie, le loro associazioni, specialmente l’Azione Cattolica e la JOC, attraverso il lavoro in casa e in fabbrica, attraverso il martirio.

Nella prima domenica del Sinodo, che s’è raccolto per riflettere sul tema “Vocazione e missione dei laici nella Chiesa e nel mondo a vent’anni dal Concilio”, acquista una singolare eloquenza il fatto che tre laici ottengano la gloria dei Beati. Li presentiamo a tutti come “fedeli laici”, come giovani e coraggiosi “cittadini della Chiesa e del mondo”, fratelli di un’umanità nuova, costruttori liberi e non-violenti di una civiltà pienamente umana, segno profetico della Chiesa del terzo millennio, resa “sale” del mondo grazie anche alla presenza di laici santi.

5. Sì, nella sua misericordia, il Signore ha sempre dato alla sua “vigna”, al suo Popolo, una “corte” di santi che proclamano la grandezza dell’uomo quando si lascia cogliere e condurre dallo Spirito di Dio.

Marcel Callo, che ho la gioia di proclamare Beato, in mezzo alla sua famiglia, alla sua diocesi di Rennes e ai numerosi rappresentanti della JOC e degli scouts, non è arrivato da solo alla perfezione evangelica. Una famiglia modesta, profondamente cristiana, ve l’ha condotto. Gli scouts e poi la JOC hanno proseguito l’opera. Nutrito dalla preghiera, dai sacramenti e da un’azione apostolica pensata secondo la pedagogia di questi movimenti, Marcel ha costruito la Chiesa con i suoi fratelli, i giovani lavoratori cristiani. È nella Chiesa che si diventa cristiani, ed è con la Chiesa che si costruisce un’umanità nuova.

Marcel non è arrivato subito alla perfezione evangelica. Ricco di qualità e di buona volontà, ha a lungo lottato contro la tentazione del mondo, contro se stesso, contro il peso delle cose e della gente. Ma, pienamente disponibile alla grazia, si è lasciato progressivamente condurre dal Signore, fino al martirio.

Le difficoltà hanno maturato il suo amore personale per Cristo. Dalla sua prigione scrisse al fratello, recentemente ordinato sacerdote: “fortunatamente, c’è un amico che non mi lascia un solo istante e che sa sostenermi e consolarmi. Con Lui si superano anche i momenti più dolorosi e sconvolgenti. Non ringrazierò mai abbastanza Cristo di avermi indicato il cammino che ora percorro”.

Sì, Marcel ha incontrato la Croce. In Francia prima. Poi - strappato all’affetto della sua famiglia e di una fidanzata che amava teneramente e castamente - in Germania, dove rifondò la JOC con alcuni amici, molti dei quali morti per essere testimoni del Signore Gesù. Inseguito dalla Gestapo, Marcel è andato fino in fondo. Come il Signore, ha amato i suoi fino all’estremo e la sua vita è diventata eucarestia.

Raggiunta la gioia eterna di Dio, testimonia come la fede cristiana non separi la terra dal cielo. Il cielo si prepara sulla terra nell’amore e nella giustizia. Quando si ama si è già “beati”. Il Colonnello Tiboldo, che aveva visto morire migliaia di prigionieri, l’assisteva all’alba del 19 marzo 1945; testimonia con insistenza e con emozione: Marcel aveva lo sguardo di un santo.

Il messaggio vivente rilasciato da Marcel Callo ci riguarda tutti.

Ai giovani lavoratori cristiani mostra lo straordinario splendore di quelli che si lasciano abitare da Cristo e si dedicano alla liberazione totale dei fratelli.

Ai cristiani della diocesi di Rennes, e sulla scia dei vescovi fondatori Armand e Melaine, del beato Yves Mahyeuc, del beato Julien Maunoir, di San Louis-Marie Grignion de Montfort, della beata Jeanne Jugan, Marcel Callo ricorda la fecondità spirituale della Bretagna quando essa sa vivere nella fede dei suoi padri.

A noi tutti, laici, religiosi, sacerdoti o vescovi, rilancia l’universale appello alla santità: una santità e una gioventù spirituale di cui il nostro vecchio mondo occidentale ha tanto bisogno per continuare ad annunciare il Vangelo.

6. Rallegratevi con me e con tutta la Chiesa, voi fratelli e sorelle della diocesi di Bergamo, abitanti di Fiobbio e di Albino, che siete venuti a Roma per la beatificazione di Pierina Morosini.

Sono in mezzo a voi le radici della sua religiosità. Cresciuta in un ambiente di alta vita spirituale incarnata nella famiglia, la Beata Morosini ha seguito Cristo povero ed umile nella cura quotidiana dei numerosi fratelli. Avendo scoperto che “poteva farsi santa anche senza andare in convento”, si è aperta con amore alla vita parrocchiale, all’Azione Cattolica ed all’apostolato vocazionale. La preghiera personale, la partecipazione quotidiana alla santa Messa e la direzione spirituale l’hanno portata a capire la volontà di Dio e le attese dei fratelli, a maturare la decisione di consacrarsi privatamente al Signore nel mondo.

Per dieci anni ha vissuto le difficoltà e le gioie di lavoratrice in un cotonificio della zona, facendo i turni e spostandosi sempre a piedi. Le colleghe testimoniano la sua fedeltà al lavoro, la sua affabilità unita al riserbo, la stima che godeva come donna e come credente. Proprio nel tragitto verso casa, trent’anni fa, si è consumato il suo martirio, estrema conseguenza della sua coerenza cristiana. I suoi passi però non si sono fermati, ma continuano a segnare un sentiero luminoso per quanti avvertono il fascino delle sfide evangeliche.

7. E rallegratevi con me anche voi della diocesi di Nuoto, voi cittadini di Orgosolo e dell’intera Sardegna, per la giovane Antonia Mesina, che oggi proclamiamo beata.

Il suo martirio è anzitutto il punto di arrivo di una dedizione umile e gioiosa alla vita della sua numerosa famiglia: è stato il suo sì costante al servizio nascosto in casa che l’ha preparata ad un sì totale.

Sin da piccola - erano gli anni del primo dopoguerra - Antonia ha sperimentato la durezza della sua terra e la generosità della sua gente; guidata dai genitori, dalla maestra e dal parroco si è aperta con coraggio ai valori della vita e della fede; in particolare alla scuola della Gioventù Femminile di Azione Cattolica ha posto in profondità le radici umane e cristiane del suo desiderio di purezza e di donazione.

E a solo sedici primavere si è trovata a vivere il suo sì eroico alla beatitudine della purezza, difesa fino al sacrificio supremo.

Il fascio di legna raccolto per fare il pane nel forno di casa, quel giorno di maggio del 1935, rimane sui monti accanto al suo corpo straziato da decine e decine di colpi di pietra. Quel giorno si accende un altro fuoco e si prepara un altro pane per una famiglia molto più grande.

Beati perché “puri di cuore”, Marcel, Pierina e Antonia sono consegnati a voi, laici, a voi giovani, come testimoni di un amore in cammino, capace di vedere oltre l’umano, di “vedere Dio” (Mt 5, 8); sono consegnati a voi come esempi di fede matura, libera da compromessi, consapevole della dignità umana e cristiana della persona; come canto di speranza per le nuove generazioni che lo Spirito continua a chiamare alla radicalità del Vangelo.

8. La vigna del Signore oggi è in festa. In questi nuovi Beati si adempiono le parole di Cristo: “Io vi ho scelto e vi ho costituiti, perché andiate e portiate frutto” (Gv 15, 16). Essi sono andati. Ed hanno portato il frutto della santità. La santità è la vocazione principale dell’intero popolo di Dio: questi Beati, questi laici, ne sono conferma e realizzazione.

