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12 agosto, 2021

LETTERA AI MEMBRI DELLA CONGREGAZIONE DELLO SPIRITO SANTO SULL’USO DELL’ABITO TALARE (di Mons. Lefebvre)

 LETTERA AI MEMBRI DELLA CONGREGAZIONE DELLO SPIRITO SANTO SULL’USO DELL’ABITO TALARE

(di Mons. Lefebvre)
Miei cari confratelli,
le misure adottate in diversi paesi da un certo numero di vescovi riguardo all’abbigliamento degli ecclesiastici meritano riflessione, potendo avere conseguenze che non ci sono indifferenti.
In sé, il portare la veste talare o il clergyman ha un significato solamente nella misura in cui quest’abito sottolinea una distinzione dall’abito laico. La considerazione del decoro non è prevalente, anche se il panciotto accollato del clergyman e, a maggior ragione, l’abito talare manifestino indubbiamente una certa austerità e discrezione. Si tratta quindi maggiormente di una designazione del chierico o del religioso attraverso il suo abito. Va da sé che questa indicazione debba essere orientata nel senso della modestia, della discrezione, della povertà e non in senso opposto. È evidente che la particolarità dell’abito deve incutere rispetto e far pensare al distacco dalle vanità del mondo. È bene insistere soprattutto sulla principale qualità che caratterizza il chierico, il sacerdote, o il religioso, analogamente al militare, all’agente di polizia o stradale. Quest’idea si manifesta in tutte le religioni. Il capo religioso è facilmente riconoscibile dal suo vestiario, spesso dai suoi accompagnatori. Il popolo fedele annette grande importanza a questi segni distintivi. Si fa presto a distinguere un capo musulmano. I segni distintivi sono molteplici: gli abiti di qualità, gli anelli, le collane, il seguito danno a vedere che si tratta di una persona particolarmente onorata e rispettata. Lo stesso accade nella religione buddista e in tutto l’Oriente cristiano, cattolico o non. Il sentimento più che legittimo del popolo fedele è soprattutto il rispetto del sacro e inoltre il desiderio di ricevere le benedizioni del cielo, in ogni occasione legittima, da parte di coloro che ne sono i ministri.
In effetti il clergyman sembrava essere finora la tenuta che designava una persona consacrata a Dio, ma col minimo di segni apparenti, soprattutto nei paesi dove la giacca ecclesiastica, corrisponde esattamente alla giacca del laico. In certi paesi, come in Portogallo e fino a poco tempo fa in Germania, la giacca è lunga e scende fino alle ginocchia. I sacerdoti abituati a portare il clergyman in quei paesi lo considerano come un abito per uscire e non come un abito da casa. Spesso, d’altronde, questo abito è stato reso obbligatorio fuori casa dalle leggi dello Stato contro il cattolicesimo romano; il che spiega il desiderio di riprendere la talare non appena ci si trovi all’interno dei locali ecclesiastici: presbitèri e chiese. Vi è dunque una grande distanza tra lo spirito con il quale si porta il clergyman in quei paesi e lo spirito che si constata oggi in certi sacerdoti nei riguardi dell’abito ecclesiastico. Bisogna leggere le motivazioni date dai vescovi per aver chiaro il senso della misura presa. Poiché l’abito laico era portato senza più nulla che lo distinguesse in senso clericale, e al fine di vietarlo più sicuramente, è stata concessa l’autorizzazione a portare il clergyman, senza alcun incoraggiamento né tanto meno alcun obbligo. Ora bisogna constatare che dopo queste prescrizioni l’uso dell’abito laico ha enormemente progredito dappertutto, anche dove prima non esisteva. Praticamente, la norma adottata in molte diocesi ha rappresentato l’occasione di abbandonare ogni segno distintivo di chiericato. Le prescrizioni sono state completamente scavalcate. E non si parla più di abito talare nel presbiterio e spesso nemmeno di tunica nera in parrocchia. È dunque importante porsi la domanda: è opportuno o no che il sacerdote si possa distinguere e riconoscere in mezzo ai fedeli e ai laici, o, al contrario, oggi è auspicabile, in vista dell’efficacia dell’apostolato, che il sacerdote non si distingua più dai laici?
A questa domanda risponderemo richiamando il concetto di sacerdote secondo Nostro Signore e gli Apostoli e considerando i motivi avanzati dal Vangelo, al fine di sapere se sono, ad oggi, ancora validi.
