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29 novembre, 2020

È morto don Antonio Maffucci: ha insegnato religione per oltre vent’anni

 È morto don Antonio Maffucci: ha insegnato religione per oltre vent’anni



a Diocesi di Grosseto comunica che nel pomeriggio di domenica 29 novembre la salma di don Antonio Maffucci, deceduto all’alba di ieri all’ospedale di Guastalla, sarà trasferita nella Pieve di San Valentino, a Reggio Emilia, dove resterà esposta fino alla mattina di mercoledì 2 dicembre. In tale data il feretro raggiungerà la cattedrale di Reggio Emilia, dove alle 15 il vescovo Massimo Camisasca presiederà la santa Messa esequiale. Dopo il funerale, la tumulazione avverrà nel cimitero di San Valentino.

La Diocesi di Grosseto commemorerà don Maffucci con una celebrazione, di cui nei prossimi giorni saranno stabiliti data, orario e luogo. Appena definiti, sarà data pronta comunicazione.

Questa mattina, alle prime luci dell’alba, all’ospedale di Guastalla (Reggio Emilia), è deceduto don Antonio Maffucci, sacerdote della fraternità sacerdotale dei missionari di San Carlo Borromeo.

Il decesso è avvenuto per infezione da covid-19.

Don Antonio era stato ricoverato all’ospedale di Reggio Emilia il 2 novembre scorso, per un’infezione – in stadio piuttosto avanzato – da coronavirus. Subito intubato, aveva avuto un lieve miglioramento che faceva sperare in una possibilità di ripresa. Trasferito all’ospedale di Guastalla, la situazione è di nuovo precipitata e il sacerdote è deceduto questa mattina poco dopo le 5. Durante la degenza è stato assistito da un confratello, che ha potuto amministrargli il sacramento del perdono e l’unzione degli infermi nei primi giorni dal ricovero ospedaliero.

Le esequie, presiedute da mons. Massimo Camisasca, vescovo di Reggio Emilia-Guastalla e fondatore della Fraternità dei missionari di San Carlo Borromeo, dovrebbero tenersi mercoledì 2 dicembre a Reggio Emilia.

71 anni, don Antonio era nato a Milano, aveva frequentato il seminario a Bergamo ed era sacerdote da 41 anni. Aveva fatto parte del nucleo originario di preti che con don Camisasca dettero vita all’esperienza della Fraternità di San Carlo Borromeo, società di vita apostolica per formare dei giovani alla missione e per rispondere al mandato che, nel settembre 1984, Giovanni Paolo II aveva consegnato a Comunione e liberazione, in occasione dell’udienza per il trentennale della nascita del movimento: “Andate in tutto il mondo – aveva detto il Papa – a portare la verità, la bellezza e la pace che si incontrano in Cristo redentore”.

Il nome di don Maffucci è legato alla storia recente della diocesi di Grosseto, dove arrivò nei primissimi anni ’90 insieme ai primi sacerdoti della Fraternità (don Anastasio, don Onofrio), chiamati dall’allora vescovo Scola. Il suo inserimento, fin da subito, è stato nella scuola. Per oltre vent’anni è stato insegnante di religione al liceo classico “Carducci-Ricasoli” e al liceo scientifico “Marconi”, tirando su la prima generazione di Gs (Gioventù studentesca), ramo studentesco del movimento di Comunione e Liberazione, coinvolgendo i ragazzi in numerose iniziative. Da quella prima esperienza sono maturate anche alcune vocazioni sacerdotali di giovani grossetani che oggi, preti della Fraternità dei missionari di San Carlo, operano in varie parti del mondo.

In Diocesi ha prestato la sua opera anche in alcune parrocchie (Pian d’Alma-Punta Ala, San Giuseppe e Rispescia) e fra il 2009 e il 2012 è stato esorcista diocesano.

Maturata l’età della pensione, ha chiesto di lasciare Grosseto e di raggiungere Reggio Emilia, nella diocesi retta da don Camisasca. Lì ha vissuto gli ultimi anni della sua vita.

Chi ne tratteggia un ricordo a tuttotondo è don Gianni Malberti, parroco di Castiglione della Pescaia e suo confratello tra i missionari di San Carlo. “Ho conosciuto don Antonio – dice – negli anni del seminario a Bergamo e la nostra vita si è intrecciata per sempre. Insieme abbiamo fatto parte del nucleo di sacerdoti che fin da principio hanno aderito alla Fraternità di San Carlo e poi ci siamo ritrovati in Maremma, dove Antonio ha fatto da apripista. Era un uomo molto generoso ed entusiasta del suo essere prete. Due le sue caratteristiche peculiari: l’attenzione che sapeva prestare alla singola persona, interessandosi della sua vita e il suo spirito ‘zingaresco’. Era difficile tenerlo fermo in un posto, per la frenesia del fare che ne faceva una sorta di ‘girovago della fede’, ma sempre molto disponibile ai bisogni di questa Chiesa diocesana”.

Ricordiamo fin d’ora don Antonio al Signore per il suo zelo e per tutto il bene che ha compiuto anche nella nostra Diocesi di persona, nella scuola, con i giovani, con i sofferenti, con Comunione e liberazione. Il Signore gli dia pace”, dice il vescovo Rodolfo, che questa mattina ha portato telefonicamente le condoglianze della Chiesa di Grosseto al superiore generale della Fraternità di san Carlo, don Paolo Sottopietra.



27 novembre, 2020

Venerdì 27 novembre 2020: Il silenzio, spazio per l'ascolto


La parola del vescovo Massimo di Venerdì 27 novembre 2020


Vita di don Antonio Maffucci (FSCB)


 

«Comprendo sempre di più che la sorgente della mia missione è essere parte di Lui, entrare in Lui, dentro di Lui. È il motore della passione per ogni uomo e per la sua Chiesa, altrimenti il rischio è quello dell’attivismo. Il Beato Rolando Rivi, nel momento culminante del suo martirio, ha gridato: “Io sono di Gesù”». Con queste parole, poco più di anno fa, don Antonio Maffucci concludeva il messaggio di saluto che aveva voluto mandare, in occasione dei suoi settant’anni, ai suoi amici e alle tante persone che gli volevano bene. In quelle parole è condensata la sua vita di prete e di missionario.

Era nato 08 ottobre nel 1949 a Milano e aveva abitato in zona San Siro, fino alla decisione di entrare nel Seminario missionario di Bergamo. Ordinato sacerdote il 24 giugno 1979 a Roma, in piazza San Pietro, da san Giovanni Paolo II, don Antonio ha cominciato in Abruzzo, a Pescara, il suo lungo viaggio a servizio di Cristo e della Chiesa d’Italia, facendo il viceparroco e l’insegnante. Si è poi trasferito a Roma, con l’incarico di viceparroco nella parrocchia santa Margherita Maria Alacoque, a Tor Vergata e insegnante di religione nei licei romani. Don Antonio faceva parte di quel gruppo di sacerdoti provenienti dal Seminario di Bergamo che, assieme a monsignor Massimo Camisasca, il 14 settembre del 1985 ha dato vita alla Fraternità San Carlo, realtà oggi presente in venti Paesi del mondo.

Nel 1992 è stato destinato da monsignor Camisasca alla diocesi di Grosseto, dove è rimasto fino al 2016, ricoprendo gli incarichi di parroco, viceparroco e responsabile della pastorale scolastica della diocesi. Ma la sua passione è sempre stata l’insegnamento della religione nelle scuole superiori, incarico grazie al quale ha incontrato tantissimi ragazzi, alcuni dei quali, attraverso l’incontro con lui, hanno potuto fare per la prima volta un’esperienza cristiana ed altri hanno fatto il primo passo verso la scoperta della propria vocazione sacerdotale.
Dal 2017 era collaboratore dell’unità pastorale “Madonna di Campiano” di Castellarano, in diocesi di Reggio Emilia-Guastalla, e viveva presso la Pieve di San Valentino dove sono custoditi il corpo e la memoria del Beato Rolando Martire.

Nel pomeriggio di domenica 29 novembre la salma di don Antonio sarà trasferita nella Pieve di San Valentino, dove resterà esposta fino alla mattina di mercoledì 2 dicembre. In tale data il feretro raggiungerà la Cattedrale di Reggio Emilia, dove alle ore 15 il vescovo Camisasca presiederà la santa Messa esequiale. Dopo il funerale, la tumulazione avverrà nel cimitero di San Valentino (Castellarano).