Nella santità di ogni battezzato si rivela la potenza della pietra su cui poggia la divina costruzione. Il mistero pasquale - annunziato nel Vangelo di oggi - opera incessantemente con la potenza dello Spirito di santità, genera sempre nuovi santi e nuovi beati.

Resi pietre vive dallo Spirito, i beati Marcel, Pierina e Antonia sono stati trovati fedeli, in posizione di difesa dei valori umani e cristiani; oggi vengono collocati in posizione di annuncio, annuncio della gioia che scaturisce dal glorificare Cristo nel proprio corpo (cf. Fil 1, 20). “Tenendo alta la parola di vita” (Fil 2, 16) gridano il loro messaggio con la forza silenziosa del martirio, scrivendo nel loro giovanile sangue un inno a Cristo, re e signore dei martiri, di ieri, di oggi, di sempre.

9. Sulle orme di san Paolo, evangelizzatore e martire, i nuovi Beati ci sollecitano ad unire le nostre fatiche a quelle di tutti i credenti per far fruttificare la vigna di Dio: “Tutto quello che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato, quello che è virtù e merita lode, tutto questo sia oggetto dei vostri pensieri” (Fil 4, 8). Con San Paolo ci ricordano il dovere di assumere tutto il positivo che vi è in ogni cultura, in ogni situazione storica, in ogni persona. E con San Paolo aggiungono: “Ciò che avete imparato, ricevuto, ascoltato e veduto in me, è quello che dovete fare” (Fil 4, 9).

L’invito dei tre giovani martiri acquista un’eloquenza particolare per noi che prendiamo parte al Sinodo. La loro testimonianza ci stimola a pensare con attenzione rinnovata al ruolo dei laici nella Chiesa, al lavoro che essi sono chiamati a svolgere nel Popolo di Dio per la salvezza del mondo. La loro vicenda ci ricorda in particolare che, al di là della vocazione specifica di ciascuno, c’è una vocazione che è comune a tutti, la vocazione alla santità. Ed è la vocazione che ha il primato su tutte, perché dalla generosità della risposta a tale vocazione dipende l’autenticità e l’abbondanza dei frutti che ciascuno è chiamato a portare nella “Vigna del Signore”.

Non dimenticate: la vigna! / la vigna del Signore! / Non dimenticate: la pietra angolare!

“E la pace di Dio, che sorpassa ogni intelligenza, custodirà i vostri cuori e i vostri pensieri in Cristo Gesù” (Fil 4, 7).

 

Papa Giovanni Paolo II – Omelia della Beatificazione, Roma – 4 ottobre 1987





4 – Fratelli e sorelle, nell’ Eucarestia che celebriamo, l’ora del Figlio di Dio si fa ora della Chiesa, di un popolo nuovo che ha in Cristo la sua pietra angolare.

A questo popolo appartengono i tre giovani che la Chie¬sa eleva oggi alla gloria dei Beati: Marcel Callo, Pierina Moro¬sini e Antonia Mesina.

Tutte e tre sono laici, sono giovani, sono martiri!

Figli di questo nostro secolo, difficile ma appassionante, hanno condiviso l’ora del Figlio di Dio, rimanendo intimamen¬te uniti a Lui nel mondo. Con trepidazione e gioia li presentia¬mo al popolo cristiano e a tutti gli uomini di buona volontà come «germogli scelti» che il divino Agricoltore ha coltivato nel nostro tempo attraverso le loro famiglie; le loro associazio¬ni, specialmente l’Azione Cattolica e la J.O.C., attraverso il lavoro in casa e in fabbrica, attraverso il martirio.

Nella prima domenica del Sinodo, che s’è raccolto per ri¬flettere sul tema «Vocazione e missione dei laici nella Chiesa e nel mondo a vent’anni dal Concilio», acquista una singolare eloquenza il fatto che tre laici ottengano la gloria dei Beati. Li presentiamo a tutti come «fedeli laici», come giovani e co¬raggiosi «cittadini della Chiesa e del mondo», fratelli di un’u¬manità nuova, costruttori liberi e non – violenti di una civiltà pienamente umana, segno profetico della Chiesa del terzo mil¬lennio, resa «sale » del mondo grazie anche alla presenza di laici santi.


6 – Rallegratevi con me e con tutta la chiesa, voi fratelli e sorelle della diocesi di Bergamo, abitanti di Fiobbio e di Al¬bino, che siete venuti a Roma per la beatificazione di Pierina Morosini.

Sono in mezzo a voi le radici della sua religiosità. Cresciu¬ta in un ambiente di alta vita spirituale incarnata nella famiglia, la Beata Morosini ha seguito Cristo povero ed umile nella cura quotidiana dei numerosi fratelli. Avendo scoperto che «poteva farsi santa anche senza andare in convento», si è aperta con amore alla vita parrocchiale, all’Azione Cattolica ed all’aposto¬lato vocazionale. La preghiera personale, la partecipazione quotidiana alla Santa Messa e la direzione spirituale l’hanno portata a capire la volontà di Dio e le attese dei fratelli, a matu¬rare la decisione di consacrarsi privatamente al Signore nel mondo.

Per dieci anni ha vissuto le difficoltà e le gioie di lavoratrice in un cotonificio della zona, facendo i turni e spostandosi sempre a piedi. Le colleghe testimoniano la sua fedeltà al la¬voro, la sua affabilità unita al riserbo, la stima che godeva come donna e come credente. Proprio nel tragitto verso casa, trent’anni fa, si è consumato il suo martirio, estrema conse¬guenza della sua coerenza cristiana. I suoi passi però non si sono fermati, ma continuano a segnare un sentiero luminoso per quanti avvertono il fascino delle sfide evangeliche.


[Dall’omelia di Papa Giovanni Paolo II durante la Beatificazione di Pierina Morosini – Basilica di San Pietro, 4 ottobre 1987]













Estratto della Beatificazione di Antonietta Mesina

     Estratto della Beatificazione di Antonietta Mesina

«E rallegratevi con me anche voi della diocesi di Nuoro, voi cittadini di Orgosolo e dell'intera Sardegna, per la giovane Antonia Mesina, che oggi proclamiamo beata. Il suo martirio è anzitutto il punto di arrivo di una dedizione umile e gioiosa alla vita della sua numerosa famiglia: è stato il suo sì costante al servizio nascosto in casa che l'ha preparata ad un sì totale. [...] Il fascio di legna raccolto per fare il pane nel forno di casa, quel giorno di maggio del 1935, rimane sui monti accanto al suo corpo straziato da decine e decine di colpi di pietra. Quel giorno si accende un altro fuoco e si prepara un altro pane per una famiglia molto più grande».

(Giovanni Paolo II, omelia della messa di beatificazione, 4 ottobre 1987)


Antonia Mesina è venerata come beata dalla Chiesa cattolica, che ne celebra la memoria liturgica il 17 maggio. Come Maria Goretti, Antonia Mesina, laica socia di Azione Cattolica, venne uccisa mentre si opponeva a un tentativo di violenza sessuale; per questo la Chiesa riconosce in lei una "martire della purezza".

Armida Barelli, che aveva conosciuto Antonia Mesina durante una visita a Orgosolo, il 5 ottobre 1935 informò il papa Pio XI della vicenda, presentando la giovane con queste parole: "Ci permettiamo di presentare il primo fiore della Gioventù Femminile di Azione Cattolica Italiana, il primo figlio reciso dal martirio, la sedicenne Antonia Mesina di Orgosolo, educata alla scuola di Maria Goretti"[3].

