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14 agosto, 2021

San Massimiliano Maria Kolbe

 San Massimiliano Maria Kolbe



Nome: San Massimiliano Maria Kolbe
Titolo: Sacerdote e martire
Nascita: 8 gennaio 1894
Morte: 14 agosto 1941
Ricorrenza: 14 agosto
Tipologia: Memoria liturgica
Protettore:radioamatori




Padre Kolbe è l'eroico frate francescano conventuale che nel campo di concentramento di Auschwitz offrì la propria vita per salvare quella di un padre di famiglia, Francesco Gaiowniczek, condannato a morire di fame come rappresaglia per la fuga di un detenuto.

Giovanni Paolo II, nell'elevarlo agli onori degli altari, il 10 ottobre 1982, lo ha proclamato «patrono del nostro difficile secolo», un esempio di pace e di fraternità in una società sconvolta dall'odio e dall'egoismo.

Kolbe nacque a SudunzskaWola, una cittadina del centro industriale di Lodz, l'8 gennaio 1894. I suoi genitori erano operai tessili. Kolbe da ragazzo conobbe il senso liberatorio e insieme opprimente di povertà e lavoro. E quell'esperienza non fu estranea ad alcune scelte che lo portarono ad abbracciare la Regola di san Francesco tra i minori conventuali di Leopoli (1907) e poi a dar vita a una istituzione che aveva proprio, in povertà e lavoro, caratteristiche tipicamente francescane, un sicuro fondamento, e cioè le «Città dell'Immacolata»: «Niepokalanów», in Polonia, e «Mugenzai No Sono», in Giappone.

Nell'ideale francescano Kolbe innestò poi la propria fiducia nella possibilità offerta dai mezzi che la tecnica in quel tempo stava mettendo a disposizione. E a chi gli faceva osservare che su di essi già il diavolo aveva allungato le sue sordide zampacce, egli rispondeva: «Ragione di più per svegliarci e metterci all'opera per riconquistare le posizioni perdute».

Quando ne ebbe l'opportunità, dimostrò la bontà e la lungimiranza dei propri progetti. E ciò avvenne in Polonia, dove ritornò nel 1919, dopo aver conseguito a Roma la laurea in teologia.

A pochi chilometri da Varsavia diede vita nel 1927 a «Niepokalanów» (Città dell'Immacolata) i cui cittadini, tutti frati, si dedicavano, vivendo in rigorosa povertà, all'apostolato per mezzo della stampa. E furono autori di un consistente boom editoriale che ancor oggi sorprende. Il «Cavaliere dell'Immacolata», la prima di una catena di riviste, fondato nel 1922 dopo un periodo iniziale di stasi, decollò raggiungendo le cinquantamila copie. In seguito si affermò come settimanale con settecentocinquantamila copie (addirittura un milione nel 1938).

L'Immacolata, cui padre Kolbe ha intitolato gran parte delle sue riviste, era il suo chiodo fisso. In tempi non troppo felici per la chiesa e per il mondo, Kolbe vedeva nella Madonna l'ideale capace di scuotere le coscienze, di ridare fiato al cristianesimo; un ideale, comunque, per il quale combattere le sante battaglie della fede. Per questo, ancor prima di essere ordinato sacerdote, aveva istituito a Roma, il 16 ottobre 1917, la Milizia dell'Immacolata, uno strumento per far conoscere e vivere la devozione alla Madre di Cristo, ancor oggi vivo e prosperoso.

Nel 1930 partì missionario per il Giappone a fondarvi un'altra Città dell'Immacolata, animata dallo stesso spirito e dagli stessi ideali. Tornato definitivamente in Polonia, dopo un paio di altri viaggi «missionari» nello stesso Giappone e in altri paesi dell'oriente, padre Kolbe si dedicò interamente alla sua opera.

La seconda guerra mondiale lo sorprese a capo del più importante complesso editoriale della Polonia.

Il 19 settembre 1939 fu arrestato dalla Gestapo, che lo deportò prima a Lamsdorf (Germania), poi nel campo di concentramento di Amlitz. Rilasciato l'8 dicembre 1939, tornò a Niepokalanów, riprendendo l'attività interrotta. Arrestato di nuovo nel 1941 fu rinchiuso nel carcere di Pawiak a Varsavia, e poi deportato nel campo di concentramento di Auschwitz, dove con uno straordinario atto d'amore chiuse una vita tutta spesa al servizio degli altri.

Nel campo viveva una legge secondo la quale, per la fuga di uno, dieci dello blocco, venivano condannati a morire di fame in un oscuro sotterraneo. Quando all'appello della sera risultò che uno mancava un grande timore invase l'animo di tutti i prigionieri...

Il Comandante scelse con un cenno della mano chi doveva morire e ad un tratto si sentì un grido: «Addio! addio! mia povera sposa, addio miei poveri figli...era il sergente Francesco Gajowniczek.

Ma ad un tratto un uomo, anzi, un numero esce con passo deciso dalle file e va diritto verso il Comandante del campo. Chi è lei? Cosa vuole? Come osa infrangere la ferrea disciplina ed affrontare il terribile Capo?

«Sono un sacerdote cattolico polacco; sono anziano, voglio prendere il suo posto, perchè egli ha moglie e figli».

Il Comandante, meravigliato, parve non riuscire a trovare la forza per parlare e stranamente accettò quella proposta...

Padre Kolbe insieme agli altri condannati fu avviato verso il blocco 11. Qui le vittime furono denudate e rinchiuse in una piccola cella, in cui dovevano morire di fame e di sete. Ma da questo tetro luogo, invece di pianti e disperazione, questa volta si udirono preghiere e canti. Padre Kolbe li guidava, attraverso il cammino della croce, alla vita eterna.

Rimase nel bunker per due settimane, quando le SS decisero di svuotare la cella della morte. Erano rimasti in vita solo quattro uomini tra cui Padre Massimiliano.