 

RICORDO DI DON ANTONIO MAFFUCCI

+ Massimo Camisasca

Ho conosciuto Antonio Maffucci nei lontanissimi anni 1967 o 1968. Io ero stato appena nominato responsabile per la città di Milano dei giovani di Azione Cattolica. Provenivo dall’esperienza di GS vissuta intensamente accanto a don Giussani. Iniziai a girare le parrocchie della città. A Quinto Romano, una comunità a Nord di Milano, accanto al quartiere di san Siro, trovai un gruppo di giovani guidati da un bravissimo sacerdote, don Giampiero Baldi, accompagnato da un diacono, don Giacomo Tantardini. Tra quei giovani spiccava Antonio Maffucci. Aveva 3 anni meno di me, ma quando sì è giovani le differenze di età sembrano più marcate. Era un operaio della Siemens in un tempo di grandissime lotte operaie. In quella fabbrica lavorava Renato Curcio e si formarono i primi germi delle Brigate Rosse.

Nelle settimane e nei mesi successivi mi trovai Antonio come “incollato” alla mia vita. I suoi genitori venivano da Calitri, un paesino dell’Irpinia. Da quel popolo Antonio ereditò una rocciosità di carattere che ha mantenuto tutta la vita e una certa abitudine alla soditarietà che lo ha sempre accompagnato.

Dopo il periodo militare ci trovammo assieme a Bergamo, nel 1974, nel seminario della Comunità Paradiso dove io diventai prete nel 1975 e lui nel 1979, ordinato a Roma da Giovanni Paolo II. La sua prima missione fu a Pescara. Abitava presso una famiglia. Don Giussani, che aveva concordato con i superiori della Comunità Paradiso questa sua prima destinazione missionaria, voleva dare un prete a quella diocesi per l’amicizia con il vescovo Iannucci e ritenendo Antonio troppo giovane, lo fece custodire dalla famiglia Marcucci.

Antonio era un tornado. Stabiliva rapporti con decine e decine di giovani e con un numero imprecisato di famiglie che avrebbe poi continuato a seguire per tutta la vita assieme a quelle conosciute negli anni di Bergamo. Questa è stata una caratteristica fondamentale della sua vita. Ha sempre avuto un’automobile Alfa Romeo, prevalentemente una Alfa 75 rossa, sempre un po’ scassata, sempre con le bombole a gas per risparmiare. Inseguiva gli amici in ogni parte d’Italia. Io sostenevo che egli era l’inventore di una nuova religione che chiamavo “maffuccianesimo”, la religione dell’essere dovunque, e avevo inventato questa battuta: “Dio è dovunque. Maffucci ci è già stato”.

Quando don Giacomo Tantardini divenne parroco a Roma nel quartiere Tor Vergata, dove sarebbe sorta l’Università, lo volle come viceparroco. Maffucci da Pescara si trasferì a Roma. Quand’era a Pescara ci vedevamo raramente, talvolta a metà strada in un autogrill autostradale. A Roma, invece, la frequenza divenne assidua. Nel frattempo era nata la Fraternità san Carlo. In sei preti provenienti tutti dalla Comunità missionaria del Paradiso, fondammo – il 14 settembre 1985 -quella che sarebbe diventata una Società di Vita Apostolica diffusa in tutto il mondo. Maffucci era naturalmente tra quei 6.

Nel 1991 don Angelo Scola divenne vescovo di Grosseto e volle una casa della San Carlo affidandole una parrocchia a Punta Ala. Maffucci ne divenne il parroco. Contemporaneamente continuò il suo insegnamento di religione nei licei che a poco a poco lo assorbì interamente. Lasciò la parrocchia errando di casa in casa, come d’altra parte aveva sempre fatto. Un’apolide di Dio che non ha mai avuto sosta. Temevo sempre di svegliarmi di notte al suono del telefono dove una voce mi annunciava che Antonio era morto per un incidente automobilistico. Invece non accadde mai. Intanto intorno a lui, oltre agli studenti, si andava radunando una folla di uomini e donne bisognosi di preghiere. Cominciarono i viaggi a Međugorje e in tanti santuari. Si approfondì la sua confidenza con Maria, la Madre di Dio, e con le apparizioni mariane. Divenne il padre spirituale di un numero imprecisato di persone che nessuno di noi conosceva e che a poco a poco costituirono la sua nuova famiglia.

Diventato io vescovo di Reggio Emilia-Guastalla e andato lui in pensione dalla scuola lo chiamai, nel 2017, a custodire il tesoro del martirio del beato Rolando Rivi diventando rettore del santuario di San Valentino. A lui si devono molte delle iniziative di questi tre anni. 

In questo periodo incontra Alleanza Cattolica e il messaggio controrivoluzionario. Grazie a lui l’associazione organizza presso il Santuario diversi incontri, fra i quali in particolare quello del 12 maggio 2019 sul tema “L’unica Europa possibile attraverso il passato e il presente della nazione polacca”, che vede, peraltro, la partecipazione dello scrittore e vaticanista polacco Wlodzimierz Redzioch.

Lascia come “testamento spirituale” quanto scritto ad amici e conoscenti un anno prima, in occasione del suo settantesimo compleanno: «L’8 ottobre per me è un giorno dove non si può che ringraziare per il dono della vita. Potevamo non esserci…e non ho fatto nulla per essere dentro questa immensa realtà! Esisto ed esistiamo non come una delle tante cose, ma come persona, con la libertà, la volontà e l’intelligenza. ‘Chiamati’ nella vita. Questa è la cosa grande che ad un certo punto si scopre e si capisce. Non un semplice esserci, un esserci inconsapevole, inconscio, ma con la coscienza di essere persone! E la caratteristica dell’esserci come ‘persona’ porta alla scoperta della vita come responsabilità, chiamati per nome a ‘rispondere’. E’ vertiginoso. Un compito!!! Questo vuol dire riconoscere un autore del tutto che ci invita ad essere collaboratori della sua creazione. Per me l’avvenimento cristiano, con il suo apice che è l’Incarnazione – il Dio che si fa uomo come noi (Verbum caro factum est) – è stato ciò che mi ha permesso di comprendere e capire la grandezza e la bellezza della vita e soprattutto scoprire il mio essere voluto e amato, proprio nel potere essere parte di una storia. Una storia dove ha potuto prendere forma quella modalità con cui sono stato chiamato a vivere la ‘responsabilità’, che è la caratteristica fondamentale dell’esistenza: il Sacerdozio”.


Ora il Covid, improvvisamente, lo ha portato via dalla nostra vista, ma non dal nostro affetto e, soprattutto, gli ha concesso di godere nella gioiosa comunione con Dio e con i santi quella pace che il suo cuore cercava.


È Morto don Antonio Maffucci, rettore del Santuario di San Valentino. Il ricordo del Vescovo

 È Morto don Antonio Maffucci, rettore del Santuario di San Valentino. Il ricordo del Vescovo


NEL GIORNO DEDICATO ALLA MEDAGLIA MIRACOLOSA



Pensiero del 27 novembre 2020

don Antonio Maffucci FSCB 

 ✝


Accogli nella tua dimora eterna, o Signore il tuo umile servo 


“Guardate il fico e tutte le piante; quando già germogliano, guardandoli capite da voi stessi che ormai l’estate è vicina. Così pure, quando voi vedrete accadere queste cose, sappiate che il regno di Dio è vicino”.

Gesù sembra dare la chiave di lettura per discernere la sua venuta. E per farlo usa l’immagine del fico. È una scelta familiare per chi lo ascolta, ma è anche la pianta che germoglia e porta frutto senza passare attraverso la fioritura. Il fico non ha nessuna apparente bellezza, ma produce frutti buonissimi. È così anche per il legno della croce, per quell’esperienza che Gesù è venuto ad inaugurare: non ha nessuna bellezza apparente, eppure è l’unica che porta frutti veri e duraturi.

C’è una particolare insistenza di Gesù nell’aprire gli occhi, nel vedere, nell’accorgersi. L’ultimo miracolo che ha compiuto prima di queste parole riguarda proprio la guarigione del cieco. Luca sembra suggerire che la fede ci aiuta a guardare finalmente le cose per ciò che sono e non per ciò che a noi appaiono. Vedere la verità di qualcosa ci dispone anche a fare delle scelte conseguenti.

Ma a noi piace sempre pensare che non toccano a noi le scelte, ma a qualcuno altro, magari al successivo. Pensiamo, ad esempio, che non riguarda noi il problema della terra ferita, delle guerre irrisolte, delle situazioni di ingiustizia. Pensiamo sempre che ciò che conta, e con ciò anche la possibilità di fare i conti, riguardi altri.

Ma Gesù è chiaro: “In verità vi dico: non passerà questa generazione finché tutto ciò sia avvenuto. Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno”. Siamo noi la generazione a cui Gesù sta rivolgendo questo invito.

