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22 ottobre, 1992

Roberto Rivi Padre di Rolando Maria Rivi

Roberto Rivi Padre di Rolando Maria Rivi



Testimoni

San Valentino di Castellana, Reggio Emilia, 30 ottobre 1903 - 22 ottobre 1992

Si chiamava Roberto Rivi ed era nato a San Valentino di Castellana (Reggio Emilia), il 30 ottobre 1903, primo di numerosi fratelli, in una famiglia in cui la fede animava la vita e le opere di tutti i giorni.
Crebbe imparando, alla scuola di mamma Anna, una donna dalla vita cristiana splendida, a pregare quotidianamente la Madonna con il Rosario e a incontrare tutte le domeniche e poi ancor più sovente, Gesù, nella Messa e nella Comunione. Ben presto, il parroco, don Jemmi, divenne la sua guida spirituale.
Dopo le scuole elementari, Roberto rimase a casa a lavorare la campagna e a testimoniare la sua fede cristiana tra la sua gente. Era puro e leale come un cavaliere antico. A 20 anni, prestò servizio militare, passando anche alcuni mesi a Zara, nell’Istria, assai lontano da casa. Un tempo, questo del militare, lungo e duro, vissuto in ambienti difficili, ma sempre in fedeltà a Gesù, anche a costo di qualche sacrificio.
Rientrò in famiglia a San Valentino, a metà degli anni ’20, nel periodo in cui la Chiesa era guidata da Pio XI che cercava di organizzare la gioventù nell’Azione Cattolica. Roberto fece parte di quei giovani cattolici, appassionati, che si ispiravano anche ai martiri del Messico, i quali, proprio in quegli anni, cadevano sotto il piombo dei persecutori, gridando: “Viva Cristo re!”.
Ventiquattrenne, Roberto incontrò Albertina e la sposò, deciso a farsi una famiglia che avesse come centro Gesù quale Luce, Amore e Guida. Dopo un po’ vennero i figli che furono la sua più grande gioia. Il 7 gennaio 1931, gli nacque Rolando che si dimostrò subito un figlio speciale. Vivace, allegro, un vero spasso. A cinque anni, già serviva la Messa al parroco, don Olinto Marocchini e si vedeva che gli piaceva proprio stare in chiesa a pregare e a cantare le lodi del Signore.

Un uomo appassionato

Seppi che il suo papà si chiamava Roberto Rivi ed era nato a S. Valentino di Castellarano (Reggio Emilia), il 30 ottobre 1903, primo di numerosi fratelli. Crebbe, alla scuola di mamma Anna, una donna di fede ardente, a pregare ogni giorno la Madonna con il Rosario e a incontrare tutte le domeniche Gesù nella S. Messa e Comunione. La sua guida era il parroco don Jemmi.
Dopo le elementari, Roberto rimase a casa a lavorare la campagna e a testimoniare la fede cristiana tra la sua gente. A 20 anni, prestò servizio militare, passando anche alcuni mesi a Zara, nell’Istria, assai lontano da casa, vivendo in ambienti difficili, sempre in fedeltà a Gesù, a costo di qualsiasi sacrificio.
A metà degli anni ’20, era rientrato in famiglia a S. Valentino, proprio nel periodo in cui la Chiesa, guidata da Papa Pio XI, organizzava la gioventù nell’Azione Cattolica: anche Roberto fece parte di quei giovani appassionati. Ogni giorno, con la mamma Anna, partecipava alla Messa con la Comunione. Lo farà sino all’ultimo giorno della sua vita, preparandosi alla Comunione quotidiana con la Confessione settimanale e la preghiera personale.
Ventiquattrenne, Roberto aveva incontrato Albertina e la sposò, deciso a farsi una famiglia, che avesse come centro Gesù, Luce, Amore e Guida.
Quindi erano venuti i figli che furono la sua più grande gioia.