Venne ucciso con un'iniezione di acido fenico, perché la cella, che egli aveva trasformato in cenacolo di preghiera e che condivideva con gli altri condannati, serviva per altre vittime. «Porse lui stesso, con la preghiera sulle labbra, il braccio al carnefice», raccontò un testimone.

Lo trovarono qualche ora dopo, «appoggiato al muro, con la testa inclinata sul fianco sinistro e il volto insolitamente raggiante. Aveva gli occhi aperti e concentrati in un punto. Lo si sarebbe detto in estasi». Era la vigilia dell'Assunta, di una festa della Madre di Dio, che egli aveva sempre amato, chiamandola con il nome di «dolce mamma».

MARTIROLOGIO ROMANO. Memoria di san Massimiliano Maria (Raimondo) Kolbe, sacerdote dell’Ordine dei Frati Minori Conventuali e martire, che, fondatore della Milizia di Maria Immacolata, fu deportato in diversi luoghi di prigionia e, giunto infine nel campo di sterminio di Auschwitz vicino a Cracovia in Polonia, si consegnò ai carnefici al posto di un compagno di prigionia, offrendo il suo ministero come olocausto di carità e modello di fedeltà a Dio e agli uomini.

PREGHIERA per L'INTERCESSIONE

di San Massimiliano Maria Kolbe

O Dio, che hai dato alla Chiesa e al mondo San Massimiliano Maria Kolbe, sacerdote e martire, ardente di amore per la Vergine Immacolata, interamente dedito alla missione apostolica e al servizio eroico del prossimo, per la sua intercessione concedi anche a noi, a gloria del Tuo Nome, di impegnarci senza riserve al bene dell'umanità per imitare, durante la nostra vita e nell'ora della morte, Cristo Tuo Figlio. Amen.

Pensiero del 14 agosto 2021

 Nel buio di Auschwitz, quando sembrava che ogni residuo umano fosse scomparso, questo umile frate, è andato da Gesù, con cuore umile e confidente, salvando la vita di un padre di famiglia.

Meditazione sul Vangelo di Mt 19,13-15

“Lasciate che i bambini vengano a me”.

Nel brano evangelico odierno Gesù accoglie i bambini che i discepoli vogliono allontanare. Essi sono da Lui benedetti, quasi a rappresentare e proclamare l’attenzione che la famiglia e la Chiesa devono avere per loro. L’educazione cristiana dei piccoli è un lasciare che essi vadano subito a Gesù. I bambini, poi, nella loro disponibilità ancora senza malizia, sono il simbolo della condizione di chi vuole entrare nel Regno dei cieli. Il mistero della salvezza, infatti, cioè della carità del Padre per noi e per tutti gli uomini, è rivelato proprio ai piccoli. Solo loro, che non presumono nelle loro capacità, riconoscono Gesù Figlio di Dio e, in Lui, il Padre.

Questo brano evangelico di Matteo è strutturato sicuramente meglio di quello di Marco 10,13-16. Esso è racchiuso dall’espressione “imporre le mani”, ripetuta due volte. Inoltre, manca in Matteo, quella durezza che, secondo Marco, Gesù manifesta verso i discepoli, e che egli esprime con il verbo “si indignò” (10,14). Infine, mentre nel racconto di Marco si chiede semplicemente a Gesù di accarezzare i bambini (10,13), in quello di Matteo si parla di “imporre loro le mani”, ovvero di benedirli e di pregare per loro. E Lui li benedice e invoca su di loro la protezione del Padre. Anche la parola rivolta ai discepoli è importante. Innanzi tutto: “Lasciate che i bambini vengano a me”; è un comando che pesa, in continuità, sui discepoli. La comunità cristiana ha, tra i suoi compiti primari, proprio quella di educare i bambini ad avvicinarsi, fin dalla loro tenera età a Gesù. Questo è un compito sempre urgente. La seconda frase poi, ripete quanto si è detto nei versetti precedenti di Mt 18,31: “Se voi non cambiate e non diventate come i bambini, non entrerete nel Regno dei cieli…”. Perché “di quelli che sono come loro è il Regno dei cieli”. La presenza dei bambini nella comunità, quindi, è un continuo richiamo alla semplicità e all’umiltà di cuore, e il dialogo con loro impone, a noi adulti, di abbassarci alle loro capacità, al fine di farci comprendere davvero di farci materialmente piccoli con loro e nello stesso tempo, guidarli verso Gesù, affinché un giorno anch’essi possano sentirlo coma la vera guida della loro vita. L’ultima frase ci dice che Gesù “se ne partì”; non sappiamo in quale luogo concreto si trovasse, sappiamo solo che è in cammino verso Gerusalemme.

14 Agosto

Tu sei, Signore, mia parte di eredità

Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché ai piccoli hai rivelato i misteri del Regno.

(Matteo 11,25)

SALMO RESPONSORIALE (Salmo 15)
Rit: Tu sei, Signore, mia parte di eredità.

Proteggimi, o Dio: in te mi rifugio.
Ho detto al Signore: «Il mio Signore sei tu».
Il Signore è mia parte di eredità e mio calice:
nelle tue mani è la mia vita.

Benedico il Signore che mi ha dato consiglio;
anche di notte il mio animo mi istruisce.
Io pongo sempre davanti a me il Signore,
sta alla mia destra, non potrò vacillare.

Mi indicherai il sentiero della vita,
gioia piena alla tua presenza,
dolcezza senza fine alla tua destra.

Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché ai piccoli hai rivelato i misteri del Regno.

(Matteo 11,25)

San Massimiliano Maria Kolbe

 Il 14 agosto 1941, dopo essere sopravvissuto a oltre 2 settimane nel bunker della fame del blocco 11, il francescano Massimiliano Rajmund Kolbe fu ucciso da un'iniezione di fenolo da Hans Bock (prigioniero n. 5) che era stato il maestro di blocco (Block ältester) all'ospedale da campo prigioniero.