Ogni uomo e ogni epoca si ritrova rivolta questa Parola che gli è costantemente contemporanea. Il Vangelo riguarda sempre il presente e non un futuro prossimo o remoto. Gesù mi parla oggi e chiede che nell’oggi io faccia la differenza.

Allora se non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire, non c’è peggior cieco di chi non distoglie lo sguardo da ciò che c’ha davanti.

27 Novembre

Ecco la dimora di Dio con gli uomini!


 Risollevatevi e alzate il capo,
perché la vostra liberazione è vicina. 

(Luca 21, 28)

Salmo Responsoriale dal Salmo 83 84

 Ecco la dimora di Dio con gli uomini!

L'anima mia anela
e desidera gli atri del Signore.
Il mio cuore e la mia carne
esultano nel Dio vivente. 

Anche il passero trova una casa,
e la rondine il nido dove porre i suoi piccoli,
presso i tuoi altari, Signore degli eserciti,
mio re e mio Dio. 

Beato chi abita nella tua casa:
senza fine canta le tue lodi.
Beato l'uomo che trova in te il suo rifugio:
cresce lungo il cammino il suo vigore. 

Ma riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino ai confini della terra.

(Atti degli Apostoli 1,8)


REQUIEM AETERNAM
Réquiem aetérnam dona eis, Dómine,
et lux perpétua lúceat eis.
Requiéscant in pace. Amen.

L'ETERNO RIPOSO
L'eterno riposo dona a don Antonio, o Signore,
e splenda a Lui la luce perpetua.
Riposi in pace. Amen.





31 ottobre, 2020

31Ottobre 2020 - La notte dei Santi, gli uomini veri


31 Ottobre 2020 - La notte dei Santi, gli uomini veri

31 Ottobre 2020


31 Ottobre 2020 


Il TEDEUM ITALIANO LATINO
Noi ti lodiamo, Dio *
ti proclamiamo Signore.
O eterno Padre, *
tutta la terra ti adora.
A te cantano gli angeli *
e tutte le potenze dei cieli:
Santo, Santo, Santo *
il Signore Dio dell'universo.
I cieli e la terra *
sono pieni della tua gloria.
Ti acclama il coro degli apostoli *
e la candida schiera dei martiri;
le voci dei profeti si uniscono nella tua lode; *
la santa Chiesa proclama la tua gloria,
adora il tuo unico figlio, *
e lo Spirito Santo Paraclito.
O Cristo, re della gloria, *
eterno Figlio del Padre,
tu nascesti dalla Vergine Madre *
per la salvezza dell'uomo.
Vincitore della morte, *
hai aperto ai credenti il regno dei cieli.
Tu siedi alla destra di Dio, nella gloria del Padre. *
Verrai a giudicare il mondo alla fine dei tempi.
Soccorri i tuoi figli, Signore, *
che hai redento col tuo sangue prezioso.
Accoglici nella tua gloria *
nell'assemblea dei santi.
Salva il tuo popolo, Signore, *
guida e proteggi i tuoi figli.
Ogni giorno ti benediciamo, *
lodiamo il tuo nome per sempre.
Degnati oggi, Signore, *
di custodirci senza peccato.
Sia sempre con noi la tua misericordia: *
in te abbiamo sperato.
Pietà di noi, Signore, *
pietà di noi.
Tu sei la nostra speranza, *
non saremo confusi in eterno.
TE DEUM
Te Deum laudámus: * te Dóminum confitémur.
Te ætérnum Patrem, * omnis terra venerátur.
Tibi omnes ángeli, *
tibi cæli et univérsæ potestátes:
tibi chérubim et séraphim *
incessábili voce proclamant:
Sanctus, * Sanctus, * Sanctus *
Dóminus Deus Sábaoth.
Pleni sunt cæli et terra * maiestátis glóriæ tuae.
Te gloriósus * Apostolórum chorus,
te prophetárum * laudábilis númerus,
te mártyrum candidátus * laudat exércitus.
Te per orbem terrárum *
sancta confitétur Ecclésia,
Patrem * imménsæ maiestátis;
venerándum tuum verum * et únicum Fílium;
Sanctum quoque * Paráclitum Spíritum.
Tu rex glóriæ, * Christe.
Tu Patris * sempitérnus es Filius.
Tu, ad liberándum susceptúrus hóminem, *
non horruísti Virginis úterum.
Tu, devícto mortis acúleo, *
aperuísti credéntibus regna cælórum.
Tu ad déxteram Dei sedes, * in glória Patris.
Iudex créderis * esse ventúrus.
Te ergo, quæsumus, tuis fámulis súbveni, *
quos pretióso sánguine redemísti.
ætérna fac cum sanctis tuis * in glória numerári.
Salvum fac pópulum tuum, Dómine, *
et bénedic hereditáti tuæ.
Et rege eos, * et extólle illos usque in ætérnum.
Per síngulos dies * benedícimus te;
et laudámus nomen tuum in sæculum, *
et in sæculum sæculi.
Dignáre, Dómine, die isto *
sine peccáto nos custodíre.
Miserére nostri, Dómine, * miserére nostri.
Fiat misericórdia tua, Dómine, super nos, *
quemádmodum sperávimus in te.
In te, Dómine, sperávi: *
non confúndar in ætérnum.

07 ottobre, 2020

Messaggio di don Antonio Maffucci FSCB

 Messaggio di don Antonio Maffucci FSCB

“Carissimi, oggi, festa della Beata Vergine Maria del Rosario, ho iniziato a scrivervi per condividere con voi la particolare giornata di domani, 8 ottobre.

“L’8 ottobre 1949 per me è un giorno dove non si può che ringraziare per il dono della vita. Potevamo non esserci … e non ho fatto nulla per essere dentro questa immensa realtà.

“Esisto, ed esistiamo, non come una delle tante cose, ma come persona, con la libertà, la volontà, l’intelligenza. Chiamati nella vita. Questa è la cosa grande che a un certo punto si scopre e si capisce. Non un semplice esserci, un esserci inconsapevole, inconscio, ma con la coscienza di essere persone. E la caratteristica di esserci come “persona” porta alla scoperta della vita come responsabilità, chiamati per nome a “rispondere”: è vertiginoso. Un compito!!! Questo vuol dire riconoscere un Autore del tutto che ci invita ad essere collaboratori della sua creazione.

“Per me l’avvenimento cristiano, con il suo apice che è – il Dio che si fa uomo come noi (Verbum caro factum est) – è stato ciò che mi ha permesso di comprendere e capire la grandezza e la bellezza della vita e soprattutto scoprire il mio essere voluto e amato, proprio nel poter essere parte di una storia. Una storia dove ha potuto prendere forma quella particolare modalità con cui sono stato chiamato a vivere la responsabilità, che è la caratteristica fondamentale dell’esistenza, il sacerdozio (1979 – 2020 = 41 anni di sacerdozio).


Un anno difficile, ma ricco di doni –“Quest’ultimo anno è stato, come per tutti, un anno difficile, faticoso, pieno di disagi, di blocchi, di rapporti e di percorsi interrotti e il più delle volte persi. Celebrazioni annullate, Santa Eucaristia resa impossibile … un anno tremendo e molto complesso. Personalmente ho fatto di tutto per continuare a seguire le persone, a volte con grande fatica e molte difficoltà, ma con la consueta passione e dedizione.

“Devo comunque riconoscere che, in questo tempo, mi sono stati dati doni particolari e ci sono state aperture impensabili, per una comprensione e conoscenza di questo tempo e del Mistero che ci avvolge, veramente unici. Anche attraverso questi particolari doni mi rendo conto che sono chiamato a rivedere e ripensare a molte cose di tutta la mia vita, compreso il mio essere chiamato al sacerdozio: un tempo di grande conversione. Umilmente devo riprendere il tutto con forza e coraggio.

“Quello che vivo, e come lo vivo, non basta più. Questo deve essere un tempo di grande silenzio, per essere sempre più profondamente in ascolto di Lui (che mi è sempre più intimamente presente e vicino, con la forza del suo amore), per vivere sempre più nella sua volontà e per la sua gloria. Un tempo di grande trasformazione. Un nuovo inizio, in un profondo silenzio, senza clamore, potente e discreto.

“Questo primo anno, che segue gli altri 70, ha mostrato, in modo impensabile e totalmente imprevisto (soprattutto da gennaio in avanti e nella sua ultima parte), una possibilità di un nuovo inizio. Altra grande ragione per ringraziare.
Il Signore ci vuole una cosa sola con Lui – “Per tutto ciò devo ringraziare per primi papà Giuseppe e mamma Margherita, con tutta la mia famiglia, i parenti e poi tutte le realtà, le persone che mi hanno aiutato e sostenuto in tutti questi anni. Prego per tutti coloro che ho incontrato e conosciuto. L’elenco è lunghissimo: Milano, Sant’Elena, Quinto Romano, Baggio, Dergano, l’incontro con la realtà nata da don Luigi Giussani, la Lombardia, la Brianza, Bergamo con il seminario, la comunità missionaria del Paradiso, l’Abruzzo, Pescara, Roma, Tor Vergata, le Cappellette, il Lazio, Grosseto, la Toscana, la Campania, le Marche, il Veneto, il Trentino, i molti monasteri e santuari che hanno costellato il mio cammino, Loreto, Montichiari, Civitavecchia, Medjugorje. Vorrei ricordare tutto e tutti, ma non è proprio possibile!