Un piccolo eroe

Quando a sette anni appena, il 16 luglio 1938, nella festa della Madonna del Carmelo, venerata in parrocchia, Rolandino ricevette la prima Comunione, fu davvero per lui una festa umile e solenne. Gesù diventava finalmente il suo intimo amico.
A scuola, guidato dalla maestra Clotilde Selmi, seppe dare buoni risultati, sostenuto da una vivace intelligenza, imparava con facilità e aiutava volentieri i compagni.
Era generosissimo con i poveri di passaggio, ai quali donava con larghezza, dicendo: “La carità non rende povero nessuno. Ogni povero per me è Gesù”.
Papà Roberto era felice di un bambino così, proprio come lui voleva. Il 24 giugno 1940, dal Vescovo, Mons. Eduardo Bretoni, Rolando ricevette la Cresima. Si sentì ancora più impegnato per Cristo, un “soldato di Cristo”, come si diceva allora, e prese forti impegni con il Signore: la Messa e la Comunione quotidiana, la Confessione settimanale, il Rosario alla Madonna ogni giorno da solo o con la famiglia.
I suoi piccoli amici del borgo, Rolando cercava di portarli in chiesa, davanti al Tabernacolo e di condurli al catechismo, per crescere nella fede. Papà Roberto tra sé, si chiedeva: “Chi mai diventerà questo bambino?”. A 11 anni, dopo la V elementare, il ragazzino decise: “Voglio farmi prete. Papà, mamma, vado in Seminario”. Così, all’inizio dell’ottobre 1942, entrò in Seminario a Marola (Reggio Emilia) e vestì subito l’abito da prete, come allora s’usava.
Studiava con serietà, con la sua bella voce faceva parte del coro. Nei momenti liberi stava volentieri davanti all’Eucaristia, appassionato com’era della sua vocazione sentendosi un prediletto da Dio. A casa, in vacanza, durante l’estate, continuava a vivere da seminarista con fedeltà ai suoi impegni e facendo apostolato tra i suoi compagni.
Il papà era contento e orgoglioso che il buon Dio gli avesse donato un figlio così e già pregustava la gioia di vederlo sacerdote. Era felice di cantare in chiesa, quando Rolando suonava l’armonium e accompagnava i cantori durante le celebrazioni, la Messa e i Vespri.
Nel 1944, il Seminario, a causa della guerra, fu chiuso. Rolando tornò a casa e viveva, nonostante le difficoltà, la sua stessa vita, ardente e luminosa, sulle colline di San Valentino. A chi gli chiedeva di vestire come gli altri ragazzi, rispondeva: “Non posso lasciare la mia veste: è il segno che io appartengo al Signore”.
Il 10 aprile 1945, finì in mano ai comunisti a Monchio, in provincia di Modena. Lo portarono nella loro base e lo processarono. Lo schiaffeggiarono, lo percossero con la cinghia e gli tolsero l’abito religioso. Poi emisero la sentenza: “Uccidiamolo, avremo un prete in meno”. Lo portarono in un bosco presso Piane di Monchio. Qui scavata la fossa, mentre Rolando, in ginocchio pregava il suo Gesù per sé, per i genitori, per gli stessi aguzzini, questi lo presero a calci, poi con due colpi di pistola, uno al cuore e uno alla fronte, gli tolsero la vita. Era il 13 aprile 1945, quando Rolando Rivi, a 14 anni appena, fu freddato da due colpi di rivoltella, nel clima di odio contro la Chiesa e i sacerdoti. Era un venerdì, giorno dedicato alla morte di Gesù in croce. La veste da prete diventò, nelle mani dei comunisti, un trofeo che fu appeso sotto il porticato di una fattoria vicina.