Kolbe è stato deportato al campo di Auschwitz il 28 maggio 1941. Due mesi dopo ha dato la sua vita per un altro prigioniero - sconosciuto a lui Franciszek Gajowniczek che è stato scelto come uno dei dieci prigionieri per morire di fame nella rappresaglia per una fuga di un prigioniero. Kolbe si è offerto volontario per prendere il suo posto. Gajowniczek sopravvisse al campo e morì nel 1995.
Padre Massimiliano Kolbe fu beatificato da Papa Paolo VI nel 1971 e canonizzato da Papa Giovanni Paolo II il 10 ottobre 1982 con Franciszek Gajowniczek presente.
Nella foto: il certificato di morte del campeggio di Massimiliano Kolbe rilasciato il 19 agosto 1941.
La cella di fame nel Blocco 11 al Tour Virtuale Memorial di Auschwitz: http://panorama.auschwitz.org/tour1,3122,en.html
Lezione online sul clero cristiano e sulla vita religiosa su Auschwitz:http://lekcja.auschwitz.org/en_18_duchowienstwo/








13 agosto, 2021

LE SORELLE Brilleslijper, LE SORELLE DELLA MISERICORDIA

  LE SORELLE Brilleslijper, LE SORELLE DELLA MISERICORDIA. Una luce, nel buio più fitto dell'umanità, nei Campi di concentramento di Auschwitz e Bergen Belsen.





Pensiero del 13 agosto 2021

 Il matrimonio cristiano, è indissolubile perché chi si sposa davanti a DIO, e si riceve lo Spirito Santo, che consacra gli sposi e li rende una sola realtà umana e spirituale.

Meditazione sul Vangelo di Mt 19,3-12

“Comunione perfetta, totale e perenne”.

Il brano evangelico odierno ci ricorda che solo il matrimonio indissolubile risponde all’intenzione di Dio, che ha creato l’uomo e la donna perché nel matrimonio vivessero in una inscindibile comunione. Il “libello di ripudio” è stato una concessione alla durezza del cuore, che in ogni caso non può essere più ammessa in un discepolo del Signore. D’altra parte, il matrimonio stesso non è un bene assoluto: alcune persone, infatti, vi rinunziano per il Regno dei cieli. Tale è la verginità: lo stato di libertà del cuore per una dedizione a tempo pieno, all’annunzio del Vangelo e al servizio dei fratelli.

I farisei mettono alla prova Gesù e si appellano a una loro interpretazione della Legge, che afferma: “E’ lecito all’uomo ripudiare la propria moglie per qualsiasi motivo?”. Si tratta di una interpretazione largheggiante di Dt 24,1, che permetteva il divorzio nel caso in cui il marito avesse riscontrato nella moglie qualcosa di “ignominioso”. Non gli riferiscono l’interpretazione più restrittiva, secondo la quale solo l’adulterio dava la possibilità del ripudio. Qui, però, si tratta di mettere in difficoltà Gesù, e allora citano quell’opinione che permette il divorzio per qualsiasi motivo; era sufficiente che la moglie cucinasse male! Gesù non ritiene valide le loro opinioni e cita un passo della Genesi, con il quale si chiede perché il Creatore: “li fece maschio e femmina” (Gen 1,27) e immediatamente fornisce la risposta: “A causa di ciò l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno un essere solo” (Gen 2,24). La conclusione si impone da sé: ciò che Dio ha unito, l’uomo non lo separi. Tale è l’ideale di una comunione perfetta, totale e perenne. L’obiezione dei farisei, però, si appella a un “comando”: “Perché allora Mosè ha comandato di darle una dichiarazione scritta di ripudio e di mandarla via?”. Il libello scritto di ripudio che Mosè aveva “comandato”, era in realtà una difesa per la donna e mirava ad aiutare la moglie; ma il mandarla via era solo un “permesso” ed era, comunque, segno di peccato, come indica l’espressione biblica “durezza del cuore”. Gesù conclude affermando che simile situazione non può continuare, perché all’inizio non era così. Ed è a questo principio che si deve tornare. Il matrimonio cristiano, infatti, porta i segni dell’amore indefettibile di Dio e della sua alleanza, fedele anche quando noi siamo infedeli.

13 Agosto 2021

Il suo amore è per sempre

Accogliete la parola di Dio, non come parola di uomini, ma, qual è veramente, come parola di Dio.

( I Tessalonicesi 2,13)

SALMO RESPONSORIALE (Salmo 135)
Rit: Il suo amore è per sempre.

Rendete grazie al Signore perché è buono,
rendete grazie al Dio degli dèi,
rendete grazie al Signore dei signori.

Guidò il suo popolo nel deserto,
colpì grandi sovrani,
uccise sovrani potenti.

Diede in eredità la loro terra,
in eredità a Israele suo servo.
Ci ha liberati dai nostri avversari.

Accogliete la parola di Dio, non come parola di uomini, ma, qual è veramente, come parola di Dio.

( I Tessalonicesi 2,13)


12 agosto, 2021

Matteo e Luca

 Il vostro ricordo ci riscalda il cuore



Matteo e Luca

LETTERA AI MEMBRI DELLA CONGREGAZIONE DELLO SPIRITO SANTO SULL’USO DELL’ABITO TALARE (di Mons. Lefebvre)