Ora evidenzio il grande dono della Fraternità Sacerdotale San Carlo, di cui sono parte sin dall’inizio. Infine ringrazio per essere stato chiamato in questi ultimi anni al Santuario del Beato Rolando Rivi, seminarista martire (morto dicendo “Io sono di Gesù”), nella Diocesi di Reggio Emilia – Guastalla, dal Vescovo Massimo, che ha aperto un ulteriore orizzonte di esperienza e conoscenza nel grande avvenimento di Cristo nella storia.

Il Signore ci vuole una cosa sola con Lui– Dio uno e trino – salvi, liberi dal male, dal maligno, costruttori della civiltà dell’amore e della verità, attraverso l’intercessione di Maria, madre di Dio e madre nostra, corredentrice, con l’ausilio di tutti i santi, i beati, gli angeli e gli arcangeli.

Tutto sia secondo la sua volontà e per la sua gloria. Vi chiedo sostenetemi in questo nuovo inizio intravvisto, a cui mi sento sollecitato. Profondamente uniti nella preghiera”.

don Antonio Maffucci (FSCB)


Padre Pio e il suo papà - 07 ottobre


29 settembre, 2020

Don Ubaldo Marchioni

Marchioni Ubaldo, da Augusto e Antonietta Smerigli; nato il 19 maggio 1918 a Vimignano (Grizzana). Nel 1943 residente a S. Martino (Marzabotto). Parroco. «Intelligente e pieno di volontà e di amor proprio» come testimoniò Anna Morandi sua prima insegnante, dopo aver frequentato le prime tre classi elementari a Vimignano completò il ciclo delle elementari recandosi tutte le mattine a Riola (Vergato) e alternando allo studio il lavoro nei campi. «Magro, lentigginoso, mansueto» come lo definì il suo parroco don Paolo Marocci, ben presto maturò la sua vocazione sacerdotale e nel 1930 entrò nella sede distaccata del Seminario arcivescovile di Borgo Capanne (Granaglione); poi completò il diaconato a Bologna a Villa Revedin; nel 1942 fu ordinato sacerdote. Il 29 giugno dello stesso anno cantò la sua prima messa a Vimignano. Nel marzo 1943 fu nominato vicario cooperatore di don Augusto Castelli nella parrocchia di Monzuno ed ebbe la cura delle anime di San Nicolo della Gugliara (Monzuno), una piccola parrocchia di 200 anime che cercò di conquistare «con il silenzio e l’umiltà». Dal padre, don Ubaldo aveva ereditato la scarsa loquacità e anche la capacità di porsi al servizio degli altri. Dopo l’8 settembre 1943, soccorse i soldati sbandati e aiutò a mettere in salvo le scorte alimentari. Sul finire dell’ottobre 1943 presso la sagrestia della chiesa di Vado (Monzuno), si tenne una delle prime riunioni per la costituzione della brg Stella rossa Lupo alla quale parteciparono il parroco don Eolo Cattani, Mario Musolesi, Olindo Sammarchi, Leonildo Tarozzi, Giorgio Fanti e lo stesso don Ubaldo. Venne deciso di organizzare una cooperativa di consumo per fronteggiare le esigenze della popolazione meno abbiente e sostanzialmente fu sancita la nascita della formazione partigiana. A seguito della revisione dei confini parrocchiali del gennaio 1944, il cardinale Nasalli Rocca il 27 febbraio 1944 decise di affidare a don Marchioni la cura delle anime della parrocchia di San Nicolo della Gugliara, ma don Ubaldo chiese ed ottenne la parrocchia di San Martino (Marzabotto) di cui prese possesso il 23 marzo 1944, mentre la nomina ufficiale venne ratificata il 17 maggio 1944. Fra don Marchioni e i suoi parrocchiani si stabilì un clima di cooperazione e di solidarietà dovuto anche alla gravità della situazione.

I legami con la brg Stella rossa Lupo, che operava nella zona, s’intensificarono; i partigiani erano suoi figli «da aiutare, proteggere, sostenere» anche se non approvò le forme di lotta fratricida che innescavano le rappresaglie. Per questo suo legame con i partigiani fu definito dai nazifascisti «il grande partigiano». Settembre 1944. Don Ubaldo nonostante le voci di imminenti rappresaglie e i suoi timori, decise di non abbandonare la sua gente. Il 29 settembre 1944, allo scatenarsi della rappresaglia, dopo aver celebrato messa a San Martino di Caprara, decise di portarsi a Cerpiano, passando per Santa Maria di Casaglia (Marzabotto).
La chiesa era stipata di persone. Si fermò con loro e dopo la somministrazione della Comunione, incominciò a recitare il Rosario. I nazifascisti, sfondata la porta della chiesa, ingiunsero ai presenti di portarsi verso il cimitero e negarono a don Ubaldo di seguire i suoi parrocchiani. Venne fucilato sulla predella dell’altare maggiore. Poi, devastata la chiesa, la incendiarono. Tre giorni dopo i tedeschi diedero il permesso di tumularlo con la sua gente nella fossa comune. La madre e la sorella Marta furono uccise il 30 settembre 1944 a S. Martino. Riconosciuto partigiano, con funzione di cappellano militare della brg Stella rossa Lupo dal 2 febbraio 1944 al 29 settembre 1944. [AQ] Fonte: L. Gherardi, Le Querce di Monte Sole, pp. 163-197. [AP]

A Vimignano di Grizzana - un borghetto ai piedi di Montovolo - nasce don Ubaldo il 19 maggio 1918. Fin da piccolo ama aiutare il parroco come chierichetto sia in chiesa che nelle visite alle famiglie. Anche in casa è servizievole e si presta volentieri per tagliare la legna e per aiutare nei lavori dei campi. A soli dodici anni entra in seminario e il 29 giugno 1942 canta la prima messa. Viene mandato subito a Monzuno, come cappellano, e solo nel giugno del 1944 viene insediato come parroco a San Martino. Nella canonica, viene raggiunto dal papà Augusto, dalla mamma Antonietta e dalla sorella minore Marta. Sono giorni nei quali si fanno più frequenti i combattimenti sia in pianura sia sulla montagna, ma il cuore di don Ubaldo è pieno di quella fede che allieta il cuore dei giusti. Egli inizia il suo ministero con grande slancio e devozione. Trova nella maestra Antonietta Benni e in suor Maria Fiori, da poco sfollata presso i suoi familiari, un valido aiuto, specialmente per il catechismo ai ragazzi. Ai primi di settembre si riescono infatti a celebrare le prime comunioni con una certa solennità. Instancabile, don Ubaldo cerca di visitare tutti, e proprio in quei giorni riesce a raggiungere in bicicletta il suo paese nativo per incontrare la sorella maggiore Maria e lo zio cappuccino padre Mauro. È al cuore dello zio che don Ubaldo affida tutte le ansie e le preoccupazioni per la sorte della sua gente e anche per la sua incolumità, ma in lui è ben radicato il fermo proposito di non abbandonare il suo gregge. Le truppe tedesche, come sappiamo, accerchiano intanto come in una morsa tutta la zona di Monte Sole. I partigiani colti di sorpresa, dopo una dura battaglia, perdono molti compagni, compreso il loro comandante Mario Musolesi, detto “Lupo”. Alcuni riescono a fuggire, ma il preciso disegno militare volto, non solo a sgominare la Stella Rossa, ma a “liberare” un’area strategica dalla presenza umana, con l’aggiunta della mentalità violenta delle forze naziste, si ritorce sulla popolazione indifesa.
Il 29 settembre don Ubaldo raduna nella chiesetta di San Martino la gente del paese, e li esorta a ricevere i sacramenti. Poi si dirige verso la chiesa di Santa Maria a Casaglia per consumare le ostie consacrate custodite nel tabernacolo, nel timore che vengano profanate. Arrivato, trova le persone, quasi un centinaio, già radunate in chiesa, impaurite e tremanti. Insieme con loro recita il santo rosario e consuma le ostie. Mentre ancora sono in preghiera, arrivano i tedeschi che, dopo aver sfondato la porta della chiesa, costringono tutti con la forza ad uscire e ad incamminarsi verso il cimitero. Prima però, uccidono una donna paralizzata alle gambe, Vittoria; e altre due persone che avevano cercato rifugio sul campanile. Don Ubaldo è ancora ai piedi dell’altare quando viene raggiunto da una raffica di mitra. I tedeschi cercano poi di appiccare il fuoco alla chiesa e pongono accanto al corpo di don Ubaldo un cartello con la scritta: “Ribelli, questa è la vostra sorte”.
Gli altri vengono intanto condotti al cimitero e ammassati all’interno contro le pareti della cappellina, poi, piazzate le mitragliatrici, i soldati incominciano a sparare e a lanciare bombe a mano. Solo quattro dei prigionieri resteranno in vita! Tutto il borgo viene dato alle fiamme e, dalla valle, il monte appare come un immenso falò. In quei giorni, rimasero uccise anche la mamma e la sorella di don Ubaldo. Solo il papà riuscì a salvarsi. Egli è stato una delle quattro persone, che hanno accordato il perdono chiesto dal maggiore delle SS Reder. E, a chi gli chiedeva come potesse perdonare, il buon vecchio rispondeva in dialetto: “Quello che faccio lo so io!”.
Sotto le macerie della chiesa è stata ritrovata la pisside che forse don Ubaldo stringeva ancora tra le mani quando fu ucciso. Essa porta ancora i segni ben visibili dei proiettili e resta per tutti una preziosa reliquia del suo martirio.