Al di là dell’odio

Il papà, su quella immane tragedia, disse soltanto: “Perdono”. Era straziato, ma con la sua fede grandissima, riprese a vivere infondendo coraggio ai suoi e illuminando il dolore con la preghiera incessante, sentendosi quasi chiamato a compiere lui il bene al posto di Rolando.
Il martirio del figlio seminarista lo spinse ad impegnarsi a fondo, in prima persona, per costruire, negli anni del dopoguerra, una società cristiana. Nel tempo dell’immane conflitto, gli erano morti al fronte, lontanissimo da casa i due fratelli Rino e Adolfo, e in casa, la sorella Lina. Negli anni che verranno, altri lutti e dolori provarono la forte tempra e la fede invincibile di papà Roberto.
La sua vita stupiva chi lo avvicinava, perfino i sacerdoti, che lo stimavano e ne amavano la compagnia, e la sorella suora: “Con tutto quanto ha patito, come può essere così forte e sereno?”. La sua risposta era la Croce di Cristo.
Così papà Roberto portava la sua fede davanti a chiunque, sempre “uno con Gesù”: nella famiglia, nel lavoro, nei rapporti sociali, nel modo di intendere le cose e nelle scelte quotidiane. Una vera mentalità di fede, la sua, tradotta in semplicità interiore e letizia.
Gli anni passavano e la sua esistenza si faceva sempre traboccante di preghiera: molto spesso, forse ogni giorno, la Messa e la Comunione, in un colloquio lungo con Gesù per la Chiesa, per il mondo, per i sacerdoti, fino al punto di riconoscere con semplicità: “Io starei sempre davanti al Signore vivo, nel Tabernacolo”.
Nel cuore, una capacità grande di amare e di donare, sempre pronto ad aiutare chiunque come un fratello.
La Via Crucis diventò la sua preghiera preferita: la ripeteva anche più volte al giorno, tenendo la foto di suo figlio Rolando, tra le mani, ricordando al Divin Sofferente i suoi familiari, gli amici i sacerdoti e coloro che gli avevano fatto del male.
Si illuminava tutto quando parlava di Rolando e commuoveva chi lo ascoltava quando diceva: “Forse il Signore ha permesso così, perché Rolando non avesse a prendere una cattiva strada... l’ha voluto con Sé, tra i santi. Ho sofferto tanto, ma non sono arrabbiato con il Signore. Siamo sulla terra per compiere la sua volontà”.
Il 22 ottobre 1992, a 89 anni, papà Roberto rivedeva il suo Rolando e i suoi cari che lo avevano preceduto in Paradiso. Chi lo ha conosciuto di persona o chi semplicemente lo ha solo ascoltato poche volte al telefono, è rimasto incantato dalla sua fede granitica e dolce. Gesù solo, il Redentore dell’uomo, forma uomini così, Lui che ha assicurato: “Abbiate pace in me. Nel mondo avrete tribolazioni, ma abbiate coraggio: io ho vinto il mondo” (Giovanni 16:33).Con Gesù, vincitore del peccato, del dolore e della morte, anche papà Roberto, con il suo piccolo figlio martire, appare un vincitore.

19 luglio, 1992

Biografia di Paolo Borsellino

 Biografia di Paolo Borsellino

Paolo Emanuele Borsellino nasce a Palermo il 19 gennaio 1940. Il padre Diego era farmacista e dalla moglie Maria Pia avrebbe avuto, oltre a Paolo, i figli Salvatore, Adele e Rita. Fin da giovanissimo, per le strade del quartiere La Kalsa, Paolo comincia a frequentare il coetaneo Giovanni Falcone con cui da principio “gioca a pallone con gli altri ragazzi” e che ritroverà più tardi – dopo il diploma Classico – alla facoltà di Giurisprudenza di Palermo.

Borsellino è studente irrequieto e attivo politicamente, tanto da far parte dei gruppi legati alla destra (Fronte Universitario di Azione Nazionale, MSI) con ruoli anche importanti. Ma per lui più della politica sono importanti gli studi. Si laurea in breve tempo e – vincendo il primo concorso di Magistratura nel 1963 –  a soli 23 anni, diviene il giudice più giovane d’Italia.