 LETTERA AI MEMBRI DELLA CONGREGAZIONE DELLO SPIRITO SANTO SULL’USO DELL’ABITO TALARE

(di Mons. Lefebvre)
Miei cari confratelli,
le misure adottate in diversi paesi da un certo numero di vescovi riguardo all’abbigliamento degli ecclesiastici meritano riflessione, potendo avere conseguenze che non ci sono indifferenti.
In sé, il portare la veste talare o il clergyman ha un significato solamente nella misura in cui quest’abito sottolinea una distinzione dall’abito laico. La considerazione del decoro non è prevalente, anche se il panciotto accollato del clergyman e, a maggior ragione, l’abito talare manifestino indubbiamente una certa austerità e discrezione. Si tratta quindi maggiormente di una designazione del chierico o del religioso attraverso il suo abito. Va da sé che questa indicazione debba essere orientata nel senso della modestia, della discrezione, della povertà e non in senso opposto. È evidente che la particolarità dell’abito deve incutere rispetto e far pensare al distacco dalle vanità del mondo. È bene insistere soprattutto sulla principale qualità che caratterizza il chierico, il sacerdote, o il religioso, analogamente al militare, all’agente di polizia o stradale. Quest’idea si manifesta in tutte le religioni. Il capo religioso è facilmente riconoscibile dal suo vestiario, spesso dai suoi accompagnatori. Il popolo fedele annette grande importanza a questi segni distintivi. Si fa presto a distinguere un capo musulmano. I segni distintivi sono molteplici: gli abiti di qualità, gli anelli, le collane, il seguito danno a vedere che si tratta di una persona particolarmente onorata e rispettata. Lo stesso accade nella religione buddista e in tutto l’Oriente cristiano, cattolico o non. Il sentimento più che legittimo del popolo fedele è soprattutto il rispetto del sacro e inoltre il desiderio di ricevere le benedizioni del cielo, in ogni occasione legittima, da parte di coloro che ne sono i ministri.
In effetti il clergyman sembrava essere finora la tenuta che designava una persona consacrata a Dio, ma col minimo di segni apparenti, soprattutto nei paesi dove la giacca ecclesiastica, corrisponde esattamente alla giacca del laico. In certi paesi, come in Portogallo e fino a poco tempo fa in Germania, la giacca è lunga e scende fino alle ginocchia. I sacerdoti abituati a portare il clergyman in quei paesi lo considerano come un abito per uscire e non come un abito da casa. Spesso, d’altronde, questo abito è stato reso obbligatorio fuori casa dalle leggi dello Stato contro il cattolicesimo romano; il che spiega il desiderio di riprendere la talare non appena ci si trovi all’interno dei locali ecclesiastici: presbitèri e chiese. Vi è dunque una grande distanza tra lo spirito con il quale si porta il clergyman in quei paesi e lo spirito che si constata oggi in certi sacerdoti nei riguardi dell’abito ecclesiastico. Bisogna leggere le motivazioni date dai vescovi per aver chiaro il senso della misura presa. Poiché l’abito laico era portato senza più nulla che lo distinguesse in senso clericale, e al fine di vietarlo più sicuramente, è stata concessa l’autorizzazione a portare il clergyman, senza alcun incoraggiamento né tanto meno alcun obbligo. Ora bisogna constatare che dopo queste prescrizioni l’uso dell’abito laico ha enormemente progredito dappertutto, anche dove prima non esisteva. Praticamente, la norma adottata in molte diocesi ha rappresentato l’occasione di abbandonare ogni segno distintivo di chiericato. Le prescrizioni sono state completamente scavalcate. E non si parla più di abito talare nel presbiterio e spesso nemmeno di tunica nera in parrocchia. È dunque importante porsi la domanda: è opportuno o no che il sacerdote si possa distinguere e riconoscere in mezzo ai fedeli e ai laici, o, al contrario, oggi è auspicabile, in vista dell’efficacia dell’apostolato, che il sacerdote non si distingua più dai laici?
A questa domanda risponderemo richiamando il concetto di sacerdote secondo Nostro Signore e gli Apostoli e considerando i motivi avanzati dal Vangelo, al fine di sapere se sono, ad oggi, ancora validi.
In san Giovanni, c. 15, in particolare v. 19: “Se voi foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo; invece, poiché non siete del mondo, bensì io vi ho scelto dal mondo, per questo vi odia”; v. 21: “Non conoscono colui che mi ha mandato”; v. 27: “E voi pure mi renderete testimonianza perché siete stati con me fin dal principio”.
In san Paolo agli Ebrei, c. 5, v. 1: “Ogni gran sacerdote, infatti, scelto di fra gli uomini, è eletto per intervenire in favore degli uomini nelle loro relazioni con Dio”.
È chiaro che il sacerdote è un uomo che è stato scelto e distinto fra gli altri. Di Nostro Signore, san Paolo (Ebr. 7, 26) dice che è “separato dai peccatori”. Così dev’essere il sacerdote che da parte di Dio è stato oggetto di una scelta particolare.
A questa prima considerazione bisognerebbe aggiungere quella della testimonianza che il sacerdote deve rendere di Dio, di Nostro Signore, davanti al mondo: “Sarete allora miei testimoni” (Atti 1, . La testimonianza è una nozione che torna spesso sulle labbra di Nostro Signore. Come lui rende testimonianza del Padre suo, anche noi dobbiamo rendere testimonianza di lui. Tale testimonianza dev’essere vista e compresa senza difficoltà da tutti. “Non si mette una luce sotto il moggio ma sul candelabro e così fa lume a tutti quelli che sono nella casa” (Mt. 5, 15).
La veste talare raggiunge questi due fini in maniera chiara e inequivoca: il sacerdote è nel mondo senza essere del mondo, se ne distingue pur vivendoci, ed è in tal modo protetto dal male. “Non chiedo che tu li tolga dal mondo ma che tu li custodisca dal male. Essi non sono del mondo, come neppure io sono del mondo” (Gv. 17, 15-16). La testimonianza della parola, che è certo più essenziale al sacerdote della testimonianza dell’abito, è tuttavia notevolmente facilitata da quella manifestazione nettissima del sacerdozio, che è l’uso dell’abito talare. Il clergyman, benché sufficiente, è tuttavia già più equivoco. Non indica chiaramente il sacerdote cattolico. Quanto all’abito laico, esso sopprime ogni distinzione e rende la testimonianza molto più difficile e la preservazione dal male meno efficace. Questa scomparsa di ogni testimonianza nell’abito appare chiaramente come una mancanza di fede nel sacerdozio, una disistima del senso religioso del prossimo, nonché una vigliaccheria, una mancanza di coraggio delle proprie convinzioni.