Don Ubaldo Marchioni, aveva ventisei anni.






Don UBALDO MARCHIONI

  Nato il 19 maggio 1918 a Vimignano di Grizzana da Augusto e Smerigli Antonietta; ordinato sacerdote il 28 giugno 1942 da S. Em.za il Card. Nasalli Rocca, cappellano a Monzuno fino al 17 maggio 1944, quando fu nominato parroco a Gugliara e subito trasferito a San Martino di Caprara di cui prese possesso 1’8 settembre 1944. Trovò la morte nella chiesa di Casaglia di Caprara il 29 settembre 1944.

  29 settembre 1944: nella montana chiesetta di Casaglia di Caprara, attorno al sacerdote che sta devotamente celebrando, un centinaio di fedeli, in prevalenza donne e bambini, prostrati nella trepidazione di un pericolo imminente, affisano gli occhi a quell'altare su cui si rende presente la Vittima Divina.
  — Pietà, Signore — è il grido che erompe più angosciato da ogni petto quando più violente e più vicine si fanno le raffiche delle mitragliatrici, più sinistri i bagliori degli incendi, più basse e dense le cupe ondate di fumo che si alzano nel cielo sereno dalle case in fiamme.
  Sono stati svegliati all'alba dai ripetuti spari nelle boscaglie attorno e specie sulle cime del Monte di Caprara, su cui ha sede un Comando di Partigiani, e presto si è sparsa fra loro l'agghiacciante notizia portata da qualche montanaro in fuga:
  — I tedeschi danno la caccia ai Partigiani, e bruciano tutto! Scappate! — Da Sperticano, da Pioppe, da Gardelletta, da «La Quercia» infatti l'irruenza nemica si stringe e incalza.
  Gli uomini in parte hanno raggiunto i boschi più scoscesi verso il Setta, le donne e i bambini hanno sperato una salvezza nella sacra inviolabilità del tempio, e a gruppi o isolati, col cuore in gola, si sono raccolti nel piazzale e nell'interno della chiesa.
  Non c'è l'Economo che è il Parroco di S. Martino di Caprara, don Ubaldo Marchioni, il giovane zelante sacerdote che ha incarico di provvedere anche a questa parrocchia che sovrasta la sua Caprara. Egli, oltre a celebrare la Messa nei giorni festivi a Casaglia, si inerpica, appena può, anche alla chiesina di Cerpiano, anch'essa affidata alle sue cure.
  Ma quei buoni montanari sanno per esperienza lo zelo di d. Ubaldo ed hanno aspettato fiduciosi, come le pecorelle cadute in una sterpaia inestricabile chiamano e aspettano il pastore che le liberi.
  E d. Ubaldo è venuto.
  È venuto nonostante le pressioni dei suoi congiunti che lo scongiuravano di restare in casa in quella mattina che già si presentava con sì tristi presagi, mentre attorno cominciavano a levarsi al cielo le prime colonne di fumo dai cascinali in fiamme. Don Ubaldo ha sentito più forte l'appello di una voce superiore. Ha ricordato che quando prese possesso della sua parrocchia di S.Martino, parlando ai suoi fedeli, aveva loro detto: — Ben volentieri e di gran cuore io mi sacrificherò per le anime vostre! — Ed ora è giunto il momento di mantenere quella promessa. Anche lassù vi è una parte del suo gregge esposto al pericolo, anche lassù vi è il Ss.mo Sacramento che può essere profanato, e bisogna provvedere: consumare le Sacre Specie, fare Comunioni anche lassù e a Cerpiano, se è possibile!, come poco prima ha fatto nella sua chiesa di Caprara con i molti popolani che si sono riversati nel tempio, in canonica e nei locali adiacenti.
  — Bisogna che vada! — ha deciso don
  Ubaldo. — Pregate. Sarà quel che Dio vuole!
  — E anche il padre non ha saputo più trattenerlo.
  Sua intenzione era di giungere prima fino a Cerpiano, la località più isolata e più scomoda, provvedere alla sicurezza di quella chiesina e degli abitanti, poi ritornare a Casaglia e infine ritirarsi ancora presso i suoi a S. Martino.
  Ma passando da Casaglia si è visto circondale da quel numeroso gruppo già da tempo in attesa fiduciosa. Gli si sono stretti attorno:
  — D. Ubaldo, resti con noi! Non ci abbandoni, d. Ubaldo! —
  Si sono levate mani tremanti a supplicarlo; tanti occhi, nuotanti nelle lacrime e dilatati dal terrore, lo hanno fissato con ostinata fiducia; le mamme gli hanno presentato i loro piccoli stretti alle loro sottane:
  — Pei nostri bambini, d. Ubaldo —
  E d. Ubaldo è restato rinunciando a recarsi a Cerpiano ove forse l'avrebbe atteso in agguato un diverso martirio.
  È entrato in chiesa e si è preparato per la Messa: tutti si sono riversati attorno all'altare e si sono prostrati a terra.
  È il giorno di San Michele Arcangelo. — Fortis in bello! — pensa d. Ubaldo e invoca fortezza per i suoi che si dibattono inermi in una delle aberrazioni più mostruose della guerra.
  Al momento della Comunione molti si appressano al Banchetto degli Angeli battendosi il petto. Le Sacre Specie sono consumate.
  La Messa è celebrata; d. Ubaldo depone i paramenti, passa tra la folla che non lascia la chiesa e dice ancora una parola di conforto mostrando l'intenzione di dare una scappata a Cerpiano.
  Ma la popolazione è troppo agitata: sente, ed è ben triste presentimento!, che il pericolo si fa più vicino. Già giungono dalle alture i comandi gutturali dei rastrellatori a caccia dei partigiani e dei civili; e tutti si stringono intorno a lui. È una barriera di corpi e di anime che non si può superare e d. Ubaldo ancora si commuove:
  — Recitiamo il Rosario, allora. —
  Tutti hanno un sospiro di sollievo e, mentre ancora si inginocchiano, sentono alleviarsi il panico che li opprimeva. D. Ubaldo estrae la corona, si inginocchia sui gradini dell'altare e intona il rosario. I fedeli fanno coro.
  L'irruzione in chiesa di un gruppetto di tedeschi col mitra puntato interrompe la preghiera.
  D. Ubaldo si alza in piedi, le donne e i bambini ammutoliscono. I tedeschi avanzano verso il prete: lo riconoscono:
  — Il grande partigiano! —
  Così l'avevano chiamato da tempo, sapendo del suo aiuto disinteressato a tutti coloro che bussavano alla sua porta; anche e specialmente ai partigiani, poich
é i partigiani erano i più bisognosi.
  Quando fin dal gennaio 1944 le montagne che sovrastano la sua chiesa si popolarono di partigiani, di renitenti alla leva o di ribelli alla repubblichetta di Salò egli fu in mezzo a loro come un missionario di Cristo, perch
é, oltre al pane per rifocillare i loro corpi, sapeva dire la parola buona che consola lo spirito, sapeva diffondere gli elementi dottrinali della Democrazia Cristiana per illuminare le loro menti e confortarli ad ideali più puri. È per questo che «La Punta», il periodico clandestino della Democrazia Cristiana, riporterà poi nel numero di febbraio 1945, una sua breve biografia, esaltandone l'opera a favore dei patrioti unendola all'opera degli altri sacerdoti:
  «L'olocausto di d. Marchioni si aggiunge ai troppi ormai offerti dai sacerdoti delle nostre terre. È il tributo meraviglioso dei sacerdoti italiani alla causa della carità e della libertà».
  Ed ora il «gran partigiano» è in loro mano! È giunto il momento della vendetta.
  D. Ubaldo si fa avanti, sfidando il mitra spianato e, rivolto al comandante spiega, supplica:
  — Non sono partigiani questi! Lo vedete! sono donne, bambini, gente che abita sul posto da anni. Sono tutti innocenti! —
  La parola è convincente, riboccante di sincerità e di carità: è parola di padre che trepida per la sorte dei figli.
  Un ordine suona: — Tutti fuori! —
  Escono terrorizzati e sono incolonnati, in numero di 84, verso il cimitero di Casaglia.
  C'è in chiesa una povera donna, Nanni Vittoria, semi-paralizzata alle gambe, che non può muoversi e che si aggrappa convulsa allo schienale della sedia nel tentativo di ubbidire. I tedeschi le impongono di lasciare l'appoggio e, visto che non le è possibile reggersi da sola, la fucilano sul posto fra l'orrore dei fedeli che stanno uscendo e che hanno il triste presagio della loro fine.