Nel 1968 sposa Agnese Piraino Leto e da lei ha tre figli: Lucia, nata nel 1969, Manfredi, classe 1971, e nel 1973 Fiammetta. Descritto spesso come padre amorevole e sempre presente, nonostante gli impegni di lavoro, Borsellino soffrì molto quando capì di essere il prossimo bersaglio dei boss. Il figlio Manfredi ricorda che divenne scostante, severo, freddo … come se volesse preparare la famiglia al distacco.

Dopo l’omicidio del collega e amico di una vita, Giovanni Falcone, il giudice Borsellino intensificò la propria attività di lotta contro la mafia ben sapendo di essere in pericolo ogni giorno. La vendetta dei boss arrivò, tuttavia, a sorpresa in un luogo che il giudice non poteva immaginare: davanti alla casa della sua anziana madre. Il tritolo devastò via D’Amelio nel pomeriggio del 19 luglio 1992. Borsellino e cinque agenti di scorta, tra cui la giovanissima Emanuela Loi, morirono per le gravi ferite riportate.

Misure di Paolo Borsellino

Di quest’uomo attivo e schivo si sa davvero poco, per cui scendere nel personale è difficilissimo. Ma si intuisce dalle foto che fosse di statura media, 175 cm circa, per un peso equilibrato di  75 kg. Portava con fierezza e attenta cura i baffi e spesso tra le labbra la immancabile sigaretta.

L’attentato del 19 luglio 1992

Mentre il giudice si recava a trovare l’anziana madre a casa sua in via D’Amelio, a Palermo, un’auto imbottita di esplosivo fu fatta saltare in aria alle 16:58. L’esplosione violentissima devastò l’intera strada, ruppe i vetri di quasi tutte le finestre del condominio di fronte. Sull’asfalto rimasero i corpi di Borsellino, degli agenti Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Cosina, Claudio Traina. L’agente Agostino Vullo si salvò solo perché stava parcheggiando l’auto blindata poco lontano.

I funerali di Borsellino furono svolti in forma privata, in una chiesetta di periferia che il giudice amava tanto, mentre le esequie della scorta si tennero nella Cattedrale di Palermo. Tra feroci proteste, il popolo presente cercò di cacciare dalla chiesa i rappresentanti dello Stato, considerati dalla vedova del giudice e da molti parenti degli agenti di scorta come responsabili della “solitudine” di Borsellino.

La carriera

Il più giovane magistrato italiano, Paolo Borsellino, iniziò la propria carriera nel 1963. Lavorò presso i tribunali di Mazara del Vallo e di Monreale. Trasferito nuovamente a Palermo nel 1980, dovette seguire una delle indagini lasciate incomplete dal commissario Boris Giuliano ucciso pochi anni prima. La forte amicizia con Rocco Chinnici,con Antonino Caponnetto e con il collega Giovanni Falcone portò alla nascita del Pool Antimafia, che mirava a riunire i giudici istruttori che fino ad allora avevano sempre lavorato da soli, e più esposti.

Grazie al lavoro del Pool finirono sotto inchiesta 476 esponenti della mafia e questo aumentò il rischio per i giudici, specialmente per Falcone e Borsellino che lo guidavano. I due magistrati furono trasferiti all’Asinara per tenerli al riparo da possibili attentati. Subito dopo Borsellino fu trasferito alla Procura di Marsala. Nel 1987 però il Pool venne smantellato – ufficialmente per problemi di salute di Caponnetto – e da allora il lavoro divenne più a rischio per Borsellino e i colleghi.

Tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, i giudici furono “lasciati soli” , o almeno così loro percepirono il silenzio delle istituzioni intorno al loro lavoro. E mentre la mafia progettava attentati, Borsellino “rischiò” di essere eletto a Presidente della Repubblica: il partito MSI fece il suo nome, durante gli scrutini, e ottenne anche dei voti! Il 23 maggio 1992 Giovanni Falcone fu ucciso in un gravissimo attentato sull’autostrada nei pressi di Capaci e da allora, fino al giorno della morte, Borsellino lavorò da solo e consapevole che il prossimo a cadere sarebbe stato lui e morì a cinquantasette giorni dopo Giovanni Falcone.




