La storiografia contemporanea sta sempre più scoprendo i fatti di
sangue che nell’immediato dopoguerra italiano interessarono preti e
seminaristi per mano di partigiani comunisti. Fra essi edifica e
commuove la figura del giovane Rolando Rivi, individuato, rapito e
poi ucciso per quella talare che amava e gli richiamava la veste
inconsunta di Cristo e il suo impegno d’imitarlo e celebrarlo una
volta diventato sacerdote.
In Emilia, nella
chiesetta di Visignolo di Baiso, sulle prime alture dell’Appennino,
in un grande quadro con il crocifisso attorniato di santi, si nota la
presenza di un seminarista con la veste e il cappello da prete.
Lo fece dipingere
circa trent’anni fa il parroco, convinto che quel giovane aspirante
al sacerdozio sarebbe diventato prima o poi un santo canonizzato.
Colpisce il suo viso
pulito, il suo sguardo profondo. Si tratta del seminarista Rolando
Rivi, una delle vittime che nell’immediato dopoguerra, a pochi
chilometri da quel luogo, caddero a causa della furia omicida dei
partigiani comunisti.
La storia, fino a
pochi anni fa, ne ha parlato con reticenza, ma è innegabile che la
terra emiliana fu particolarmente irrorata dal sangue di preti e
seminaristi che in quel periodo furono vittime di una persecuzione in
odio a Cristo e alla Chiesa.
Poche settimane
prima della sua uccisione, un partigiano appostato nel
paese di Rolando ed armato fino ai denti, disse apertamente: “I
fascisti e i tedeschi ormai sono alla fine… La nostra lotta deve
essere fatta ora contro i padroni, contro i ricchi e certi
preti… Questi sono adesso i nostri nemici”.
L’odio che aveva
dilagato durante la guerra, continuava ad accecare le menti e
seminare morte innocente attraverso l’ideologia della lotta di
classe e la rivoluzione proletaria operata da un gruppo di uomini
violenti che saranno celebrati ancora alcuni decenni dopo, persino
nei libri di scuola, come liberatori ed eroi nazionali.
Rolando Rivi fu
rapito, torturato e ucciso per la sua fedeltà all’abito talare che
suscitava stizza nei partigiani e lo riteneva facilmente
individuabile e vulnerabile.
Vollero mettere a
tacere un futuro prete, ma la muta eloquenza del suo martirio è
diventata predica più forte della morte.
Rolando Rivi nacque
a San Valentino di Reggio Emilia il 7 gennaio 1931 da Roberto ed
Albertina Canovi, agricoltori umili e ricchi di fede. Fu battezzato
il giorno seguente e gli venne aggiunto anche il nome di Maria,
poiché al termine del rito fu affidato alla Madonna.
Dopo la trasmissione
della vita fisica, la vita soprannaturale attraverso il
battesimo, fu il dono più grande dei suoi genitori. Si
trattava di gente semplice, ma animata da un senso corretto della
dottrina cristiana e una fede viva che riconosce il peccato originale
con le sue conseguenze, ma anche la giustificazione e la grazia
santificante attraverso il battesimo.
I parroci di San
Valentino, don Luigi Jemmi prima e don Olinto Marzocchini poi, ebbero
il merito di formare alla dottrina e alla pietà cristiana
generazioni di parrocchiani.
Il loro apostolato
fecondo era alimentato da una ricca vita interiore trasparente e
percettibile anche agli occhi di un bambino.
Rolando infatti era
affascinato dal suo parroco don Olinto: “Che bello -
pensava - diventare come lui! Celebrare la Messa con Gesù tra
le mani, portare le anime a Gesù…”.