In san Giovanni, c. 15, in particolare v. 19: “Se voi foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo; invece, poiché non siete del mondo, bensì io vi ho scelto dal mondo, per questo vi odia”; v. 21: “Non conoscono colui che mi ha mandato”; v. 27: “E voi pure mi renderete testimonianza perché siete stati con me fin dal principio”.
In san Paolo agli Ebrei, c. 5, v. 1: “Ogni gran sacerdote, infatti, scelto di fra gli uomini, è eletto per intervenire in favore degli uomini nelle loro relazioni con Dio”.
È chiaro che il sacerdote è un uomo che è stato scelto e distinto fra gli altri. Di Nostro Signore, san Paolo (Ebr. 7, 26) dice che è “separato dai peccatori”. Così dev’essere il sacerdote che da parte di Dio è stato oggetto di una scelta particolare.
A questa prima considerazione bisognerebbe aggiungere quella della testimonianza che il sacerdote deve rendere di Dio, di Nostro Signore, davanti al mondo: “Sarete allora miei testimoni” (Atti 1, . La testimonianza è una nozione che torna spesso sulle labbra di Nostro Signore. Come lui rende testimonianza del Padre suo, anche noi dobbiamo rendere testimonianza di lui. Tale testimonianza dev’essere vista e compresa senza difficoltà da tutti. “Non si mette una luce sotto il moggio ma sul candelabro e così fa lume a tutti quelli che sono nella casa” (Mt. 5, 15).
La veste talare raggiunge questi due fini in maniera chiara e inequivoca: il sacerdote è nel mondo senza essere del mondo, se ne distingue pur vivendoci, ed è in tal modo protetto dal male. “Non chiedo che tu li tolga dal mondo ma che tu li custodisca dal male. Essi non sono del mondo, come neppure io sono del mondo” (Gv. 17, 15-16). La testimonianza della parola, che è certo più essenziale al sacerdote della testimonianza dell’abito, è tuttavia notevolmente facilitata da quella manifestazione nettissima del sacerdozio, che è l’uso dell’abito talare. Il clergyman, benché sufficiente, è tuttavia già più equivoco. Non indica chiaramente il sacerdote cattolico. Quanto all’abito laico, esso sopprime ogni distinzione e rende la testimonianza molto più difficile e la preservazione dal male meno efficace. Questa scomparsa di ogni testimonianza nell’abito appare chiaramente come una mancanza di fede nel sacerdozio, una disistima del senso religioso del prossimo, nonché una vigliaccheria, una mancanza di coraggio delle proprie convinzioni.
MANCANZA DI FEDE NEL SACERDOZIO
Da quasi cent’anni i papi non cessano di deplorare la secolarizzazione progressiva della società. Il modernismo e il sillonismo [Il movimento eterodosso Sillon, fondato da Marc Sagnier, venne condannato da Pio X. N.d.T.] hanno diffuso gli errori circa i doveri delle società civili nei confronti di Dio e della Chiesa. La separazione della Chiesa dallo Stato, accettata, stimata talvolta come il migliore degli statuti, ha fatto penetrare a poco a poco l’ateismo in tutti i campi dell’attività dello Stato e in particolare nelle scuole. Quest’influsso deleterio continua, e siamo costretti a constatare che un buon numero di cattolici e persino di sacerdoti non hanno più un’idea esatta del posto della religione, e della religione cattolica, nella società civile e in tutte le sue attività. Il laicismo ha invaso tutto, anche le nostre scuole libere e i nostri seminari minori. In queste istituzioni la pratica religiosa è in netta diminuzione. La frequenza alla Comunione è sempre più esigua. Il Sacerdote che vive in una società di questo genere ha l’impressione crescente di essere estraneo ad essa, poi di essere molesto, testimone di un passato superato e definitivamente estinto. La sua su presenza è tollerata. È almeno un’impressione frequente nei giovani preti. Donde quel desiderio di allinearsi sul mondo secolarizzato, decristianizzato, che si traduce oggi nell’abbandono della veste talare. Questi sacerdoti non hanno più la nozione esatta del posto del sacerdote nel mondo e di fronte al mondo. Hanno viaggiato poco e giudicano superficialmente questi concetti. Se fossero rimasti per qualche tempo in paesi meno atei, li avrebbe edificati constatare che la fede nel sacerdozio è, grazie a Dio, ancora molto viva nella maggior parte dei paesi del mondo [evidentemente oggi la situazione è peggiorata rispetto a ciò che l’Autore constatava nel 1963. N.d.R.].
DISISTIMA DEL SENSO RELIGIOSO DEL PROSSIMO