23 maggio, 1992

BIOGRAFIA Giovanni Falcone

 BIOGRAFIA Giovanni Falcone



 Nato a Palermo il 18 maggio 1939, da Arturo, direttore del Laboratorio chimico provinciale, e da Luisa Bentivegna, Giovanni Falcone conseguì la laurea in Giurisprudenza nell'Università di Palermo nell'anno 1961, discutendo con lode una tesi sull' "Istruzione probatoria in diritto amministrativo". Era stato prima, dal '54, allievo del Liceo classico "Umberto"; e quindi aveva compiuto una breve esperienza presso l'Accademia navale di Livorno. Dopo il concorso in magistratura, nel 1964, fu pretore a Lentini per trasferirsi subito come sostituto procuratore a Trapani, dove rimase per circa dodici anni. E in questa sede andò maturando progressivamente l'inclinazione e l'attitudine verso il settore penale: come egli stesso ebbe a dire, "era la valutazione oggettiva dei fatti che mi affascinava", nel contrasto con certi meccanismi "farraginosi e bizantini" particolarmente accentuati in campo civilistico. A Palermo, all'indomani del tragico attentato al giudice Cesare Terranova (25 settembre 1979), cominciò a lavorare all'Ufficio istruzione. Il consigliere istruttore Rocco Chinnici gli affidò nel maggio '80 le indagini contro Rosario Spatola, vale a dire un processo che investiva anche la criminalità statunitense, e che, d'altra parte, aveva visto il procuratore Gaetano Costa - ucciso poi nel giugno successivo - ostacolato da alcuni sostituti, al momento della firma di una lunga serie di ordini di cattura. Proprio in questa prima esperienza egli avvertì come nel perseguire i reati e le attività di ordine mafioso occorresse avviare indagini patrimoniali e bancarie (anche oltre oceano), e come, soprattutto, occorresse la ricostruzione di un quadro complessivo, una visione organica delle connessioni, la cui assenza, in passato, aveva provocato la "raffica delle assoluzioni". Il 29 luglio 1983 il consigliere Chinnici fu ucciso con la sua scorta, in via Pipitone Federico; lo sostituì Antonino Caponnetto, il quale riprese l'intento di assicurare agli inquirenti le condizioni più favorevoli nelle indagini sui delitti di mafia. Si costituì allora, per le necessità interne a queste indagini, il cosiddetto "pool antimafia", sul modello delle équipes attive nel decennio precedente di fronte al fenomeno del terrorismo politico. Del gruppo faceva parte, oltre lo stesso Falcone, e i giudici Di Lello e Guarnotta, anche Paolo Borsellino, che aveva condotto l'inchiesta sull'omicidio, nel 1980, del capitano del Carabinieri Emanuele Basile. Si può considerare una svolta, per la conoscenza non solo di determinati fatti di mafia, ma specialmente della struttura dell'organizzazione Cosa nostra, l'interrogatorio iniziato a Roma nel luglio '84 in presenza del sostituto procuratore Vincenzo Geraci e di Gianni De Gennaro, del Nucleo operativo della Criminalpol, del "pentito" Tommaso Buscetta. I funzionari di Polizia Giuseppe Montana e Ninni Cassarà, stretti collaboratori di Falcone e Borsellino, furono uccisi nell'estate '85. Fu allora che si cominciò a temere per l'incolumità anche dei due magistrati. I quali furono indotti, per motivi di sicurezza, a soggiornare qualche tempo con le famiglie presso il carcere dell'Asinara. Si giunse così - attraverso queste vicende drammatiche - alla sentenza di condanna a Cosa nostra del primo maxiprocesso, emessa il 16 dicembre 1987 dalla Corte di assise di Palermo, presidente Alfonso Giordano, dopo ventidue mesi di udienze e trentasei giorni di riunione in camera di consiglio. L'ordinanza di rinvio a giudizio per i 475 imputati era stata depositata dall'Ufficio istruzione agli inizi di novembre di due anni prima. Gli