Il 22 settembre 1978 papa Giovanni Paolo I diede avvio al processo di canonizzazione. Antonia Mesina, insieme a Pierina Morosini e Marcel Callo, venne beatificata il 4 ottobre 1987 da Giovanni Paolo II.

Le spoglie mortali della beata sono esposte alla venerazione dei fedeli nella cripta della moderna parrocchiale di Orgosolo, nel centro del paese, poco lontano dalla casa natale.

DIFESE CON LA VITA LA SUA VERGINITÀ

 A diciassette secoli della morte eroica di S. Alessandro gio­vane e martire, patrono della città e della diocesi di Bergamo e nel solco tracciato dalla sua fede intrepida, il sangue di una nuova giovane, Pierina Morosini, torna a fecondare la Chiesa ber­gamasca.

Cresciuta tra gente piena di fede e di laboriosità, educata in una famiglia profondamente religiosa e in una comunità fe­delmente ancorata ai valori della tradizione cristiana, Pierina con il sacrificio della vita ridona alla sua diocesi il bene rice­vuto e ne assicura le grazie per una nuova primavera di ge­nerosità e di dedizione a Dio e ai fratelli.

La promulgazione del decreto di martirio il 3 luglio scorso e la sua beatificazione sono un grande dono del Signore che ar­ricchisce la storia della Chiesa di Bergamo in particolare, ma anche quella di tutta la Chiesa di una nuova e stupenda pagina di vita cristiana.

Invocata da più parti, l’esaltazione di Pierina Morosini è certamente provvidenziale. La sua figura attira per l’attualità del messaggio. In un contesto sociale dominato dalla perdita del sen­so del peccato e dalla mancanza e alle volte dal disprezzo per le virtù cristiane, con il suo sacrificio firmato col sangue, la nuova martire rappresenta un richiamo significativo ed efficace a que­sti ideali, richiamo valevole per tutti, ma specialmente per le giovani generazioni.

Ai giovani d’oggi, così tentati e fragili, Pierina Morosini dice che l’autentico valore della vita è Dio e vera liberazione è l’osservanza della sua legge. Insegna loro a non aver paura della croce, ma ad accettarla come dono di Dio, perché solo con la croce, accolta per amore del Signore, è possibile riscattare se stessi, gli altri e il mondo intero. Non solo. Con il gesto eroico di morire per Cristo, Pierina Morosini rivela la vera forza dell’amore, fa brillare un segno di grandezza e di speranza den­tro una cultura fortemente segnata dal permissivismo e dal degrado dei valori morali; ridona freschezza alle virtù sempre at­tuali della fedeltà, della purezza e del dominio di se stessi.

In lei l’amore di Cristo ha vinto la morte. Lo stesso amore può trionfare oggi sulle difficoltà, sulle tentazioni, sulle soffe­renze che il cristiano incontra nel compimento dei doveri del proprio stato e delle esigenze della propria vocazione.

L‘attualità di Pierina Morosini si manifesta in modo particolare nella strenua difesa della virtù della castità e del dono della verginità. Piuttosto che fare il peccato e cedere alle richieste di chi voleva attentare alla sua dignità di donna cristiana Pie­rina Morosini, a 26 anni, sceglie la morte.

Dopo 30 anni da questo avvenimento, nella mentalità e nel costume sono avvenute profonde e rapide trasformazioni, ma la coscienza generale pare abbia fatto solo pochi passi nel rispetto autentico del sesso e in particolare nella vera promozione della donna, della sua dignità e della sua libertà.

Per questo il messaggio che scaturisce dal martirio di Pie­rina Morosini, nonostante la facile derisione di chi credendo di essersi liberato dai tabù del passato, si mantiene invece dentro una mentalità di egoismo e di violenza, vede oggi esaltata la sua attualità.

Il gesto di Pierina Morosini riporta infatti in primo piano la dignità della persona umana, i valori, le idee e le convinzioni che ne costituiscono il suo patrimonio; e allo stesso tempo ob­bliga anche a ripensare gli itinerari di educazione e in modo spe­ciale a riconsiderare il ruolo dell’antica saggezza cristiana che sapeva formare personalità forti e coraggiose attraverso la proposta di «mortificazioni» intese come gesti di liberazione e di lealtà con se stessi e sapeva offrire una visione della donna ri­spettata nel suo valore personale.

Queste rapide considerazioni sulla castità e verginità di Pie­rina Morosini non esauriscono il messaggio che scaturisce dalla sua personalità robusta e affascinante. Anzi il significato della sua beatificazione non è da ricercare solo nell‘attualità e nella facile accettazione del suo messaggio da parte dell‘opinione pub­blica che vede in lei una donna, una lavoratrice, una testimone della verginità fino al martirio.

La Chiesa nella sua saggezza ha sempre voluto che il discor­so della validità di un messaggio si fondasse sulla esemplarità della vita cristiana di chi l‘annuncia.

Qual è dunque il messaggio caratteristico e perenne di Pierina Morosini, messaggio non affi­dato a parole, ma alla sua vita stessa? Pierina Morosini, infatti, giovane e con una istruzione soltanto elementare non ha lasciato — eccetto alcuni appunti — diari o scritti personali.

Io penso che esso si trovi nella sua santità straordinaria sì, ma «popolare»: cioè in una santità veramente straordinaria, valida per tutto il «popolo di Dio». Pierina Morosini di questa santità è un esempio meraviglioso, particolarmente richiesto oggi, quando di vocazione alla santità di tutti i membri del po­polo di Dio si parla così chiaramente nel Concilio Vaticano II e quando bisogna presentare testimoni che siano santi non solo nel quotidiano, ma anche nel «quotidiano popolare».

La santità infatti non è prerogativa di qualche categoria soltanto o un lusso riservato a pochi che hanno doni mistici o che sentono di avere un coraggio eroico; la santità è un dono che Dio offre a tutti e che fiorisce in tutti gli strati sociali e nasce nelle più impensate situazioni.

Oggi la Chiesa ha bisogno di santi, perché i santi sono i riformatori autentici e più fecondi. Ha bisogno di santi di san­tità speciale come gli anacoreti, i grandi mistici, i grandi fondatori. Ma ha ancora un bisogno più grande di santi per santità «straordinaria popolare», quella che si esprime in compor­tamenti comuni al popolo e al ceto di appartenenza e non richie­de grandi carismi e opere eccezionali.

Anzi in questo tempo in cui moltissime persone sentono il vuoto di una società che sta smarrendo le evidenze etiche fon­damentali, c’è particolare urgenza di santi «popolari», di uo­mini e donne forti, profondamente radicati nella fede cristiana e capaci di attualizzare nel «quotidiano popolare» il Vangelo di salvezza. Pierina Morosini è tra questi. E lo è in modo par­ticolarmente esemplare, perché, appartenente alla categoria so­ciale del popolo più umile, ha saputo vivere eroicamente nella sua famiglia, nella Chiesa e nel lavoro il messaggio cristiano che fa di tutti i credenti il popolo di Dio.

In questo anno mariano e in armonia con il Sinodo dei Vescovi sulla «Vocazione e missione dei laici nella Chiesa e nel mondo a vent’anni dal Concilio Vaticano II», la testimonianza di Pierina Morosini alimenti in tutto il popolo di Dio un incessan­te desiderio di santità; richiami a tutti che la santità comporta «un modo nuovo di vivere che a partire da una profonda intimità con Dio penetri in tutte le situazioni umane, in tutti gli stili di vita, in tutti gli impegni, in tutti i rapporti con le cose, con gli uomini, con Dio» (Giovanni Paolo II 19 giugno 1986).