Vedeva il suo farsi
tutto a tutti per guidare il suo gregge alla vita cristiana;
l’impegno costante per l’Azione Cattolica con le adunanze
settimanali ben distribuite nei giorni per favorire la partecipazione
delle diverse categorie; la sua presenza tra i ragazzi e i giovani
che chiamava a un’intensa vita di preghiera eucaristica e mariana;
il suo catechismo agli adulti ogni domenica pomeriggio, assai
frequentato; la carità che esercitava verso i poveri; la sua
disponibilità continua a confessare e a dirigere le anime, a
visitare i malati; la sua preghiera prolungata presso il tabernacolo
da dove, anche a tarda ora, vegliava e pregava per i suoi
parrocchiani, specie quelli sul fronte o caduti in guerra.
Il momento più
bello della sua infanzia - ricorderà Rolando - era quando poteva
assistere alla S. Messa come chierichetto. Era colpito dalle parole
del sacerdote. Omelie brevi ma che andavano dritto al cuore, messaggi
che interpellavano, interrogavano e facevano riflettere sul senso
dell’esistenza e sul destino eterno.
“Sacerdos propter
Eucaristiam” (il sacerdote è tale per l’Eucarestia).
Rolando si
domandava: “Perché non posso diventare anch’io come lui?”.
Appena undicenne
quindi entrò nel seminario diocesano di Marola. Era il 26 ottobre
del 1942. Quello stesso giorno, come allora si usava, il
ragazzo vestì con gioia l’abito talare.
Guidato dal
direttore spirituale don Alfredo Castagnetti affidò la sua nuova
vita alla Madonna nell’ottobre dedicato alla preghiera del rosario.
Proprio in quell’anno ricorreva il 25° anniversario delle
apparizioni della Madonna a Fatima (1917-1942).
Il rettore mons.
Luigi Bronzoni, prete colto, autorevole e paterno, insegnava più con
la vita che con le parole offrendo un salutare esempio di amore verso
Dio e verso ciascuno dei ragazzi affidati alle sue cure.
All’approssimarsi
del periodo estivo, spiegava che in vacanza i seminaristi avrebbero
dovuto non solo guardarsi dai compagni cattivi e dalle occasioni di
peccato, ma ancora di più distinguersi dagli altri nella preghiera e
nel servizio in parrocchia, nello studio e nella purezza, nelle opere
buone e nella dedizione al Signore.
“Anche in vacanza
- aveva raccomandato - il seminarista porta sempre
l’abito talare, segno della nostra appartenenza a Gesù”.
Rolando incoraggiava
i compagni dicendo: “Saremo sacerdoti un giorno con l’aiuto del
Signore. Io andrò missionario. Andrò a far conoscere Gesù a quelli
che non lo conoscono ancora. Il nostro dovere di sacerdoti è quello
di pregare molto e salvare tante anime e portarle in Paradiso”.
Il papà lo
considerava con commozione e fierezza: “il mio pretino tanto
buono e studioso”.
Rolando anche nei
giorni di vacanza dei caldi mesi estivi portava con orgoglio la veste
nera con il colletto bianco. Qualche suo compagno, solito a togliersi
per comodità l’abito da prete e anche qualcuno dei suoi familiari
gli dicevano: “Sei in vacanza togliti la veste! Sei più libero di
muoverti, di giocare …” Lui rispondeva: “Non devo lasciare
il mio abito, non posso. E’ il segno che io sono di Gesù!”
La veste talare non
creava per lui una barriera umana o sociale nelle relazioni con gli
altri né tanto meno un impedimento allo svolgimento di ogni
attività, anche ricreativa. Il seminarista Rolando Rivi era sempre
un trascinatore. Testimonia un compagno di seminario, ora sacerdote e
parroco, don Vezzosi: “Rolando era vivace e svelto in tutti i
giochi: a pallone, a pallavolo, Campione della classe, della
camerata. Attentissimo a scuola, studioso esemplare, innamoratissimo
di Gesù. Tutto in lui era superlativo. Si stava volentieri con lui;
contagiava gioia e ottimismo. Era l’immagine perfetta del ragazzo
santo, ricco di ogni virtù portata, nella vita quotidiana,
all’eroismo”.