  Mentre d. Ubaldo è piantonato all'altare, vengono frugati tutti i locali adiacenti. Nel campanile sono trovati nascosti, in un ultimo tentativo di sfuggire alle loro ricerche, una donna: Enrica Ansaloni, cognata del defunto arciprete, e Giovanni Betti di Gardelletta. Una scarica di mitraglia li abbatte sul posto.
  Mentre la colonna penante della porzione migliore del suo gregge ondeggia verso il luogo del suo martirio, d. Ubaldo, rimasto solo nella chiesetta fra quelle belve, privato anche della consolazione di assistere fino all'ultimo i suoi fedeli in pericolo, china il capo alla volontà di Dio e si prepara all'ultimo olocausto.
  Non abbiamo particolari sulla sua morte.
  Un fucile gli è spianato contro, e il degno sacerdote stramazza sulla predella dell'altare maggiore sul quale, pochi istanti prima, si ergeva con la bianca Ostia fra le mani quale intermediario fra Dio e l'umanità. Un'ora dopo la chiesa è in preda alle fiamme.
  Due giovani nel pomeriggio dello stesso giorno entrano in chiesa, incuranti delle fiamme che ancora si sprigionano attorno, e vedono il giovane sacerdote disteso sulla predella dell'altare, mentre le fiamme lo circondano, quasi timorose di lambire quel corpo che, come vittima propiziatoria, giace immolata ai piedi dell'altare. Leggono accanto un grande cartello: «Ribelli questa è la vostra sorte».
  E forse fu sorte beata quella di d. Ubaldo che non vide lo strazio del gregge, che non seppe le esosità usate verso la sua famiglia.
  Non videro gli occhi suoi di buon pastore il cimitero, il luogo consacrato al riposo dei giusti, imporporato dal sangue di tanti innocenti, ben settanta fra donne e bambini! Non vide egli il muro di cinta e la cappella mortuaria scrostati dalla falcidia dei colpi di mitraglia di quei forsennati! Non vide cadere l'uno sull'altro madre e figli! Non udì l'ultimo urlo saturo di terrore; non rabbrividì allo scoppio di pianto sconsolato del piccolo Tonelli del «Posatore», rimasto illeso sui cadaveri della madre e di cinque fratelli: «Io voglio morire con loro!»
  Gli è risparmiato lo strazio della mostruosa profanazione della chiesa di Cerpiano che, in quello stesso giorno di S. Michele Arcangelo, si trasforma in un raccapricciante carnaio dove 43 vittime innocenti sono squarciate e dilaniate a colpi di bombe a mano! E non sente il cuore spezzarsi alle parole della piccola Rossi Paola di sei anni che, rizzandosi fortunosamente incolume, fra la strage dei suoi, singhiozza guardandosi sgomenta intorno: «Tutti morti! la mia mamma! la mia zia! la mia nonna Giovanna! il mio fratellino!... Tutti morti!»
  Gli è risparmiata l'ansia angosciosa per la famiglia.
  Difatti mentre il padre, la madre e una sorella di 14 anni stanno in penosa apprensione, verso il mezzogiorno dello stesso 29 settembre, giungono alla canonica di S. Martino quattro tedeschi che perquisiscono la casa. Stanno per partire. Uno di loro tranquillizza il padre:
  — Qui nulla fare... Non avere trovato armi. — E chiedono da bere.
  Mentre viene loro offerto del vino, un soldato nota sul caminetto della cucina un po’ di polvere nera, residuo di sassi scalfiti e di legna spaccata.
  — 
Questo essere esplosivo! — gridano i barbari, a caccia di un pretesto qualsiasi per abusare del loro potere.
  Il padre si affanna a spiegare, nel miglior modo, che sono in errore, ma quelli non vogliono sentile ragioni.
  — 
Bruciare! bruciare! — E partono infuriati appiccando il fuoco a due fienili adiacenti alla chiesa.
  Fu allora solo rimandata la strage della famiglia.
  Purtroppo più tardi anche la madre e la figlia Maria troveranno la morte e il padre di d. Marchioni resterà solo, peregrinante col cuore spaccato dal dolore.
  Quando ritornerà per rintracciare i suoi cari non potrà che dar sepoltura a resti talmente carbonizzati e sì bestialmente sparsi, da riuscire appena a identificarli.
  Il primo ottobre infatti i tedeschi avevano fatto uscire dalla chiesa di San Martino, ove avevano trovato scampo, una quarantina di persone fra uomini donne e bambini, «dando una fucilata a ciascun uscente». Di quei corpi ancora agonizzanti ne avevano fatto un cumulo e
d aspersili di benzina, avevano appiccato loro il fuoco. Un falò tragico si era alzato nella notte in uno spettacolo sinistro.
  Chi ha seppellito, dopo alcuni giorni, il buon d. Ubaldo nella grande fossa che accoglie le 84 vittime di Casaglia di Caprara, ha assicurato di averlo trovato in chiesa tutto carbonizzato e senza un piede.
  Particolare curioso questo piede che non si è potuto, ritrovare! Quel piede che tante miglia ha percorse, tanto spesso ha pigiato sul, pedale, tante volte ha arrancato veloce sui dirupi,
per i sentieri boscosi, in perpetua ricerca delle sue pecorelle!
  «O quam speciosi pedes evangelizantium pacem. evangelizantium bona» torna spontaneo alle labbra.
  Gli angeli forse l'hanno riposto, come reliquia preziosa degna di somma venerazione, a simbolo della gloria riservata alle fatiche e, ancor più, al sangue degli apostoli di Cristo.
  Così era immolata la prima vittima sacerdotale nei massacri di Marzabotto.


Suscita ancora nella tua Chiesa,
Padre onnipotente e santo,
sacerdoti e generosi,
ardenti dell'amore per Cristo e per i fratelli,
testimoni autentici e fedeli
dei misteri che celebrano.
Tu hai dato a don Ubaldo Marchioni
la forza e la grazia
di restare fedele al suo gregge
in mezzo al quale la cieca violenza degli uomini
lo immolò ai piedi dell'altare
del sacrificio dell'Agnello.
Dona a noi tutti sollecitudine instancabile
nel cooperare secondo la nostra vocazione
all'avvento del tuo Regno
d’amore e di pace.
Per Cristo nostro Signore.




I sacerdoti di Monte Sole Bologna

 I sacerdoti di Monte Sole Bologna

    In aiuto ai vecchi parroci pieni di anni e di malanni l'arcivescovo Nasalli Rocca, che più volte aveva visitato Monte Sole, mandò due giovanissimi collaboratori: don Ferdinando Casagrande  e don Giovanni Fornasini.
    […] Il primo a mettere piede quassù fu don Casagrande, il 5 agosto 1938. Con lui si apre il capitolo dei pastori martiri di Monte Sole. Meteore della carità. Il loro sangue era nel conto della prima Messa.
    […] Sono sacerdoti secolari ordinati, come si dice, titulo paupertatis seu servitío dioecesis: volgarmente il «diritto della sporta». Appena freschi del crisma, e quindi senza lo spessore di esperienza di cui potevano disporre i colleghi anziani maturati nel periodo antecedente la dittatura fascista, si trovarono in mezzo a tensioni oltre ogni limite di sopportabilità.
    Erano andati sul campo di lavoro come bastoni della vecchiaia; ma ben presto, ancor prima del congedo dei vecchi parroci, diventarono loro i protagonisti.
    […] Don Ferdinando, don Giovanni e don Ubaldo, ultimo aggregato alla giovane schiera, seppero unire lo spirito di profezia a un'insolita concretezza. E fu il frutto della volontà e della grazia.
    Fra tutte le aree di questa topografia dell'Ecclesia patiens, Monte Sole rappresenta il punto culminante; e i nostri tre giovani preti si comportano in modo esemplare, come teleguidati dallo Spirito; ciascuno con un segno specifico e una sua luce. Don Giovanni fu l'angelo nel senso biblico, pronto per ogni emergenza, sempre e dovunque; don Ubaldo la sentinella di Dio sulla cima del monte; don Ferdinando un amico e un fratello per tutti.
(Brano tratto da "Le querce di Monte Sole" di mons. Luciano Gherardi)

Il Servo di Dio don Ferdinando CASAGRANDE


Nato il 5 novembre 1914 a Castelfranco Emilia da Augusto e Ghermandi Anna, ordinato sacerdote nella chiesa di S. Martino di città il 16 luglio 1938 da S. Em.za il Cardinale Nasalli Rocca, cappellano a S. Martino di Caprara, poi parroco a Gugliara dal maggio 1944. Ucciso a S. Martino di Caprara il 9 ottobre 1944.