E a tutti ricordi — per non cadere in un attivismo arido e improduttivo — che è Dio che santifica: è lui che «apre gli occhi del peccatore, che dà la forza della conversione, che sostituisce all‘errore, all‘ingiustizia, all’odio e alla violenza — grazie all‘azione degli uomini che ha santificati e grazie anche all‘esem­pio e al messaggio di Pierina Morosini — la verità, la libertà, la speranza, la pace e l’amore fraterno».


[scritto di Mons. Giulio Oggioni, vescovo di Bergamo, pubblicato su «L’Osservatore Romano», 4 ottobre 1987]



04 settembre, 1987

BIOGRAFIA DELLA BEATA PIERINA EUGENIA MOROSINI

 Mercoledì 7 gennaio 1931 Pierina Morosini, primogenita di nove fratelli, nasce nella cascina “Stalle” di Fiobbio, frazione del comune di Albino (Bergamo). Il giorno seguente fu battezzata col nome di Pierina Eugenia, don Antonio Savoldi,   nella nuova Chiesa Parrocchiale di Fiobbio. Primogenita dei nove figli di Rocco Morosini e di Sara Noris, modesti contadini. In famiglia fu educata ad una solida fede cristiana e alla responsabilità sociale. Essendo la primogenita, dovette dare il buon esempio ai fratelli e ben presto aiutare in casa sia nella faccende domestiche, sia accudendo agli altri bambini che la mamma, per guadagnare qualcosa, ospitava in casa. Era una ragazza piuttosto chiusa, ma era dotata di buona intelligenza e sapeva esprimersi bene. Frequentò la scuola elementare fino alla quarta classe a Fiobbio, mentre, per ultimare il corso con la quinta classe, dovette sottoporsi al quotidiano trasferimento a piedi fino ad Albino. Terminate le scuole elementari con pieno successo, frequentò un corso di taglio e cucito e da allora si occupò sempre della confezione dei vestiti per tutti i suoi familiari. Il 18 marzo 1946 Pierina, che aveva allora quindici anni, fu assunta come operaia nel cotonificio Honegger di Albino, dove lavorava a turno, per otto ore consecutive. Dato che il padre era ormai inabile al lavoro, molta parte del peso della famiglia si riversò su di lei. Nel cotonificio Pierina era addetta ai telai e viene descritta dai testi come operaia tra le più diligenti, rispettosa e gentile con tutti, e nello stesso tempo testimone aperta e convinta della propria fede. Si metteva al lavoro con la consapevolezza di una ininterrotta e profonda unione con Dio. «Il lavoro è preghiera», le avevano insegnato. Il lavoro in fabbrica non assorbiva tutte le sue attività. In casa erano le faccende domestiche ad occuparla, in parrocchia le attività pastorali. Partecipava a tutte le forme di apostolato organizzato, prediligendo però le attività formative o di preghiera. Si iscrisse come socia nella A.C. femminile e a sedici anni accettò l’incarico di Delegata delle « Piccolissime ». Allora a Fiobbio tutte le mamme iscrivevano le figlie nelle « Piccolissime ». Pierina faceva inoltre parte del Gruppo Missionario, delle Zelatrici del Seminario di Bergamo, era iscritta all’Apostolato della Riparazione con un ritiro mensile predicato dai Dehoniani e alle « Figlie di Maria » e aveva fatto la vestizione nel Terz’Ordine Francescano. Verso i sedici o diciassette anni manifestò anche il desiderio di farsi religiosa missionaria, ma dovette rinunciare allorché si rese conto di quanto fosse necessario il suo aiuto in famiglia. Consigliata dal direttore spirituale, si impegnò con i voti privati di castità, povertà e obbedienza e si diede una piccola regola di vita in dodici punti, per darsi tutta a Dio e al prossimo e a vivere religiosamente in casa. Il più grande avvenimento della sua vita silenziosa, trascorsa interamente a casa nel suo paese natale, fu la partecipazione ad un pellegrinaggio a Roma, organizzato dalla gioventù femminile di Azione Cattolica, in occasione della beatificazione di Maria Goretti il 27 aprile 1947. «Lasciarsi uccidere a quel modo! Tu lo faresti?», le chiese un’amica. «Perché no?», rispose Pierina. «Vorrei assomigliare a Maria Goretti, vorrei essere come lei». Dieci anni più tardi, nel pomeriggio del 4 aprile 1957, dopo il turno di otto ore in fabbrica, Pierina stava percorrendo un sentiero lungo il monte Misma, che l’avrebbe condotta a casa. Fu avvicinata e brutalmente aggredita da un giovane che voleva approfittare di lei. Ai suoi dinieghi, apertamente motivati con espressioni che si rifacevano alla sua fede religiosa, l’aggressore, che la giustizia riconobbe e condannò, l’uccise fracassandole la nuca con una pietra. Furono intanto avvisati i carabinieri, il parroco, il medico e la Croce Rossa. Il Parroco amministrò l’Olio Santo ed impartì l’assoluzione e Pierina venne subito trasportata all’Ospedale Maggiore di Bergamo. Il parere del medico che la visitò al momento del ricovero non lasciava dubbi: «Abbiamo qui una nuova Maria Goretti». In ospedale Pierina fu sempre in coma. Trascorse la prima notte e verso le 10.15 del 6 aprile 1957 morì. Il 9 aprile, Pierina fu sepolta nel cimitero di Fiobbio con la partecipazione del popolo accorso da tutti i paesi della valle Seriana. Il 10 aprile 1983 la salma venne traslata nella chiesa parrocchiale di Fiobbio e tumulata in un sarcofago di marmo bianco. Le indagini, dopo lunghi accertamenti, portarono all'arresto di un giovane di Albino, poi processato e condannato con sentenza definitiva del maggio 1960, a dieci anni e undici mesi di reclusione (otto anni e undici mesi per omicidio preterintenzionale — due dei quali condonati —, due anni per violenza; estinzione per amnistia del reato di atti osceni). Il «caso» giudiziario si chiuse nel maggio 1963 con il no della Cassazione ad ogni ulteriore ricorso dell'imputato, che tornò libero nel 1965. 28 maggio 1972 è redatto il Libello Supplice o Domanda Ufficiale di apertura del processo Canonico di beatificazione per virtù e martirio di Pierina Morosini 8 dicembre 1975 il vescovo di Bergamo, mons. Clemente Gaddi, apre la Causa di Beatificazione 1983 il corpo della Serva di Dio Pierina Morosini viene traslato dal vicino cimitero nella Chiesa Parrocchiale di Fiobbio 4 ottobre 1987 è beatificata nella Basilica di San Pietro in Roma dal Beato Giovanni Paolo II e da allora è venerata come martire. Dopo la beatificazione il corpo martirizzato di Pierina è posto sotto l’altare maggiore della Chiesa di Fiobbio.





16 maggio, 1984

DEPOSIZIONE DI PADRE LUCIANO MOLOGNI

 Per me Pierina era l’incarnazione di una ragazza di fede. Sapeva vedere e percepire Dio dappertutto. Il suo rapporto con Dio era improntato a senso di rispetto, ma confidente. Esulava dal suo animo il motivo del castigo di Dio. Il desiderio di piacere a Lui solo lo esprimeva nelle rinnovazioni dei voti privati, che avveniva dopo la Comunione.