MANCANZA DI FEDE NEL SACERDOZIO
Da quasi cent’anni i papi non cessano di deplorare la secolarizzazione progressiva della società. Il modernismo e il sillonismo [Il movimento eterodosso Sillon, fondato da Marc Sagnier, venne condannato da Pio X. N.d.T.] hanno diffuso gli errori circa i doveri delle società civili nei confronti di Dio e della Chiesa. La separazione della Chiesa dallo Stato, accettata, stimata talvolta come il migliore degli statuti, ha fatto penetrare a poco a poco l’ateismo in tutti i campi dell’attività dello Stato e in particolare nelle scuole. Quest’influsso deleterio continua, e siamo costretti a constatare che un buon numero di cattolici e persino di sacerdoti non hanno più un’idea esatta del posto della religione, e della religione cattolica, nella società civile e in tutte le sue attività. Il laicismo ha invaso tutto, anche le nostre scuole libere e i nostri seminari minori. In queste istituzioni la pratica religiosa è in netta diminuzione. La frequenza alla Comunione è sempre più esigua. Il Sacerdote che vive in una società di questo genere ha l’impressione crescente di essere estraneo ad essa, poi di essere molesto, testimone di un passato superato e definitivamente estinto. La sua su presenza è tollerata. È almeno un’impressione frequente nei giovani preti. Donde quel desiderio di allinearsi sul mondo secolarizzato, decristianizzato, che si traduce oggi nell’abbandono della veste talare. Questi sacerdoti non hanno più la nozione esatta del posto del sacerdote nel mondo e di fronte al mondo. Hanno viaggiato poco e giudicano superficialmente questi concetti. Se fossero rimasti per qualche tempo in paesi meno atei, li avrebbe edificati constatare che la fede nel sacerdozio è, grazie a Dio, ancora molto viva nella maggior parte dei paesi del mondo [evidentemente oggi la situazione è peggiorata rispetto a ciò che l’Autore constatava nel 1963. N.d.R.].
DISISTIMA DEL SENSO RELIGIOSO DEL PROSSIMO
Il laicismo, diciamo l’ateismo ufficiale, ha simultaneamente soppresso in molte relazioni sociali gli argomenti di conversazione gli argomenti riguardanti la religione. La religione è divenuta un fatto del tutto personale, e un falso rispetto umano l’ha relegata nel rango delle questioni intime, delle questioni di coscienza. Esiste pertanto in tutto l’ambiente umano così laicizzato un falso pudore che ha per conseguenza di evitare questo argomento di conversazione. Si suppone però gratuitamente che quelli che ci circondano, nelle relazioni d’affari o nelle relazione fortuite, siano areligiosi. Ora se è vero, purtroppo, che molte persone in certi paesi ignorano tutto della religione, è pur tuttavia un errore pensare che tali persone non abbiano più alcun sentimento religioso, ed è soprattutto un errore credere che da questo punto di vista tutti i paesi del mondo si somigliano. Anche in questo campo i viaggi ci insegnano molte cose, mostrandosi che gli uomini in generale sono ancora, grazie a Dio, molto preoccupati del problema religioso. Ritenere l’anima umana indifferente alle cose dello spirito e al desiderio delle cose celesti significa conoscerla male. È vero il contrario. Questi principi sono essenziali nell’esercizio quotidiano dell’apostolato.
UNA VIGLIACCHERIA
Davanti al laicismo e all’ateismo, allinearsi interamente vuol dire capitolare e rimuovere gli ultimi ostacoli alla loro diffusione. Il sacerdote è una predicazione vivente grazie alla sua veste, grazie alla sua fede. L’assenza apparente di sacerdoti, soprattutto in una grande città, costituisce un grave regresso nella predicazione del Vangelo. È la continuazione dell’opera nefasta della Rivoluzione che ha saccheggiato le chiese, delle leggi di separazione che hanno scacciato religiosi e religiose, che hanno laicizzato le scuole. È rinnegare il Vangelo, che ci ha predetto le difficoltà che verranno dal mondo al sacerdote e ai discepoli di Nostro Signore.
Queste tre considerazioni hanno conseguenze gravissime nell’anima del sacerdote, che si secolarizza, e trascinano le anime dei fedeli verso una rapida secolarizzazione. Il sacerdote è il sale della terra. “Se il sale diventa insipido con che gli si ridarà sapore? A null’altro è buono che a esser buttato via e calpestato dagli uomini” (Mt. 5, 13). Ahimè, non è forse questo ciò che aspetta al varco in ogni momento questi sacerdoti che non vogliono più apparire tali? Il mondo non li amerà per questo, bensì li disprezzerà. Quanto ai fedeli, saranno dolorosamente colpiti dal fatto di non sapere più con chi hanno a che fare. La veste era una garanzia di autenticità del sacerdozio cattolico.
Considerati il contesto storico, le circostanze, i motivi, le intenzioni, il nostro problema non è perciò irrilevante, una pura questione, molto secondaria, di moda ecclesiastica. Si tratta della funzione stessa del sacerdote come tale, nel mondo e nei confronti del mondo.
Ed è proprio per questo che la norma che autorizza il clergyman non ha mai avuto alcun effetto restrittivo nei confronti dell’uso dell’abito laico, anzi ha assunto il significato di un incoraggiamento a portarlo. Il problema non è più se il sacerdote dovrà mantenere la talare oppure portare il clergyman fuori e la talare in chiesa o in canonica; ci domandiamo se il sacerdote manterrà o no un qualunque abito ecclesiastico.
Noi, in queste circostanze, abbiamo scelto di mantenere l’abito ecclesiastico, cioè la veste talare nelle nostre Province dov’è stata in uso fino a ora, e il clergyman nelle Provincie là dov’è usato, sempre portando la veste nelle comunità e in chiesa. Diciamo “in queste circostanze” giacché va da sé che, se fossero prese nei confronti dell’abito ecclesiastico nuove misure che salvaguardassero i due principi sopra elencati – il segno esteriore del sacerdozio e la testimonianza evangelica – e questo in modo decoroso e discreto, ma evidente, non esiteremo ad adottarle.
Possano, miei cari confratelli, queste considerazioni farci aderire con tutta l’anima nostra al nostro sacerdozio e alla nostra missione in questo mondo. Con Nostro Signore speriamo di poter dire alla fine della nostra vita: “Padre, ho manifestato il tuo nome agli uomini che mi hai dato traendoli dal mondo … Ti ho reso gloria sulla terra, ho compiuto l’opera che mi hai affidato” (Gv. 17, 3, 6)
Parigi, festa di Nostra Signora di Lourdes, 11 febbraio 1963
[Fonte: Marcel Lefebvre, Un Vescovo parla, Milano, Rusconi, 1975, pp. 9-16. Testo raccolto a cura di Giuliano Zoroddu]