avvenimenti successivi risentirono con tutta evidenza in senso negativo di tale successo. Nel gennaio il Consiglio superiore della magistratura preferì nominare a capo dell'Ufficio istruzione, in luogo di Caponnetto che aveva voluto lasciare l'incarico, il consigliere Antonino Meli. Il quale avocò a sé‚ tutti gli atti. Sopraggiunse poi un nuovo episodio ad accentuare ulteriormente le tensioni nell'ambito dell'Ufficio stesso, un episodio che ebbe gravissime conseguenze su tutte le indagini antimafia. In seguito alle confessioni del "pentito" catanese Antonino Calderone, che avevano determinato una lunga serie di arresti (comunemente nota come "blitz delle Madonie"), Il magistrato inquirente di Termini Imerese si ritenne incompetente, e trasmise gli atti all'Ufficio palermitano. Ma Meli, in contrasto con i giudici del pool, rinvio le carte a Termini, in quanto i reati sarebbero stati commessi in quella giurisdizione. La Cassazione, allo scorcio dell'88, ratificò l'opinione del consigliere istruttore, negando la struttura unitaria e verticistica delle organizzazioni criminose, e affermando che queste, considerate nel loro complesso, sono dotate di "un’ampia sfera decisionale, operano in ambito territoriale diverso ed hanno preponderante diversificazione soggettiva". Questa decisione sanciva giuridicamente la frantumazione delle indagini, che l'esperienza di Palermo aveva inteso superare. Il 30 luglio Falcone richiese di essere destinato a un altro ufficio. In autunno Meli gli rivolse l'accusa d'aver favorito in qualche modo il cavaliere del lavoro di Catania Carmelo Costanzo, e quindi sciolse il pool, come Borsellino aveva previsto fin dall'estate in un pubblico intervento,' peraltro censurato dal Consiglio superiore. I giudici Di Lello e Conte si dimisero per protesta. Su tutta questa vicenda del resto, nel giugno '92, Borsellino ebbe a ricordare: "La protervia del consigliere istruttore Meli l'intervento nefasto della Corte di cassazione cominciato allora e continuato fino a oggi, non impedirono a Falcone di continuare a lavorare con impegno". Nonostante simili avvenimenti, infatti, sempre nel corso dell'88, Falcone. aveva realizzato una importante operazione in collaborazione con Rudolph Giuliani, procuratore distrettuale di New York, denominata "lron Tower", grazie alla quale furono colpite le famiglie dei Gambino e degli Inzerillo, coinvolte nel traffico di eroina. Il 20 giugno '89 si verificò il fallito e oscuro attentato dell'Addaura presso Mondello; a proposito del quale Falcone affermò "Ci troviamo di fronte a menti raffinatissime che tentano di orientare certe azioni della mafia. Esistono forse punti di collegamento tra i vertici di Cosa nostra e centri occulti di potere che hanno altri interessi. Ho l'impressione che sia questo lo scenario più attendibile se si vogliono capire davvero le ragioni che hanno spinto qualcuno ad assassinarmi". Seguì subito l'episodio, sconcertante, del cosiddetto "corvo", ossia di alcune lettere anonime dirette ad accusare astiosamente lo stesso Falcone e altri. Le indagini relative furono compiute anche dall'Alto commissario per la lotta alla mafia, guidato dal prefetto D. Sica. Una settimana dopo l'attentato il Consiglio superiore decise la nomina di Falcone a procuratore aggiunto presso la Procura della Repubblica di Palermo. Nel gennaio '90 egli coordinò un'inchiesta che portò all'arresto di quattordici trafficanti colombiani e siciliani, inchiesta che aveva preso l'avvio dalle confessioni del "pentito" Joe Cuffaro', il quale aveva rivelato che il mercantile Big John, battente bandiera cilena, aveva scaricato, nel gennaio '88, 596 chili di cocaina al largo