La preghiera di Pierina nelle sue espressioni era molto semplice e seguiva gli abituali formulari in uso nelle famiglie e nelle parrocchie. L’unione costante con Dio si esprimeva più che con formule tradizionali in espressioni sue personali di estrema confidenza, per lo più formulate in dialetto.
Si ispirava molto alla lettura del Vangelo.
Era aliena da ragionamenti e da discussioni nelle cose di Dio. Il distinguere troppo non è conforme alla semplicità spirituale di Pierina.
La Comunione era, possibilmente, quotidiana: ne sentiva quasi una necessità, però se gli orari non glielo consentivano (raramente) proseguiva la sua unione con Dio anche in quella giornata.
Pierina ha sempre ritenuta necessaria la Comunione quotidiana; era il suo stesso ritmo di vita spirituale che la richiedeva. Non era sfiorata dal problema dell’abitudine, perché io le avevo suggerito di legare alla Comunione ogni giorno una particolare intenzione. Era questo che la spingeva a sacrifici di orario per la Comunione; non voleva defraudare le persone per le quali era dedicata, del frutto spirituale o delle grazie.
L’avevo abituata a dividere la giornata in due parti: una di ringraziamento e una di preparazione.

[Deposizione di Padre Luciano Mologni, confessore di Pierina Morosini, al processo diocesano per la Causa di Beatificazione]

10 ottobre, 1982

CANONIZZAZIONE DI MASSIMILIANO MARIA KOLBE

CANONIZZAZIONE DI MASSIMILIANO MARIA KOLBE

OMELIA DI GIOVANNI PAOLO II

Piazza San Pietro, 10 ottobre 1982

 

1. “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici” (Gv 15,13).

Da oggi la Chiesa desidera chiamare “santo” un uomo al quale è stato concesso di adempiere in maniera assolutamente letterale le suddette parole del Redentore.

Ecco infatti, verso la fine di luglio del 1941, quando per ordine del capo del campo si fecero mettere in fila i prigionieri destinati a morire di fame, quest’uomo, Massimiliano Maria Kolbe, si presentò spontaneamente, dichiarandosi pronto ad andare alla morte in sostituzione di uno di loro.

Questa disponibilità fu accolta, e al padre Massimiliano, dopo oltre due settimane di tormenti a causa della fame, fu infine tolta la vita con un’iniezione mortale, il 14 agosto 1941.

Tutto questo successe nel campo di concentramento di Auschwitz, dove furono messi a morte durante l’ultima guerra circa 4.000.000 di persone, tra cui anche la Serva di Dio Edith Stein (la carmelitana suor Teresa Benedetta della Croce), la cui causa di Beatificazione è in corso presso la competente Congregazione. La disobbedienza contro Dio, Creatore della vita, il quale ha detto “non uccidere”, ha causato in questo luogo l’immensa ecatombe di tanti innocenti.

Contemporaneamente dunque, la nostra epoca è rimasta così orribilmente contrassegnata dallo sterminio dell’uomo innocente.

2. Padre Massimiliamo Kolbe, essendo lui stesso un prigioniero del campo di concentramento, ha rivendicato, nel luogo della morte, il diritto alla vita di un uomo innocente, uno dei 4.000.000.

Quest’uomo (Franciszek Gajowniczek) vive ancora ed è presente tra noi. Padre Kolbe ne ha rivendicato il diritto alla vita, dichiarando la disponibilità di andare alla morte al suo posto, perché era un padre di famiglia e la sua vita era necessaria ai suoi cari. Padre Massimiliano Maria Kolbe ha riaffermato così il diritto esclusivo del Creatore alla vita dell’uomo innocente e ha reso testimonianza a Cristo e all’amore. Scrive infatti l’apostolo Giovanni: “Da questo abbiamo conosciuto l’amore: egli ha dato la sua vita per noi; quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli” (1Gv 3,16).

Dando la sua vita per un fratello, padre Massimiliano, che la Chiesa già sin dal 1971 venera come “beato”, in modo particolare si è reso simile a Cristo.

3. Noi, dunque, che oggi, domenica 10 ottobre, siamo riuniti davanti alla Basilica di san Pietro in Roma, desideriamo esprimere il valore speciale che ha agli occhi di Dio la morte per martirio del padre Massimiliano Kolbe:
“Preziosa agli occhi del Signore / è la morte dei suoi fedeli” (Sal 115 [116],15), così abbiamo ripetuto nel Salmo responsoriale. Veramente è preziosa ed inestimabile! Mediante la morte, che Cristo ha subìto sulla Croce, si è compiuta la redenzione del mondo, poiché questa morte ha il valore dell’amore supremo. Mediante la morte, subìta dal padre Massimiliano Kolbe, un limpido segno di tale amore si è rinnovato nel nostro secolo, che in grado tanto alto e in molteplici modi è minacciato dal peccato e dalla morte.

Ecco che, in questa solenne liturgia della canonizzazione, sembra presentarsi tra noi quel “martire dell’amore” di Oswiecim (come lo chiamò Paolo VI) e dire:
“Io sono il tuo servo, Signore, / io sono tuo servo, figlio della tua ancella; / hai spezzato le mie catene” (Sal 115 [116],16).

E, quasi raccogliendo in uno il sacrificio di tutta la sua vita, lui, sacerdote e figlio spirituale di san Francesco, sembra dire:
“Che cosa renderò al Signore / per quanto mi ha dato? / Alzerò il calice della salvezza / e invocherò il nome del Signore” (Sal 115 [116],12s).

Sono, queste, parole di gratitudine. La morte subìta per amore, al posto del fratello, è un atto eroico dell’uomo, mediante il quale, insieme al nuovo Santo, glorifichiamo Dio. Da lui infatti proviene la Grazia di tale eroismo, di questo martirio.

4. Glorifichiamo dunque oggi la grande opera di Dio nell’uomo. Di fronte a tutti noi, qui riuniti, padre Massimiliano Kolbe alza il suo “calice della salvezza”, nel quale è racchiuso il sacrificio di tutta la sua vita, sigillata con la morte di martire “per un fratello”.

A questo definitivo sacrificio Massimiliano si preparò seguendo Cristo sin dai primi anni della sua vita in Polonia. Da quegli anni proviene l’arcano sogno di due corone: una bianca e una rossa, fra le quali il nostro santo non sceglie, ma le accetta entrambe. Sin dagli anni della giovinezza, infatti, lo permeava un grande amore verso Cristo e il desiderio del martirio.

Quest’amore e questo desiderio l’accompagnarono sulla via della vocazione francescana e sacerdotale, alla quale si preparava sia in Polonia che a Roma. Quest’amore e questo desiderio lo seguirono attraverso tutti i luoghi del servizio sacerdotale e francescano in Polonia, ed anche del servizio missionario nel Giappone.

5. L’ispirazione di tutta la sua vita fu l’Immacolata, alla quale affidava il suo amore per Cristo e il suo desiderio di martirio. Nel mistero dell’Immacolata Concezione si svelava davanti agli occhi della sua anima quel mondo meraviglioso e soprannaturale della Grazia di Dio offerta all’uomo. La fede e le opere di tutta la vita di padre Massimiliano indicano che egli concepiva la sua collaborazione con la Grazia divina come una milizia sotto il segno dell’Immacolata Concezione. La caratteristica mariana è particolarmente espressiva nella vita e nella santità di padre Kolbe. Con questo contrassegno è stato marcato anche tutto il suo apostolato, sia nella patria come nelle missioni. Sia in Polonia come nel Giappone furono centro di quest’apostolato le speciali città dell’Immacolata (“Niepokalanow” polacco, “Mugenzai no Sono” giapponese).