Dopo aver
“incantato” i ragazzi del paese con la sua abilità e conquistati
con il suo ascendente, faceva la proposta: “ora andiamo a pregare
Gesù in chiesa”. Li trascinava davanti all’altare e insegnava
loro a trattenersi con Gesù, il loro più grande Amico.
Tutti sapevano
quanto fosse affezionato al suo abito da prete. Lo indossava sempre.
Così per le strade
di San Valentino tutti lo vedevano passare, spesso diretto alla
chiesa, solo o con altri ragazzi, sereno, sorridente, pronto al
saluto, sempre con il suo abito austero.
La sua vita,
tuttavia, non fu solo gaiezza e spensieratezza. Alle sue vicende
familiari e personali faceva da sfondo la Grande Guerra nella quale
gli morirono tre zii. Fu lui che più di ogni altro consolò il cuore
della nonna, affranta per la perdita dei figli.
Altre sorprese
spiacevoli si profilavano all’orizzonte… Nel settembre 1944 il
seminario fu occupato da un centinaio di soldati tedeschi. I
seminaristi dovettero sfollare e tornare a casa.
Rolando Rivi, come i
suoi amici, dovette tornare in famiglia a San Valentino, ma portò
con sé i libri proponendosi di studiare italiano, latino
e matematica per non perdere tempo in attesa di tempi migliori.
A casa continuò a
sentirsi seminarista. Buttato nel mondo, come un fuscello nella
bufera, la sua gioia erano la Messa quotidiana con la Comunione, la
meditazione, la visita pomeridiana a Gesù Eucaristico, il rosario
alla Madonna. Il luogo prediletto era sempre la casa parrocchiale.
Oltre allo sport, altra grande sua passione era la musica. Quando
poteva posare le mani sulla tastiera dell’harmonium, quasi si
estasiava a suonare.
Malgrado quel
periodo di prova si mostrava sereno e sapeva essere anche allegro.
Mai si era chiuso in se stesso negli anni in seminario, ma, sempre
vivace, si rivelava mite e socievole, così che si stava bene con
lui. Era talmente simpatico che tutti si fermavano a parlargli.
Riprese i contatti con i bambini, con i coetanei. In casa alla sera,
guidava lui la preghiera, il rosario, accanto alla nonna Anna.
Ai bambini, ai
cuginetti, anche solo di cinque, sei anni, insegnava a servire la
Messa e giocava con i più piccoli, per diffondere serenità nei
giorni più tristi.
Rolando si sentiva
molto sicuro nel suo ruolo per così dire di tutore nei confronti dei
giovani.
La vita di San
Valentino trascorse abbastanza tranquilla fino all’estate del 1944.
Poi iniziarono scorribande di tedeschi, di fascisti e di partigiani.
Si ebbero ruberie, razzie, fatti spiacevoli e violenze anche contro i
sacerdoti.
Il sacerdote, servo
del Vangelo, era diventato veramente il segno di contraddizione
prima, durante e dopo la guerra. Chiunque negava l’amore, se la
prendeva con questo testimone di Cristo.
Diventava pertanto
sempre più forte l’odio contro i preti che operavano per la
pacificazione degli animi e denunciavano le violenze, da qualunque
parte venissero compiute. I preti uccisi e quelli che si volevano
eliminare erano veri amici del popolo. Nei momenti più oscuri,
davanti al bisogno di pane, di protezione, di lavoro e di aiuto, essi
sapevano offrire tutto, anche privandosi di persona. Ma il sistema di
“percuotere il pastore per disperdere i gregge” (Zc 13,7) è
proprio dei nemici di Dio in qualsiasi paese e di qualsiasi colore,
come la storia dimostra.
Rolando sperimentò
questo clima, quando gli capitò di essere deriso dai partigiani
comunisti che scorrazzavano per le colline.