Pensiero del 12 agosto 2021

 Il perdono, è un atto d'amore, che facciamo prima a noi stessi, perché il rancore avvelena l'anima.

Meditazione sul Vangelo di Mt 18,21 – 19,1

“Perdona fino a settanta volte sette”.

Se non rimettiamo i debiti “di cuore” – vale a dire, “con un sincero perdono”- al nostro fratello, non possiamo attenderci il perdono di Dio. Né si tratta di perdonare una volta sola, o qualche volta, ma sempre. Un impegno che sentiamo difficile, anche quando si tratta di una volta sola: ma l’esempio di Cristo e la sua grazia, ci danno la forza di compiere il più grande atto di carità e di rendere la più eloquente testimonianza cristiana, che è proprio quella del perdono. Sempre dobbiamo perdonare al nostro prossimo; in un certo senso, infatti, siamo noi stessi a dare a Dio la misura del suo perdono dei nostri peccati.

La volontà di Gesù e quella del Padre sono una volontà di perdono. Questo Pietro lo ha capito, ma quante volte lo si deve fare? Ci sono dei limiti? Pietro ne azzarda uno: “Fino a sette volte?”. Ma Gesù, che è più misericordioso dei maestri del tempo, che giungevano fino a tre volte, risponde: “Fino a settanta volte sette”. Ovvero: sempre. E per imprimere bene nella mente questa volontà di perdono, Egli narra una parabola, che si sviluppa in tre atti. Il racconto sembra descrivere il comportamento insolito di un “re”, che poi faciliterà il rimando a Dio. Egli è presentato come un padrone potente con i suoi sudditi, che tratta come tanti servi. Un giorno gli viene portato uno che gli deve diecimila talenti: una cifra esorbitante! È logico, quindi, che quel servo sarà condannato: venduto schiavo lui e la sua famiglia. Ma ecco che la scena cambia: quel servo si getta a terra, davanti al suo padrone e gli promette l’impossibile, cioè di restituirgli tutto. E il padrone, che ha appena comandato di venderlo schiavo, ora gli perdona tutto. Perché? Perché il padrone ne ha avuto compassione. Questo atteggiamento non descrive più un re qualsiasi, ma descrive la compassione di Dio, che ama il peccatore pentito e che perdona sempre. Chi riceve misericordia, però, è tenuto a usare misericordia; invece, quel servo, uscito graziato dal suo padrone, appena si incontra con uno che gli deve solo cento denari, cioè un niente in confronto ai diecimila talenti, non è capace di condonargli il debito. Di fronte a tanta ingratitudine, dinanzi a un uomo dal cuore così duro, si può solo inorridire e ribellarsi. La parabola ci insegna che il perdono che abbiamo ricevuto, dobbiamo viverlo, perdonando a nostra volta e perdonando di cuore, cioè nell’intimo.

12 Agosto 

Trema o terra, davanti al Signore

Fa risplendere il tuo volto sul tuo servo ed insegnami i tuoi decreti.

(Samo 118,135)

SALMO RESPONSORIALE (Salmo 113)
Rit: Trema o terra, davanti al Signore.

Quando Israele uscì dall’Egitto,
la casa di Giacobbe da un popolo barbaro,
Giuda divenne il suo santuario,
Israele il suo dominio.

Il mare vide e si ritrasse,
il Giordano si volse indietro,
le montagne saltellarono come arieti,
le colline come agnelli di un gregge.

Che hai tu, mare, per fuggire,
e tu, Giordano, per volgerti indietro?
Perché voi, montagne, saltellate come arieti
e voi, colline, come agnelli di un gregge?

Fa risplendere il tuo volto sul tuo servo ed insegnami i tuoi decreti.

(Samo 118,135)

11 agosto, 2021

Santa Chiara d'Assisi

 Santa Chiara d'Assisi



Nome: Santa Chiara
Titolo: Vergine
Nascita: 16 luglio 1194
Morte: 11 agosto 1253
Ricorrenza: 11 agosto
Tipologia: Commemorazione




Nacque Chiara nell'anno 1193 da nobili e ricchi genitori in Assisi, e fin da giovanetta dimostrò una grande pietà e devozione. In quegli anni la fama del suo concittadino Francesco cominciava ad allargarsi, e Chiara, decisa di consacrarsi al suo Signore, si presentò a lui per comunicargli il suo ardente desiderio di ritirarsi dal mondo. Francesco riconobbe in questa piissima giovane la chiamata di Dio e perciò la confermò nel suo proposito di consacrare a Gesù Cristo la sua verginità.

Venuto il giorno stabilito, Chiara fuggì dalla casa paterna e si portò alla chiesa di S. Damiano ove Francesco, assistito dai suoi monaci, le tagliò i capelli e la rivestì del ruvido saio di penitenza di cui egli era già ricoperto.

I suoi parenti, oltremodo irritati per questa sua risoluzione, tentarono in vari modi, anche colla violenza, di sottrarla al sacro ritiro, ma Chiara, colla grazia del Signore, superò ogni ostacolo.