delle coste di Castellammare del Golfo. Nel corso dell'anno si sviluppa lo "scontro" con Leoluca Orlando, originato dall'incriminazione per calunnia nei confronti del "pentito" Pellegriti, il quale rivolgeva accuse al parlamentare europeo Salvo Lima. La polemica proseguì col ben noto argomento delle "carte nei cassetti": e che Falcone ritenne frutto di puro e semplice "cinismo politico". Alle elezioni del 1990 dei membri togati del Consiglio superiore della magistratura, Falcone, fu candidato per le liste "Movimento per la giustizia" e "Proposta 88" (nella circostanza collegate), con esito però negativo. Intanto, fattisi più aspri i dissensi con l'allora procuratore P. Giammanco - sia sul piano valutativo, sia su quello etico, nella conduzione delle inchieste - egli accolse l'invito del vice-presidente del Consiglio dei ministri, Claudio Martelli, che aveva assunto l'interim del Ministero di grazia e giustizia, a dirigere gli Affari penali del ministero, assumendosi l'onere di coordinare una vasta materia, dalle proposte di riforme legislative alla collaborazione internazionale. Si apriva così un periodo - dal marzo del 1991 alla morte - caratterizzato da una attività intensa, volta a rendere più efficace l'azione della magistratura nella lotta contro il crimine. Falcone si impegnò a portare a termine quanto riteneva condizione indispensabile del rinnovamento: e cioè la razionalizzazione dei rapporti tra pubblico ministero e polizia giudiziaria, e il coordinamento tra le varie procure. A quest'ultimo riguardo, caduta l'ipotesi iniziale,- di affidare il delicato compito alle procure generali, la costituzione di procure distrettuali facenti capo ai procuratori della Repubblica parve la soluzione più idonea. Ma si poneva altresì l'istanza di un coordinamento di livello nazionale. Istituita nel novembre del '91 la Direzione nazionale antimafia, sulle funzioni di questa il giudice dunque si soffermò anche nel corso della sua audizione al Palazzo dei Marescialli del 22 marzo '92. "Io Credo - egli chiarì in tale circostanza, secondo un resoconto della seduta pubblicato dal settimanale "L'Espresso" (7 giu. '92) - che il procuratore nazionale antimafia abbia il compito principale di rendere effettivo il coordinamento delle indagini, di garantire la funzionalità della polizia giudiziaria e di assicurare la completezza e la tempestività delle investigazioni. Ritengo che questo dovrebbe essere un organismo di supporto e di sostegno per l'attività investigativa che va svolta esclusivamente dalle procure distrettuali antimafia". La sua candidatura a questi compiti, peraltro, fu ostacolata in seno al Consiglio superiore della magistratura, il cui plenum, tuttavia, non aveva ancora assunto una decisione definitiva, quando sopraggiunse la strage di Capaci del 23 maggio. Frattanto - giova ricordarlo - una sentenza della prima sezione penale della Corte suprema di cassazione il 30 gennaio, sotto la presidenza di Arnaldo Valente (relatore Schiavotti) aveva riconosciuto la struttura verticale di Cosa nostra, e quindi la responsabilità dei componenti della "cupola" per quei delitti compiuti dagli associati, che presuppongano una decisione al vertice; inoltre aveva ribadito la validità e l'importanza delle chiamate in correità. Insieme a Falcone, a Capaci, persero la vita la moglie Francesca Morvilio, magistrato, e gli agenti di scorta Rocco Di Cillo, Vito Schifani e Antonio Montinaro. All'esecrazione dell'assassinio, il 4 giugno si unì il Senato degli Stati Uniti, con una risoluzione (la n. 308) intesa a rafforzare l'impegno del gruppo di lavoro italo-americano, di cui Falcone era componente.


Fondazione Giovanni Falcone