6. Che cosa è successo nel Bunker della fame nel campo di concentramento ad Oswiecim (Auschwitz), il 14 agosto del 1941?

A questo risponde l’odierna liturgia: ecco “Dio ha provato” Massimiliano Maria “e lo ha trovato degno di sé” (cf. Sap 3,5). L’ha provato “come oro nel crogiuolo / e l’ha gradito come un olocausto” (cf. Sap 3,6).

Anche se “agli occhi degli uomini subì castighi”, tuttavia “la sua speranza è piena di immortalità” poiché “le anime dei giusti sono nelle mani di Dio, / nessun tormento le toccherà”. E quando, umanamente parlando, li raggiungono il tormento e la morte, quando “agli occhi degli uomini parve che morissero...”, quando “la loro dipartita da noi fu ritenuta una sciagura...”, “essi sono nella pace”: essi provano la vita e la gloria “nelle mani di Dio” (cf. Sap 3,1-4).

Tale vita è frutto della morte a somiglianza della morte di Cristo. La gloria è la partecipazione alla sua risurrezione.

Che cosa dunque successe nel Bunker della fame, il giorno 14 agosto 1941?

Si compirono le parole rivolte da Cristo agli Apostoli, perché “andassero e portassero frutto e il loro frutto rimanesse” (cf. Gv 15,16).

In modo mirabile perdura nella Chiesa e nel mondo il frutto della morte eroica di Massimiliano Kolbe!

7. A quanto successe nel campo di “Auschwitz” guardavano gli uomini. E anche se ai loro occhi doveva sembrare che “morisse” un compagno del loro tormento, anche se umanamente potevano considerare “la sua dipartita” come “una rovina”, tuttavia nella loro coscienza questa non era solamente “la morte”.

Massimiliano non morì, ma “diede la vita... per il fratello”.

V’era in questa morte, terribile dal punto di vista umano, tutta la definitiva grandezza dell’atto umano e della scelta umana: egli da sé si offrì alla morte per amore.

E in questa sua morte umana c’era la trasparente testimonianza data a Cristo:
la testimonianza data in Cristo alla dignità dell’uomo, alla santità della sua vita e alla forza salvifica della morte, nella quale si manifesta la potenza dell’amore.

Proprio per questo la morte di Massimiliano Kolbe divenne un segno di vittoria. È stata questa la vittoria riportata su tutto il sistema del disprezzo e dell’odio verso l’uomo e verso ciò che è divino nell’uomo, vittoria simile a quella che ha riportato il nostro Signore Gesù Cristo sul Calvario.

“Voi siete miei amici, se farete ciò che vi comando” (Gv 15,14)

8. La Chiesa accetta questo segno di vittoria, riportata mediante la forza della Redenzione di Cristo, con venerazione e con gratitudine. Cerca di leggerne l’eloquenza con tutta umiltà ed amore.

Come sempre, quando proclama la santità dei suoi figli e delle sue figlie, così anche in questo caso, essa cerca di agire con tutta la precisione e la responsabilità dovute, penetrando in tutti gli aspetti della vita e della morte del Servo di Dio.

Tuttavia la Chiesa deve, al tempo stesso, stare attenta, leggendo il segno della santità dato da Dio nel suo Servo terreno, di non lasciar sfuggire la sua piena eloquenza e il suo significato definitivo.

E perciò, nel giudicare la causa del beato Massimiliano Kolbe si dovettero – già dopo la beatificazione – prendere in considerazione molteplici voci del Popolo di Dio, e soprattutto dei nostri fratelli nell’Episcopato, sia della Polonia come pure della Germania, che chiedevano di proclamare Massimiliano Kolbe santo “come martire”.

Di fronte all’eloquenza della vita e della morte del beato Massimiliano, non si può non riconoscere ciò che pare costituisca il principale ed essenziale contenuto del segno dato da Dio alla Chiesa e al mondo nella sua morte.

Non costituisce questa morte affrontata spontaneamente, per amore all’uomo, un particolare compimento delle parole di Cristo?

Non rende essa Massimiliano particolarmente simile a Cristo, Modello di tutti i Martiri, che dà la propria vita sulla Croce per i fratelli?

Non possiede proprio una tale morte una particolare, penetrante eloquenza per la nostra epoca?

Non costituisce essa una testimonianza particolarmente autentica della Chiesa nel mondo contemporaneo?

9. E perciò, in virtù della mia apostolica autorità ho decretato che Massimiliano Maria Kolbe, il quale, in seguito alla Beatificazione, era venerato come Confessore, venga d’ora in poi venerato “anche come Martire”!

“Preziosa agli occhi del Signore / è la morte dei suoi fedeli”!

Amen.

 

17 luglio, 1981

Il funerale di Alfredino Rampi

 I funerali si svolsero venerdì 17 luglio 1981 nella Basilica di San Lorenzo fuori le mura; la salma venne trasportata da quegli stessi volontari che tentarono di salvarlo, fra cui Angelo Licheri e Donato Caruso. 




11 luglio, 1981

Il RECUPERO DEL CORPICINO DI ALFREDINO RAMPI

 Il RECUPERO DEL CORPICINO DI ALFREDINO RAMPI


Alle 15 dell’11 luglio il recupero. Sarà Spartaco Stacchini, 37 anni all’epoca, a separare il corpo di Alfredino dalla terra indurita dall’azoto liquido. «Quando arrivò in superficie - sottolineò Stacchini nelle cronache dell’epoca - era ridotto a un blocco di ghiaccio, fu un momento molto emozionante».

13 giugno, 1981

La tragedia di Affredino Rampi

 Nel mese di giugno 1981 la famiglia Rampi — il padre Ferdinando, la madre Francesca Bizzarri, la nonna paterna Veja e i figli Alfredo e Riccardo, rispettivamente di 6 e 2 anni — stava trascorrendo un periodo di vacanza nella loro seconda casa, in via di Vermicino, zona Selvotta, Frascati (Roma).


La sera di mercoledì 10 giugno, Ferdinando Rampi, due suoi amici e il figlio Alfredino erano a passeggio nella campagna circostante. Venuta l'ora di tornare indietro, alle ore 19:20, Alfredino chiese al padre di poter continuare il cammino verso casa da solo, attraverso i prati; Ferdinando acconsentì, ma quando giunse a casa, verso le ore 20:00, scoprì che il bambino non era arrivato. Dopo circa mezz'ora, i genitori cominciarono a cercarlo nei dintorni e, non trovandolo, alle 21:30 circa allertarono le forze dell'ordine.[5] Nel giro di 10 minuti giunsero sul posto Polizia, Vigili urbani e Vigili del fuoco, oltre ad alcuni abitanti del posto, attratti dal viavai. Tutti insieme si unirono ai genitori nelle ricerche, che vennero portate avanti anche con l'ausilio di unità cinofile. La nonna ipotizzò per prima che Alfredino fosse caduto in un pozzo recentemente scavato in un terreno adiacente, dove si stava edificando una nuova abitazione; tale pozzo venne tuttavia trovato coperto da una lamiera tenuta ferma da sassi.


Un agente di polizia, il brigadiere Giorgio Serranti, allorché venne a conoscenza dell'esistenza del suddetto pozzo, sebbene gli fosse stato detto che esso era coperto, pretese di ispezionarlo ugualmente e, fatta rimuovere la lamiera, infilò la sua testa nell'imboccatura, riuscendo così a udire i flebili lamenti di Alfredino. Si scoprì poi che il proprietario del terreno sovrastante aveva messo la lamiera sulla fessura intorno alle ore 21:00, senza minimamente immaginare che all'interno ci fosse intrappolato un bambino[5] e dopo che erano già iniziate le ricerche. Il proprietario del terreno, Amedeo Pisegna, abruzzese di Tagliacozzo, 44 anni, insegnante di applicazioni tecniche a Frascati, verrà in seguito arrestato con l’accusa di omicidio colposo e con l’aggravante della violazione delle norme di prevenzione degli infortuni.