Ricorda oggi un suo
amico: “I partigiani comunisti, quando ci incontravano per strada,
lanciavano nei nostri confronti frasi oscene con minacce per il
futuro non certo rassicuranti”.
Rolando sentiva
tutto e soffriva senza lasciarsi intimidire da nessuno, fiero
d’appartenere a Gesù e di essere un prescelto da Lui per una
grande missione.
Continuò ad essere
il ragazzo buono e socievole verso tutti. Nella sua semplicità
credeva nella bontà degli altri parendogli impossibile che qualcuno
potesse fare davvero del male.
A san Valentino fu
preso di mira il parroco don Marzocchini che tanto ispirò la
vocazione di Rolando. Una mattina d’estate si venne a sapere che
durante la notte precedente l’avevano aggredito e umiliato. Gli
avevano portato via tutto, comprese le scarpe che aveva ai piedi.
Durante la S. Messa,
celebrata dopo la brutale aggressione, don Olinto si sentì male:
Rolando e l’altro chierichetto che servivano all’altare capirono
che qualcosa di grave era successo. Quando Rolando lo seppe
chiaramente, pianse come per un’offesa fatta al proprio padre.
Non disse parole di
odio verso i partigiani.
Don Olinto
Marzocchini intanto fu fatto riparare in luogo più sicuro. Per
assicurare il servizio sacerdotale arrivò in paese un giovane prete
venticinquenne: don Alberto Camellini.
Ancora oggi
racconta: “Si viveva un’atmosfera di paura e di tensione che
rendeva spesso difficili i rapporti tra la gente. Per conoscere
luoghi e parrocchiani mi facevo accompagnare nelle visite da alcuni
seminaristi tra cui Rolando Rivi”.
Il seminarista ne
profittò per spiegargli bene chi era e i suoi progetti per
l’avvenire (… sarò prete e missionario) per rivelargli il suo
cuore, il suo amore a Gesù e alla Chiesa e anche il suo stile
vivace, a volte estroso, le sue doti musicali. Don Alberto prese a
conoscerlo e ad apprezzarlo.
Tutti vedevano
passare per la strada il giovane seminarista, tutti conoscevano il
suo stile di vita, indicato come “il pretino”. I
genitori gli dicevano: “Togliti la veste nera. Non portarla
per ora…”. Gli fecero notare che forse era conveniente farlo
in quei momenti così insicuri.
Ma Rolando
rispondeva: “Ma perché, che male faccio a portarla? Non ho motivo
di togliermela. Io studio da prete e la veste è segno che io
sono di Gesù”.
Di Gesù, di
Gesù solo, Rolando voleva essere tutti i giorni, tutti gli istanti
della sua esistenza.
“Gesù della mia
vita”. Gesù del mio cuore”, scriveva. Per Gesù era
pronto a qualsiasi cosa: non solo a perdere la faccia, ma anche al
sacrificio.
Certo quella veste
richiamo al Dio eterno e a Cristo che salva e giudica irritava quelli
che non volevano saperne. Irrita anche oggi: costringe a pensare a
Qualcuno più facile da bestemmiare che da dimenticare.
Nonostante il
rischio, Rolando non volle togliersi mai quell’abito che per lui
significava già un impegno per tutta la vita.
Affezionatissimo
alla talare, riteneva onore e gloria indossarla sempre senza
lasciarla mai, come una dichiarazione d’amore e d’appartenenza.
Intuiva cosa
significasse prepararsi al sacerdozio in quel clima, ad essere prete
un domani in un ambiente simile. Ma non si scoraggiò, né si chiuse
in casa: mai impaurito, sempre sereno e presente nel paese, con il
suo abito ben visibile, il suo inconfondibile stile, con la sua
identità sempre chiara, il gusto di una missione da compiere,
diremmo noi oggi. In quel clima tremendo nonostante tutto continuava
a portare la veste talare.