Il buon vecchio a stento riesce a frenare il tremito che dall'ottobre 1944 ha invaso le sue membra ed è andato aumentando con il crescere della sua ansia dolorosa. Ci guarda coi suoi occhi un po’ appannati, ma ancor vividi di luce intelligente. Una austerità misteriosa trapela dal suo volto scarnito.
— Volete che vi parli del mio don Ferdinando? — incomincia incerto. — Beh! vi dirò quel che so, e non potrà che fare un po’ di bene anche a me parlare di lui. Pensate! Ci è stato tolto a trentanni appena, da solo cinque mesi parroco a Gugliara. Eravamo tutti assieme lassù: mia moglie, i miei cinque figli! e son rimasto solo! Si vede che il Signore voleva così! — Sospira profondo, e ripiglia dopo una breve pausa in cui lo contempliamo in silenzio.
— Siamo al 22 settembre del '44. Di tanto in tanto si fa più aspra la lotta fra «quelli» nascosti nella montagna e le truppe tedesche. In una scaramuccia resta colpito mortalmente un soldato delle S.S.: ed ecco la rappresaglia. Tutte le case della borgata «la Quercia». ove è avvenuto lo scontro, sono interamente distrutte dal fuoco e s'inizia una caccia spietata alla gente del paese.
Il mio don Ferdinando, che si trovava proprio nel rifugio della galleria «La Quercia» fugge assieme alla sorella Gabriella, e viene a nascondersi nella casa «Calvane» ove eravamo già raccolti noi tutti. Laggiù alle «Quercie» dove era la nostra casa, non era più possibile la vita, e speravamo un po’ di pace lassù alle «Calvane» nella casa del nostro contadino.
Alle ore sei del 29 settembre siamo avvertiti da un contadino che ormai stanno per giungere i tedeschi. Dove fuggire? Ovunque c'era in agguato la morte: i tedeschi ci braccavano come selvaggina, gli alleati, ormai a pochi chilometri, ci tempestavano di proiettili.
Decidiamo di lasciare le donne, ed io, con don Ferdinando e l'altro figlio Giannino ci andiamo a nascondere in un piccolo rifugio dietro il cimitero di S. Martino di Caprara. Il rifugio ci parve sicuro: scavato nel tufo, su uno strapiombo con l'ingresso nascosto dal folto degli alberi, a cui si accedeva per un sentiero da capre, attraverso la roccia dello strapiombo. Nemmeno i tedeschi lo avrebbero saputo individuare.
Decidemmo di andar a prendere le nostre donne e così dal 1° ottobre ci ritrovammo ancora uniti e qui rimanemmo rintanati fino al nove ottobre.
Furono quelle, giornate di angoscia incredibile: sopra di noi stava in vedetta un soldato tedesco, e solo di notte, con mille precauzioni potevamo fare qualche sortita per cercare un po’ di alimenti. La sera dello stesso 1 ottobre, giunsero fino a noi gli spari dei tedeschi contro i disgraziati che si erano rifugiati nella chiesa di S. Martino, e anche l'acre odore nauseabondo dei loro cadaveri dati al fuoco.
Asseragliati come belve sentivamo, giorno e notte la terra sobbalzare sotto l'incessante martellamento dell'artiglieria alleata. Nessuno osava portarsi allo scoperto! si correva il rischio di lasciarci la pelle. Per tutti quei giorni, eterni e sfibranti, ci nutrimmo di castagne crude e di pere acerbe (bottino di una sortita notturna), una al mattino, una a mezzogiorno, una alla sera.
Vedevo i miei cari consumarsi a poco a poco, i volti sbiancati farsi più affilati, e anche il mio don Ferdinando, che era sempre stato magro, come vedete anche da quella fotografia (e ce l'addita appesa al muro), si era ridotto all'osso, i suoi occhi si erano affondati ancor più nell'orbita. Pure era sempre lui che ci teneva alta la fiamma della rassegnazione e della speranza, e fugava col suo esempio di fiducia in Dio la tristezza cupa che ci attanagliava di ora in ora sempre più.
Al nono giorno di tomba però don Ferdinando ha voluto salire al Comando tedesco, che aveva sede a S. Martino onde ottenere il permesso di uscire e di attraversare quelle zone proibite, perchè capiva che ormai non potevamo più resistere agli stimoli della fame. Sua sorella, la Giulia, che era maestra all'asilo della «Gardelletta», ha voluto accompagnarlo in quella missione e dividerne i pericoli. Li accompagnammo fino all'ingresso del rifugio, li abbracciammo, invocando l'aiuto di Dio per loro, li osservammo buttarsi fuori veloci e scomparire. Un cupo presagio ci rimase nel cuore, mentre, seduti in silenzio, ascoltavamo il fischio dei proiettili. Non li abbiamo più visti!... —
Il vecchio china il capo e tace a lungo per ricomporre la sua voce rotta da un singhiozzo. Attendiamo in religioso silenzio.
— Solo passati parecchi giorni ho potuto sapere la loro triste fine; e i particolari ci saranno forse per sempre sconosciuti.
Pare che don Ferdinando riuscisse a raggiungere il Comando tedesco e farsi rilasciale il permesso di transito. Ma lui e la Giulia avevano appena voltato le spalle per ritornare che quelle belve li colpirono a tradimento con scariche di mitraglia. Il mio don Fernando cadde sul sentiero con un proiettile nella nuca; la buona Giulia con cinque pallottole di mitraglia al petto. Sono morti abbracciati stretti, e dai tedeschi buttati così nel precipizio che fiancheggia il sentiero.
Col lento passare dei giorni compresi che ormai era vana la tormentosa attesa dei miei cari.
Ma non era finita l'ascesa al mio doloroso calvario!
L'11 ottobre, giornata piovosa, alle 11,30 precise, un proiettile che scoppia nei pressi del rifugio colpisce con una scheggia l'altra mia figlia, la Gabriella, uscita per un istante, e la butta a terra immersa nel suo sangue. Ne copriamo il cadavere con un panno e ci buttiamo giù verso il Setta in cerca di un luogo più sicuro.
Giunti al fondo de «La Conca» ci fermiamo nascosti nel folto del bosco, in attesa dell'ombra della notte per passare il fronte di guerra; ma appena calate le tenebre, poco dopo le 18, mentre stiamo rannicchiati sotto i bagliori degli scoppi che illuminano i tronchi degli alberi, una cannonata ci colpisce in pieno: mia moglie e gli altri due figli, Lina e Giannino, sono colpiti in pieno. Io ho il piede destro ferito e rimango solo vivo, tra il tormento della mia carne offesa, tra il sangue della moglie e di Giannino che più non possono rispondere alle mie invocazioni, tra gli urli strazianti della Lina che ha le gambe stroncate e chiede disperatamente aiuto... e davvero non so come il cuore non mi sia scoppiato in tanto strazio! —
Due lacrime rigano il suo volto patito e si perdono fra le rughe. Un singulto gli stronca ancora la parola. Pure si fa coraggio e prosegue la sua incredibile avventura.
— Ormai mi sentivo solo al mondo. Eppure quanto è grande nell'uomo l'attaccamento alla vita! Non volevo morire e speravo pazzamente che qualcuno dei miei si potesse ancora salvare: almeno la mia Lina!
Mi alzo per andare in cerca di soccorso. Barcollo, ogni passo è uno strazio: pure resisto, stringendo i denti e appoggiandomi al bastone, e vado solo solo!... vado cercando, invocando ad ogni passo i miei sei cari, disperatamente certo ormai del loro tragico destino!... vado, arrancando, verso posizioni ove speravo trovare aiuto!
A Rivabella c'erano dei civili, lo sapevo, e volevo giungere fin là. Invece, prima del «Beccadello» mi imbatto in una pattuglia di tedeschi che mi fanno prigioniero. Perquisito, derubato di tutto, perfino di una boccetta di aceto che mi serviva per medicare le ferite, mi trattengono con loro. Oh, la notte passata con essi, con la gamba ferita stesa su di una sedia, fra gli spasimi della carne e il martellamento dei ricordi che mi torturavano il cervello!
Al mattino del 12 ottobre, aiutato da una ragazza che era a servizio dai tedeschi, riesco a portarmi fino ad una stalla abbandonata ove buoni amici, che a stento mi riconoscono (ero calato venti chili!) mi hanno assistito e curato; ma non ci fu possibile portare aiuto alla mia cara Lina, e sempre io avevo davanti agli occhi la mia piccola, che illanguidiva a poco a poco, nella perdita del sangue.
Finalmente il 25 ottobre i tedeschi se ne andarono sconfitti e il 27 arrivarono gli alleati.
Io già mi sentivo in forze, la ferita era rimarginata bene ed avevo in cuore una smania che non mi dava riposo: «Bisogna che io vada, mi dicevo, che corra a seppellire la mia famiglia!».
Da Rivabella guardavo giù nella vallata, ma non riuscivo più a vedere nulla che mi orizzontasse: tutte le cose erano ridotte un cumulo di macerie; anche la Chiesa e il campanile di S. Martino di Caprara non apparivano più nel fondo della vallata: tutto il paese era raso al suolo.
Tuttavia sempre lo stesso pungolo mi tormentava il cuore e non mi dava pace: «Voglio vedere i miei cari. Bisogna che vada!».
E un giorno sono andato, appoggiato al mio bastone, con passo sempre più affrettato.
Chiedo, supplico informazioni agli abitanti del luogo. Tre miei amici mi aiutano e riusciamo a rintracciare le salme benedette. Le componiamo sotto la terra ancora sconvolta, con mani tremanti, bagnate di lacrime e di sangue.
Gli Americani poi ci hanno mandato tutti noi che eravamo a Rivabella senza casa, prima a Firenze, poi, in diverse tappe, fino a Roma, a «Cinecittà», ove anch'io sono stato alloggiato per sei mesi. —
Il buon vecchio tace ancora. Nel suo volto non c'è più l'abbattimento che vi aveva prodotto l'emozione del racconto: ora è sereno della serenità che bacia la fronte dei giusti, anche di quelli che sono stati sottoposti alle prove più dure. Con commozione gli stringiamo la mano.