I soccorsi

I soccorritori quindi si radunarono all'imboccatura del pozzo e vi calarono una lampada, tentando invano di localizzare il bambino. La prima stima rilevò che il bambino era bloccato a 36 metri di profondità e la sua caduta era stata arrestata da una curva o da una rientranza del cunicolo.


Le operazioni di soccorso si rivelarono subito estremamente difficili, in quanto la voragine presentava un'imboccatura larga 28 cm, una profondità complessiva di 80 metri e pareti irregolari e frastagliate, piene di sporgenze e rientranze. Giudicando impossibile calarvi dentro una persona, il primo tentativo di salvataggio consistette nel calare nell'imboccatura una tavoletta legata a corde, allo scopo di consentire al bimbo di aggrapparvisi per sollevarlo; tale scelta si rivelò un grave errore, in quanto la tavoletta si incastrò nel pozzo a 24 metri, ben al di sopra del bambino e non fu più possibile rimuoverla, poiché la corda che teneva la tavoletta si spezzò e di conseguenza il condotto ne risultò quasi completamente ostruito.[5] Attorno all'una di notte alcuni tecnici della Rai, allertati allo scopo, calarono nel budello roccioso un'elettrosonda a filo, per consentire ai soccorritori in superficie di comunicare col bambino il quale, almeno per il momento, rispondeva lucidamente.


Si pensò quindi di scavare un tunnel parallelo al pozzo, da cui aprire un cunicolo orizzontale lungo 2 metri, che consentisse di penetrare nella cavità poco sotto il punto in cui si supponeva si trovasse il bambino. Per far ciò occorreva una sonda di perforazione, che fu reperita alle ore 6:00 grazie alla disponibilità della ditta Tecnopali di Roma.


Alle ore 4:00 dell'11 giugno giunse sul posto un gruppo di giovani speleologi del Soccorso alpino, che si offrirono come volontari per calarsi nel sottosuolo. Il caposquadra, il ventiduenne Tullio Bernabei,[6] di corporatura sufficientemente magra, fu il primo a scendere nel pozzo e, calato a testa in giù, tentò di rimuovere la tavoletta che era rimasta incastrata. Tuttavia i restringimenti del pozzo gli consentirono di arrivare solo a un paio di metri da questa. Dopo di lui si calò un secondo speleologo, Maurizio Monteleone, ma anch'egli arrivò a pochissima distanza dalla tavoletta, non riuscendo a prenderla. Nel frattempo i Vigili del fuoco avevano incominciato a pompare ossigeno nel pozzo, allo scopo di evitare l'asfissia del bambino.


Il comandante dei Vigili del fuoco di Roma, Elveno Pastorelli, giunto nel frattempo sul posto, ordinò allora di sospendere i tentativi degli speleologi e concentrare gli sforzi nella perforazione del "pozzo parallelo". Una geologa lì presente, Laura Bortolani, ipotizzando i substrati di terreno molto duri che si sarebbero incontrati in profondità, fece notare a Pastorelli che sarebbe occorso un lungo tempo per la perforazione, e pertanto propose di proseguire anche con gli altri tentativi. Secondo Tullio Bernabei tale suggerimento sarebbe stato respinto da Pastorelli, il quale avrebbe ribadito il divieto di ulteriori discese, ordinando pertanto agli speleologi di sgomberare.


Alle ore 8:30 la sonda cominciò a scavare e il terreno si rivelò friabile riuscendo a scavare 2 metri in due ore; verso le 10:30 tuttavia, come previsto dalla Bortolani, venne intercettato uno strato di roccia granitica difficile da scalfire. Nel frattempo il bambino si lamentava per il forte rumore e alternava momenti di veglia a colpi di sonno e chiedeva da bere. Per spiegargli gli altissimi rumori e le forti scosse dei colpi che sentiva, e allo stesso tempo per rincuorarlo e confortarlo, gli venne comunicato che stava arrivando a salvarlo addirittura Jeeg Robot d'Acciaio.


Alle 10:30, per non interferire con le comunicazioni via etere dei soccorritori, la Rai e le stazioni radiofoniche laziali disattivarono i loro ponti radio in onde medie.


Verso le 13:00, su specifica richiesta dei soccorritori, arrivò sul posto un'altra perforatrice, più grande e potente della prima. All'incirca alla stessa ora andavano in onda le edizioni di mezza giornata del TG1 e del TG2: fu a questo punto che la Rai incominciò a occuparsi con vivo interesse del fatto (già affrontato con alcuni servizi trasmessi nei notiziari della notte precedente). Tra i primi a giungere sul posto vi fu l'inviato del TG2 Pierluigi Pini, il quale aveva visto per caso un appello su un'emittente televisiva privata laziale per il reperimento urgente di mezzi d'escavazione, decidendo pertanto di recarsi a Vermicino con una troupe.


Il giornalista Piero Badaloni affermò che il comandante Pastorelli aveva diramato la previsione che nel giro di poche ore la perforazione si sarebbe conclusa e l'operazione di salvataggio sarebbe andata a buon fine; per questa ragione il TG1 decise a sua volta di collegarsi con la troupe del TG2, auspicando di ricevere la ripresa del salvataggio in tempo reale.[5][8] Poco dopo anche il TG3 decise di unirsi alla cronaca diretta dei fatti, che di fatto proseguì "a reti unificate" appoggiandosi alla ridotta strumentazione del notiziario della seconda rete.


Il "tam-tam" mediatico alimentò la curiosità del pubblico: attorno al pozzo finì quindi per raccogliersi una folla di circa 10 000 persone e incominciarono ad arrivare anche venditori ambulanti di cibo e bevande. Probabilmente anche questo colossale assembramento (la zona non era transennata e chiunque poteva arrivare praticamente fino all'imboccatura della cavità) ebbe un ruolo rilevante nel rallentare la macchina dei soccorsi.


Intorno alle 16:00 entrò in azione una seconda perforatrice, più performante, dopo che la prima era riuscita a scavare un pozzo di 20 metri di profondità e 50 cm di diametro. I tecnici operatori di questa nuova macchina, a causa del sottosuolo duro e compatto, ipotizzarono non meno di 8-12 ore di lavoro per arrivare alla profondità richiesta.


Alle 18:22 il pozzo parallelo aveva raggiunto una profondità di 21 metri e lo scavo procedeva con difficoltà. Interpellato allo scopo, Evasio Fava, primario di rianimazione all'ospedale San Giovanni, si dedicò a controllare le condizioni di salute del bambino, che era affetto da una cardiopatia congenita in attesa di essere operata a settembre.


Alle ore 20:00 entrò in funzione un terzo impianto di perforazione, più piccolo e agile; al contempo fu calata nel pozzo una flebo di acqua e zucchero per tentare di dissetare il bambino. Ritenendo non più necessario lasciare libere le frequenze, le stazioni radio locali ripresero le trasmissioni in onde medie.[5][8]



Sandro Pertini con Elveno Pastorelli all'imboccatura del pozzo

Alle 21:30 si rese necessaria una pausa nella perforazione; alle 23:00 fu autorizzato a scendere nel pozzo un volontario, il manovale siciliano cinquantaduenne Isidoro Mirabella, dal fisico minuto e subito ribattezzato "l'Uomo Ragno". Egli però, a causa di ostacoli tecnici, non riuscì ad avvicinarsi a sufficienza al bambino anche se poté parlargli.[9]


Alle 7:30 del 12 giugno la perforatrice era scesa soltanto a 25 metri di profondità. Un'ora e mezzo dopo incontrò un terreno più morbido, che le consentì di accelerare la discesa; nel frattempo i soccorritori continuavano a parlare col bambino (che aveva cominciato a piangere dicendo di essere stanco) tramite l'elettro-sonda.