Poco dopo si unirono a lei numerose vergini, e perfino sua sorella Agnese: tutte si esercitavano nell'orazione e nelle mortificazioni quotidiane della vita comune, di cui Chiara dava un sì chiaro esempio. Dormiva sulla nuda terra, qualche volta tormentandosi ancora nelle brevi ore di riposo con sarmenti o con duro legno che usava per guanciale. Portava sempre ai fianchi un aspro cilicio, digiunava tre volte alla settimana a pane ed acqua.

Devotissima del SS. Sacramento, passava lunghe ore innanzi all'altare, assorta in profonda meditazione. E Gesù la ricompensò di questo suo affetto anche col dono dei miracoli. Infatti avendo una volta i Saraceni tentato di invadere il suo monastero, Chiara, animata da fiducia nel Signore, quantunque inferma, prese tra le mani l'ostensorio e fattasi portare alla finestra minacciata del monastero tracciò sugli infedeli un gran segno di croce dicendo: « Ecco, o mio Signore, vuoi tu forse consegnare nelle mani dei pagani le inermi tue serve, che ho allevato per il tuo amore? Proteggi, ti prego, Signore, queste tue serve, che io ora, da me sola, non posso salvare ». Subito una voce, come di bimbo, risuonò alle sue orecchie dal Tabernacolo: "Io vi custodirò sempre!". La vergine, con il volto bagnato di lacrime, rassicurò le sorelle: "Vi do garanzia, figlie, che nulla soffrirete di male; soltanto abbiate fede in Cristo!". Una luce vivissima investì gli assalitori accecandoli, mentre una forza arcana rovesciava le scale e precipitava a terra i predoni.

S. Chiara era pure devota della passione di Gesù Cristo, che meditava versando copiosissime lacrime. Da questa devozione attinse tanto amore alla santa povertà che ricusò perfino le proposte fattele dal Papa Gregorio IX di una povertà più mitigata, ed ottenne per sè e per le sue suore quello che chiamò « il privilegio della povertà ».

Negli ultimi anni di sua vita, Chiara fu molestata da continue infermità e patimenti corporali, ma colla sua preghiera fervente ottenne dal Celeste Sposo una pazienza invitta, e fra i suoi dolori si dimostrò sempre contenta e serena.

Prima di morire fece testamento: non per lasciare beni temporali, ma bensì per lasciare alle figliuole del suo cuore la santa povertà come loro divisa, come loro difesa e come loro gloria, e a 60 anni di età, piena di meriti, nell'anno 1253 rese la sua bell'anima a Dio.

PRATICA. Mettiamo tutta la nostra confidenza in Gesù Eucaristico e saremo liberati da ogni male, specie dal peccato.

PREGHIERA. Esaudiscici, o Dio nostro Salvatore, affinché, come ci allietiamo della festa della tua beata vergine Chiara, così veniamo ammaestrati nella devozione.

MARTIROLOGIO ROMANO. Memoria di santa Chiara, vergine, che, primo virgulto delle Povere Signore dell’Ordine dei Minori, seguì san Francesco, conducendo ad Assisi in Umbria una vita aspra, ma ricca di opere di carità e di pietà; insigne amante della povertà, da essa mai, neppure nell’estrema indigenza ed infermità, permise d'essere separata.

Pensiero del 11 agosto 2021

 Il primato di Gesù, nella vita di Santa Chiara, ci aiuta oggi, a ritrovare nella nostra povera esistenza l'esigenza di Lui, l'Unico necessario.

Meditazione sul Vangelo di Mt 18,15-20

“Un cammino di conversione continua”.

Il brano evangelico odierno ci ricorda che la correzione fraterna è un dovere. Ma occorre fare molta attenzione allo stile che la deve improntare: stile caratterizzato dalla discrezione e dalla carità. Non è cosa da poco, infatti, praticare la correzione. E il discepolo sa che, al fine di attuarla veramente in Cristo, egli è chiamato a crescere sempre più nella determinazione, nella coerenza e nella tenerezza verso il suo prossimo. Tenendo ben presente che, quando il male dilaga e diviene ostinato, allora è tutta la comunità che deve essere necessariamente interessata alla correzione e, nel contempo, è anche avvertita di stare in guardia dal male che la può contagiare.

Il senso di una profonda carità deve dominare nella comunità. Nulla deve farsi a suon di tromba! Il male non dovrebbe mai essere pubblicizzato. Se uno solo sa chi è il colpevole, cerchi innanzitutto di risolvere da solo la questione e di riabilitare il fratello che ha peccato, e lo faccia con carità. Non gli rinfacci il peccato, ma cerchi di aiutarlo a esaminarlo in tutti i suoi aspetti, a capire il non senso di quanto ha fatto e a sentire la necessità di intraprendere un personale e spontaneo cammino di conversione. Solo quando ciò si realizzerà, egli potrà dire di “avere guadagnato suo fratello”. Può, però, succedere anche il contrario, e allora ecco un altro procedimento che tende a limitare la divulgazione del male e a compiere un preciso precetto della legge: “ogni cosa venga decisa sulla parola di due o tre testimoni” (Dt 19,15). Solo nel caso che fallisca anche questo tentativo, allora deve essere informata l’intera comunità, l’assemblea cristiana, che si riunisce, non per pronunziare un giudizio di condanna, ma per cercare di ricuperare il fratello che ha peccato. Ora, può succedere che quella persona non ascolti neppure l’assemblea, e allora non resta altro che constatare la sua estraneità alla comunità, bisogna considerarlo come un pagano o un pubblicano, cioè come un pubblico peccatore che ha disonorato agli occhi di tutti la sua fede. La scomunica, di cui si parlerà più tardi nella Chiesa, è questo: la comunità non pronunzia nessuna sentenza di condanna, ma con sofferenza, constata e ufficialmente dichiara, che un fratello non le appartiene più. Ciò che conta qui, è come la comunità deve esercitare questo potere: nella carità, nella volontà di ricupero, nella preghiera.

11 Agosto 

Sia benedetto Dio: «È lui che ci mantiene tra i viventi».