Padre misericordioso,
consolazione e ricompensa di chi confida in te,
tu ami rivelare
la tua grandezza negli umili,
la tua potenza nei deboli,
e nel mistero adorabile della tua provvidenza
hai sostenuto don Ferdinando Casagrande
nei giorni più oscuri
del suo mistero sacerdotale
fino all'olocausto della sua vita.
Donaci di essere
sempre operatori di pace e di giustizia,
animati dalla fede viva
che affronta e supera il dolore e le difficoltà
nell'unione feconda
con la passione gloriosa del Cristo Signore.
Egli vive e regna nei secoli dei secoli.


Il Servo di Dio don Giovanni FORNASINI

Nacque a Pianaccio di Lizzano in Belvedere (Bologna) il 23 febbraio 1915, da Angelo e Maria Guccini. Trasferitosi con la famiglia nel 1925 a Porretta Terme (Bologna), frequentò al collegio Albergati le tre classi del corso di avviamento commerciale; era ritenuto «un somarino che tirava, generosissimo ed entusiasta in ogni cosa. Non era un'aquila nello studio, ma nell'azione e nel sacrificio pochi riuscivano a tenere il suo passo» (don Enrico Marini).

Dopo essere stato di aiuto al parroco don Goffredo Minelli, decise di farsi prete. Entrò nel seminario di Borgo Capanne nell'ottobre 1931. Seguì poi il corso degli studi a Bologna nel seminario arcivescovile di Villa Revedin e nel seminario regionale, partecipando con intensità all'esperienza formativa offertagli. Subito dopo l'ordinazione a diacono, nel 1941, venne inviato a Sperticano di Marzabotto in aiuto dell'anziano parroco don Giovanni Roda. Per un anno, sino all'ordinazione sacerdotale, fece la spola, in quegli anni inconsueta, tra il seminario e la parrocchia. Ordinato sacerdote il 28 giugno 1942, venne immediatamente nominato vicario coaudiatore a Sperticano.

Morto don Roda, il 20 luglio 1942 venne nominato economo spirituale, e il 21 agosto parroco di Sperticano. Numerose testimonianze concordano nel sottolineare che il giovane parroco trasformò la canonica in un «cantiere della carità», caratterizzato dalle più diverse iniziative pastorali e sociali, ma soprattutto dalla costante attenzione del sacerdote per i suoi parrocchiani, tutti.

Affrontò il periodo dell'occupazione tedesca e del trasferimento del conflitto sul suolo italiano, cogliendo con immediata consapevolezza la funzione che avrebbe dovuto svolgere come sacerdote cattolico.

Grazie ad una «resistenza incredibile», «correva dappertutto», «per cercare di liberare la gente dalle difficoltà, di risolvere i loro problemi. Non aveva paura. Era un uomo di gran fede e sempre coerente». Nei giorni dell'eccidio di Monte Sole, nei quali si perse il significato della vita e della morte, la testimonianza di amore di don Fornasini non ebbe sosta.

La sua morte è «ancora immersa nel mistero»: non se ne conosce la ragione specifica, l'autore, la modalità. In quei giorni, subito dopo, poi sempre, sino ad oggi, don Fornasini è considerato l'angelo di Marzabotto. «Prima della sua eroica morte avvenuta per un motivo direi soprannaturale, aveva già un corredo di virtù, di opere sante, di azioni generose che possono testimoniare della sua santità. Altri sono stati in qualche modo coinvolti dalle circostanze. Lui, no... Io sapevo quello che la gente diceva di lui; e posso dire che è la figura più bella, più caratteristica: quell'uomo merita la canonizzazione» (padre Lino Cattoi). Ritenuto «commovente esempio di carità e di fortezza eroiche» (mons. Danio Bolognini, 1946), alla sua memoria venne decretata nel 1950 la Medaglia d'oro al Valor Militare alla memoria, decreto Presidente della Repubblica del 19.05.1950, consegnata alla madre in data 2.06.1951 a Bologna, con la seguente motivazione:
"Nella sua parrocchia di Sperticano, dove gli uomini validi tutti combattevano sui monti per la libertà della Patria, fu luminoso esempio di cristiana carità. Pastore di vecchi, di madri, di spose, di bambini innocenti, più volte fece loro scudo della propria persona contro efferati massacri condotti dalle S.S. Germaniche, molte vite sottraendo all'eccidio e tutti incoraggiando, combattenti e famiglie, ad eroica resistenza. Arrestato e miracolosamente sfuggito a morte, subito riprese arditamente il suo posto di pastore e di soldato, prima tra le rovine e le stragi della sua Sperticano distrutta, poi a S. Martino di Caprara dove, pure, si era abbattuta la furia del nemico. Voce della Fede e della Patria, osava rinfacciare fieramente al tedesco l'inumana strage di tanti deboli ed innocenti richiamando anche su di se la barbarie dell'invasore e venendo a sua volta abbattuto, lui Pastore, sopra il gregge che, con estremo coraggio, sempre aveva protetto e guidato con la pietà e con l' esempio".
S. Martino di Caprara, 13 ottobre 1944)

La parrocchia di Sperticano venne elevata ad arcipretale in seguito all'olocausto di don Fornasini, come testimonia una lapide all'interno della chiesa.

Il 19 agosto 1998 la Congregazione delle Cause dei Santi ha dato il nulla osta per l'inchiesta diocesana sulla vita e le virtù del servo di Dio, iniziata poi il 18 ottobre dello stesso anno.
(Alessandro Albertazzi)

Ti ringraziamo, Padre onnipotente, Dio fedele:
nella vita e nella morte
del sacerdote Giovanni Fornasini
hai donato alla Chiesa di Bologna
un segno ammirevole
della presenza amorosa e indefettibile
del Buon Pastore.
Fà che anche oggi i giovani
sappiano gustare profondamente
il fascino sublime del Signore Gesù
per corrispondere con entusiasmo
al tuo disegno di salvezza.
Il tuo Spirito di fortezza e di sapienza
riaccenda in noi la passione per la verità
e ci sostenga nella via della carità,
per il vero bene di ogni fratello.
Per Cristo nostro Signore.