Diceva: “No,
non posso, non devo togliermi la veste. Io non ho paura, io sono
fiero di portarla. Non posso nascondermi, io sono del Signore”.
Aveva solo 14 anni,
poco più di un bambino, ma mai si era mimetizzato né aveva nascosto
la sua chiara identità d’aspirante appassionato al sacerdozio.
Continuava ad indossare la veste nera e spesso il cappello da prete.
In maniera istintiva
era consapevole che la mimetizzazione mortifica la pastorale che si
avvale di segni e di simboli, ma anche di gesti concreti.
Ieri come oggi
l’abito ecclesiastico non lascia indifferenti chi lo porta e chi lo
vede.
Può essere odiato,
non in se stesso, ma per una realtà più profonda alla quale
richiama, per molti scomoda.
Può essere dismesso
per le esigenze che esso comporta a chi lo porta come rivelatore di
coerenza di impegni assunti davanti a Dio e davanti agli uomini.
In tutti, però, se
non ammirazione suscita rispetto perché soprattutto in ambienti
ostili al cristianesimo mostra che chi lo usa serve una realtà nella
quale crede piuttosto che servirsi d’essa.
Racconta Mons.
Giuseppe Mora: “Spesso in paese scoppiavano dispute alle quali
non era facile rispondere. Era più conveniente tacere. Capitò che
in una discussione alcuni attaccarono ingiustamente la Chiesa e
l’attività dei sacerdoti. Rolando difese a fronte alta Gesù, il
Papa, la chiesa e i sacerdoti, senza paura alcuna”.
Allo stesso
modo difendeva il parroco don Marzocchini dalle calunnie dei
partigiani comunisti.
Era conosciuto per la sua fede e il suo
coraggio, era ammirato, ma anche da taluni malvisto perché aveva
apertamente dimostrato che voleva diventare prete.
Il Giovedì Santo
del 1945 scrisse: “Grazie Gesù perché ci hai donato te stesso
nell’Ostia Santa e rimani sempre con noi… Aiutami a ritornare
presto in seminario e diventare sacerdote…”
Il Venerdì,
baciando il Crocifisso, ha ripetuto l’offerta al suo grande Amico:
“Tutta la mia vita per Te, o Gesù, per amarti e farti amare”.
Il 10 aprile 1945,
martedì dopo la Domenica in Albis, al mattino presto è già in
chiesa.
Esce contento perché
ha già ricevuto l’Eucarestia. Non sa ancora che sarà per lui il
Viatico.
Torna a casa, libri
sottobraccio va al boschetto a studiare. Indossa come sempre la
talare.
A mezzogiorno, non
vedendolo rientrare, i genitori lo cercano. Tra i libri trovano un
biglietto:
NON CERCATELO, VIENE
UN MOMENTO CON NOI. I PARTIGIANI.
Il papà e il curato
don Camellini lo cercano dappertutto.
I partigiani lo
hanno portato alla loro base sull’Appennino Emiliano. Lo spogliano
della veste talare che li irrita troppo. Lo insultano, lo percuotono
con la cinghia sulle gambe, lo schiaffeggiano. Adesso hanno davanti
un ragazzino coperto di lividi, piangente. Così era stato fatto un
giorno a Gesù. Per tre giorni Rolando rimane nelle mani di quegli
uomini senza Dio.
Una valanga melmosa
di bestemmie contro Cristo, insulti contro la chiesa e il sacerdozio,
di scherni volgari si abbatte su di lui, povero piccolo. Quindi,
l’orrore della flagellazione sul suo corpo puro di ragazzo. E’ la
sua Via Crucis.
Rolando innocente,
piange e geme come un agnello condotto al macello, prega nel suo
cuore e chiede pietà. Tuttavia nella sua anima posseduta da Cristo è
forte e sereno. Qualcuno si commuove e propone di lasciarlo andare
perché è soltanto un ragazzo e non c’è motivo o pretesto per
ucciderlo.