Dio ha riconciliato a sé il mondo in Cristo, affidando a noi la parola della riconciliazione.

(II Corinzi 5,19)

SALMO RESPONSORIALE (Salmo 65)
Rit: Sia benedetto Dio: «È lui che ci mantiene tra i viventi».

Acclamate Dio, voi tutti della terra,
cantate la gloria del suo nome,
dategli gloria con la lode.
Dite a Dio: «Terribili sono le tue opere!».

Venite e vedete le opere di Dio,
terribile nel suo agire sugli uomini.
Popoli, benedite il nostro Dio,
fate risuonare la voce della sua lode.

Venite, ascoltate, voi tutti che temete Dio,
e narrerò quanto per me ha fatto.
A lui gridai con la mia bocca,
lo esaltai con la mia lingua.

Dio ha riconciliato a sé il mondo in Cristo, affidando a noi la parola della riconciliazione.

(II Corinzi 5,19)

10 agosto, 2021

San Lorenzo

 San Lorenzo

Nome: San Lorenzo
Titolo: Diacono e martire
Nascita: 226, Osca, Spagna
Morte: 10 agosto 258, Roma
Ricorrenza: 10 agosto
Tipologia: Festa




Nacque ad Osca in Spagna nel 226 da nobilissimi e santi genitori. Tanti furono i doni che ricevette nei Sacramenti del Battesimo, Cresima ed Eucaristia, che sembrò prevenuto dalla grazia; mentre era ancora bambino s'astenne sempre da ogni divertimento puerile e fu a tutti modello di docilità e santa innocenza. Ricevuta la prima istruzione in patria, passò a Saragozza per apprendere lettere, ed in questa celebre Università i suoi progressi furono sì rapidi e meravigliosi, che era ritenuto il migliore di tutti gli allievi. In questo tempo il Vescovo di quella città, vedendo in lui un tal candore di vita, gli conferì gli ordini dell'Ostiariato, del Lettorato ed Esorcistato.

Trovandosi nella penisola Iberica il futuro Papa Sisto II, allora arcidiacono della Chiesa Romana, avendo udito parlare delle virtù di Lorenzo, lo condusse seco a Roma, ove personalmente ebbe cura della sua formazione. All'età di 17 anni, per il suo progresso nella scienza e nella virtù, fu dal Pontefice Fabiano ordinato accolito, sei anni dopo suddiacono e quindi diacono: aveva 27 anni. Nel 258, essendo stato eletto alla Cattedra di Pietro Sisto II, Lorenzo divenne arcidiacono della Chiesa Romana, càrica che corrisponde alla attuale dignità cardinalizia.

Ma mentre la Chiesa lavorava e si espandeva ognor più fra i pagani, specie per l'infuocata predicazione di Lorenzo, si scatenò la persecuzione di Valeriano che al dire di San Dionisio fu delle più terribili.

Lorenzo fu imprigionato e torturato. Poco tempo dopo anche S. Sisto venne preso e condannato al carcere. Mentre il Pontefice veniva barbaramente trascinato dalla soldatesca, gli si fece incontro Lorenzo che col volto bagnato di lacrime incominciò ad esclamare: « Dove vai, o Padre, senza il tuo figlio? Per dove ti incammini, o santo sacerdote, senza il tuo diacono? ». Sisto gli rispose: « Io non ti lascio né ti abbandono, o figlio, ma a te spettano altri combattimenti... Dopo tre giorni mi seguirai... Prendi le ricchezze ed i tesori della Chiesa e distribuiscili a chi tu meglio credi ».

Lorenzo fece diligente ricerca di quanti poveri e chierici potè trovare nei quartieri di Roma e distribuì loro tutte le ricchezze. Poscia, salutati per l'ultima volta i Cristiani, si portò da Valeriano che già l'aveva fatto chiamare, ed all'intimazione di recargli i beni della Chiesa, promise che entro tre giorni glieli avrebbe mostrati. Percorse le vie della città, raccolse un gran numero di poveri e glieli condusse dicendo: « Ecco qui i beni della Chiesa! ». Ma quell'uomo irritato gridò: « Come hai tu ardito beffarti di me?... Io so che tu brami la morte... Ma non credere di morire in un istante poichè io prolungherò i tuoi tormenti ». Ordinò infatti che Lorenzo fosse posto su una graticola di ferro rovente ed arrostito lentamente. Ma nel cuore del Martire ardeva un incendio ben maggiore! Quando fu bruciato da una parte, il carnefice ordinò che lo rivoltassero, ed avendo gli aguzzini ubbidito, il Martire con volto sereno disse: « Ora potete mangiare, perchè la mia carne è già cotta abbastanza ».

Nuovi insulti uscirono dalla bocca del prefetto, ma il Martire, cogli occhi rivolti al cielo si offriva al Signore invocando su Roma la divina misericordia, per incoraggiare ancora una volta i Cristiani presenti. Tra questi spasimi spirò la sua grande anima. Era il 10 agosto 258.

PRATICA. Sopportate con pazienza e rassegnazione le sofferenze della vita ed offritele a Dio per la propagazione della fede.

PREGHIERA. Dacci, te ne preghiamo, Dio onnipotente, la grazia di estinguere le fiamme dei nostri vizi, tu che desti al beato Lorenzo la forza di superare il fuoco dei suoi tormenti.

MARTIROLOGIO ROMANO. Festa di san Lorenzo, diacono e martire, che, desideroso, come riferisce san Leone Magno, di condividere la sorte di papa Sisto anche nel martirio, avuto l’ordine di consegnare i tesori della Chiesa, mostrò al tiranno, prendendosene gioco, i poveri, che aveva nutrito e sfamato con dei beni elemosinati. Tre giorni dopo vinse le fiamme per la fede in Cristo e in onore del suo trionfo migrarono in cielo anche gli strumenti del martirio. Il suo corpo fu deposto a Roma nel cimitero del Verano, poi insignito del suo nome.