Alle 10:10 lo scavo parallelo era arrivato a una profondità di 30 metri e 5 centimetri e un ingegnere dei vigili del fuoco rivide al ribasso la stima della profondità cui si trovava il bambino: 32,5 m invece di 36. Si decise pertanto di accelerare i lavori e di incominciare immediatamente a scavare il raccordo orizzontale fra i due pozzi, prevedendo di sbucare un paio di metri sopra il bambino. Alle 11:00 giunse sul posto una scavatrice a pressione per scavare il tunnel di connessione, che tuttavia si bloccò poco dopo l'accensione. Tre vigili del fuoco incominciarono quindi a scavare a mano. Nel frattempo Alfredino aveva smesso di rispondere ai soccorritori, e i medici presenti sul posto, che ascoltavano il suo respiro, riferirono che stava peggiorando: 48 espirazioni al minuto.


Alle 16:30 giunse sul posto il Presidente della Repubblica Sandro Pertini, che si fece porgere il microfono per poter parlare con il bambino; l'arrivo del presidente (che si trattenne per tutta la serata e la notte, fino alle 7 di mattina dell'indomani[11]) fu altresì determinante nel convincere le redazioni dei telegiornali a non "staccare" la diretta.


Alle 19:00 il cunicolo orizzontale fu completato e il pozzo del bambino fu posto in comunicazione con quello parallelo, a 34 metri di profondità. Tuttavia, si dovette prendere atto del fatto che il bambino non era nelle vicinanze del foro appena aperto in quanto, probabilmente anche a causa delle vibrazioni causate dalla perforazione, era scivolato molto più in basso a una profondità imprecisata. Pastorelli richiamò gli speleologi e chiese a Bernabei di calarsi nel secondo pozzo: il soccorritore si affacciò quindi dal cunicolo orizzontale di raccordo e calò una torcia legata a una cimetta per calcolare la posizione del bambino, che risultò a circa una trentina di metri. In seguito si accertò che il bambino si trovava a circa 60 metri dalla superficie.


L'unica possibilità rimasta era la discesa di qualche volontario lungo il pozzo. Il primo a prestarsi fu uno speleologo, Claudio Aprile,[12] che tentò di introdursi nel pozzo artesiano dal cunicolo orizzontale; tuttavia, l'apertura di comunicazione si rivelò troppo stretta per permettere la calata e il giovane speleologo dovette desistere.



Angelo Licheri portato a braccia dopo essere riemerso dal tunnel

Un altro volontario, il tipografo d'origine sarda Angelo Licheri, piccolo di statura e molto magro, chiese ed ottenne allora di farsi calare nel pozzo originario per tutti i 60 metri di profondità.[13][14] Licheri, che volutamente rimase con indosso solo la canottiera e le mutande in modo da non riscontrare troppo attrito nello stretto tunnel, cominciò la discesa poco dopo la mezzanotte fra il 12 ed il 13 giugno; al fine di superare i vari ostacoli durante la discesa, attraverso i quali egli stesso temeva di rimanere incastrato a sua volta, più volte chiese di farsi tirare su per almeno un paio di metri in modo che chi teneva l'altro capo della fune la mollasse di colpo, cosicché Licheri poté sfondare i punti di ostruzione e riportando sul corpo delle notevoli ferite da taglio (ferite delle quali ancora oggi egli porta i segni). In questo modo riuscì ad avvicinarsi ed a dialogare con Alfredino, il quale però non riusciva più a parlare ed aveva iniziato ad emanare dei rantoli, segno di una respirazione che stava peggiorando. Prima di tutto, Licheri rimosse con le dita il fango dagli occhi e dalla bocca di Alfredino, dopodiché riuscì a liberargli le mani e le braccia che si erano postate dietro le anche; non riuscì però a disincastrarlo completamente, in quanto il bambino si presentava rannicchiato con le ginocchia che gli schiacciavano il petto. A questo punto, tentò di allacciargli l'imbracatura per tirarlo fuori dal pozzo, ma per ben tre volte l'imbracatura s'aprì; tentò allora di prenderlo di forza prima sotto le ascelle e poi per le braccia, ma il bambino continuava a scivolare per via del fango che lo ricopriva. Per di più, involontariamente gli spezzò anche il polso sinistro. In tutto, Licheri rimase a testa in giù 45 minuti, contro i 25 considerati soglia massima di sicurezza in quella posizione.[15][16] Resosi conto dell'impossibilità di liberare il bambino in quella posizione innaturale, anche Licheri s'arrese e ritornò in superficie senza Alfredino, non prima di avergli mandato un bacio. Uscito dal pozzo, Licheri, ricoperto di fango e con delle evidenti e profonde ferite, venne coperto con una coperta e trasportato d'urgenza in ospedale, impossibilitato a reggersi in piedi; riuscì a riprendersi alcune settimane dopo.


Dopo Licheri cominciarono ad offrirsi vari altri volontari, fra cui nani, esperti di pozzi e persino un contorsionista circense soprannominato "Denis Rock". Intorno alle ore 3:00, venne imbracato per un altro tentativo Pietro Molino, un ragazzo di 16 anni originario di Napoli, anch'egli di corporatura esile e giunto sul posto accompagnato da un cugino; quando si scoprì che era minorenne e privo del diretto consenso dei genitori, i quali solo loro avrebbero potuto dare il permesso per farlo scendere nel pozzo, il ragazzo venne fermato dal magistrato presente sul posto.


La morte

Verso le 5:00 del mattino ebbe inizio il tentativo di un altro speleologo, il ventiduenne abruzzese Donato Caruso di Avezzano.[17] Anch'egli raggiunse il bambino e provò a imbracarlo, ma le fettucce da contenzione psichiatrica che aveva usato e che avrebbero dovuto assicurare una sorta di effetto cappio, scivolarono via al primo strattone. Caruso si fece ritirare su fino al cunicolo di collegamento, dove si fermò per riposare e poi ritentare. Effettuò altri tentativi con delle manette, metodo molto più rischioso anche per il soccorritore perché queste erano legate alla stessa sua corda di sicurezza. Alla fine, anche Caruso tornò in superficie senza esser riuscito nell'intento, riportando inoltre la notizia della probabile morte del bambino.


Dopo che la signora Franca chiamò per molte volte invano il figlio, verso le 9:00 del 13 giugno venne calato nel pozzo uno stetoscopio, al fine di percepire il battito cardiaco del bambino. Non registrando nulla, verso le ore 16:00 venne calata nella buca una piccola telecamera fornita da alcuni tecnici della Rai, che a circa 55 metri individuò la sagoma immobile di Alfredino, che non si muoveva più né tantomeno respirava. Fatta la dichiarazione di morte presunta, per assicurare la conservazione del corpo, il magistrato competente ordinò che fosse immesso nel pozzo del gas refrigerante (azoto liquido a −30 °C). Il cadavere fu poi recuperato da tre squadre di minatori della miniera di Gavorrano l'11 luglio seguente, 28 giorni dopo la morte del bambino.


I funerali si svolsero venerdì 17 luglio 1981 nella Basilica di San Lorenzo fuori le mura; la salma venne trasportata da quegli stessi volontari che tentarono di salvarlo, fra cui Angelo Licheri e Donato Caruso. Alfredino oggi riposa presso il Cimitero del Verano di Roma.