Ma altri si
rifiutano: “Taci o farai anche tu la stessa fine”. Prevale
l’odio al prete, all’abito che lo rappresenta. Decidono di
ucciderlo:”Avremo domani un prete in meno!”.
Scende la sera
ormai, lo portano sanguinante in un bosco presso Piane di Monchio
(Modena).
Davanti alla fossa
già scavata Rolando comprende tutto. Singhiozza, implora di essere
risparmiato. Gli viene risposto con un calcio. Allora dice: “Voglio
pregare per la mia mamma e per il mio papà”.
S’inginocchia
sull’orlo della fossa e prega per sé, per i suoi cari, forse per i
suoi stessi uccisori. Due scariche di rivoltella lo rotolano a terra
nel suo sangue. Un ultimo pensiero, un ultimo palpito del cuore per
Gesù, perdutamente amato… poi la fine.
I partigiani lo
coprono con poche palate di terra e di foglie secche.
La veste da prete
diventa un pallone da calciare, poi sarà appesa come “trofeo da
guerra” sotto il porticato di una casa vicina.
Era il 13 aprile
1945 ricorrenza del giovane martire sant’Ermenegildo (+ 585 d.C.),
venerdì come quello in cui Gesù si immolò sulla croce. Rolando
aveva quattordici anni e tre mesi.
Rolando Maria Rivi
con la vita, la parola e perfino il suo sangue aveva
proclamato: “Quanto ho di più caro al mondo è Cristo”.
In quei giorni di
sangue Alberto Camellini si recò a Reggio dal vescovo diocesano
mons. Eduardo Brettoni.
Il vescovo era
malato, a letto, affranto dall’età e dal dolore per l’uccisione
di una decina dei suoi preti. Il 19 aprile era stato ucciso don
Giuseppe Jemmi, viceparroco a Felina. Mons. Brettoni ascoltò; poi
scoppiò in un pianto inconsolabile ed esclamò tra i
singhiozzi: “Adesso mi ammazzano anche seminaristi!”
Pio XII il 19 marzo
1958 rivolgendosi a centomila giovani dell’Azione Cattolica, in
piazza San Pietro a Roma, disse: “La terra bagnata di lacrime
sorriderà con perle di amore e irrorata con il sangue dei martiri
farà germogliare i cristiani… Dopo uno degli inverni più lunghi e
più crudi, verrà una primavera che precede una delle estati più
ricche e luminose”.
I Partigiani che
odiavano la Chiesa e i preti pensavano che per Rolando tutto fosse
finito con due colpi di rivoltella e poche badilate di terra sul suo
corpo martoriato nel buio del bosco di Piane di Monchio.
Invece tutto
comincia ora.
Giovanni Paolo II il
23 settembre 1990 a Ferrara, parlando dei sacerdoti e dei seminaristi
martiri disse: “ Torturati e straziati hanno ricalcato le orme
degli antichi testimoni della fede … Una parola voglio dire ai
giovani che si preparano al sacerdozio: è necessario coltivare in se
stessi un amore sincero e profondo a Cristo ed ai fratelli. É
necessario disporre il proprio cuore alla donazione totale”.
É il messaggio di
Rolando che come seme vivente porta frutto e si sta realizzando.
Rolando Rivi visse
solo 14 anni. Visse solo per farsi prete, per salire l’altare e
offrirvi l santo Sacrificio della Messa, per annunciare - da vero
missionario - Gesù ai fratelli.
C’è dunque un
altare vuoto al quale questo giovane non è salito, ma sul quale
tanti altri giovani chiamati al sacerdozio e entusiasmati proprio dal
suo esempio vi saliranno.
Rolando è salito
direttamente sull’altare della gloria facendo di se stesso un’ostia
pura, santa ed immacolata da offrire a Dio per la salvezza dei
fratelli.
P. Alfonso M. A.
Bruno FI