Il laicismo, diciamo l’ateismo ufficiale, ha simultaneamente soppresso in molte relazioni sociali gli argomenti di conversazione gli argomenti riguardanti la religione. La religione è divenuta un fatto del tutto personale, e un falso rispetto umano l’ha relegata nel rango delle questioni intime, delle questioni di coscienza. Esiste pertanto in tutto l’ambiente umano così laicizzato un falso pudore che ha per conseguenza di evitare questo argomento di conversazione. Si suppone però gratuitamente che quelli che ci circondano, nelle relazioni d’affari o nelle relazione fortuite, siano areligiosi. Ora se è vero, purtroppo, che molte persone in certi paesi ignorano tutto della religione, è pur tuttavia un errore pensare che tali persone non abbiano più alcun sentimento religioso, ed è soprattutto un errore credere che da questo punto di vista tutti i paesi del mondo si somigliano. Anche in questo campo i viaggi ci insegnano molte cose, mostrandosi che gli uomini in generale sono ancora, grazie a Dio, molto preoccupati del problema religioso. Ritenere l’anima umana indifferente alle cose dello spirito e al desiderio delle cose celesti significa conoscerla male. È vero il contrario. Questi principi sono essenziali nell’esercizio quotidiano dell’apostolato.
UNA VIGLIACCHERIA
Davanti al laicismo e all’ateismo, allinearsi interamente vuol dire capitolare e rimuovere gli ultimi ostacoli alla loro diffusione. Il sacerdote è una predicazione vivente grazie alla sua veste, grazie alla sua fede. L’assenza apparente di sacerdoti, soprattutto in una grande città, costituisce un grave regresso nella predicazione del Vangelo. È la continuazione dell’opera nefasta della Rivoluzione che ha saccheggiato le chiese, delle leggi di separazione che hanno scacciato religiosi e religiose, che hanno laicizzato le scuole. È rinnegare il Vangelo, che ci ha predetto le difficoltà che verranno dal mondo al sacerdote e ai discepoli di Nostro Signore.
Queste tre considerazioni hanno conseguenze gravissime nell’anima del sacerdote, che si secolarizza, e trascinano le anime dei fedeli verso una rapida secolarizzazione. Il sacerdote è il sale della terra. “Se il sale diventa insipido con che gli si ridarà sapore? A null’altro è buono che a esser buttato via e calpestato dagli uomini” (Mt. 5, 13). Ahimè, non è forse questo ciò che aspetta al varco in ogni momento questi sacerdoti che non vogliono più apparire tali? Il mondo non li amerà per questo, bensì li disprezzerà. Quanto ai fedeli, saranno dolorosamente colpiti dal fatto di non sapere più con chi hanno a che fare. La veste era una garanzia di autenticità del sacerdozio cattolico.
Considerati il contesto storico, le circostanze, i motivi, le intenzioni, il nostro problema non è perciò irrilevante, una pura questione, molto secondaria, di moda ecclesiastica. Si tratta della funzione stessa del sacerdote come tale, nel mondo e nei confronti del mondo.
Ed è proprio per questo che la norma che autorizza il clergyman non ha mai avuto alcun effetto restrittivo nei confronti dell’uso dell’abito laico, anzi ha assunto il significato di un incoraggiamento a portarlo. Il problema non è più se il sacerdote dovrà mantenere la talare oppure portare il clergyman fuori e la talare in chiesa o in canonica; ci domandiamo se il sacerdote manterrà o no un qualunque abito ecclesiastico.
Noi, in queste circostanze, abbiamo scelto di mantenere l’abito ecclesiastico, cioè la veste talare nelle nostre Province dov’è stata in uso fino a ora, e il clergyman nelle Provincie là dov’è usato, sempre portando la veste nelle comunità e in chiesa. Diciamo “in queste circostanze” giacché va da sé che, se fossero prese nei confronti dell’abito ecclesiastico nuove misure che salvaguardassero i due principi sopra elencati – il segno esteriore del sacerdozio e la testimonianza evangelica – e questo in modo decoroso e discreto, ma evidente, non esiteremo ad adottarle.
Possano, miei cari confratelli, queste considerazioni farci aderire con tutta l’anima nostra al nostro sacerdozio e alla nostra missione in questo mondo. Con Nostro Signore speriamo di poter dire alla fine della nostra vita: “Padre, ho manifestato il tuo nome agli uomini che mi hai dato traendoli dal mondo … Ti ho reso gloria sulla terra, ho compiuto l’opera che mi hai affidato” (Gv. 17, 3, 6)
Parigi, festa di Nostra Signora di Lourdes, 11 febbraio 1963
[Fonte: Marcel Lefebvre, Un Vescovo parla, Milano, Rusconi, 1975, pp. 9-16. Testo raccolto a cura di Giuliano Zoroddu]




Pensiero del 12 agosto 2021

 Il perdono, è un atto d'amore, che facciamo prima a noi stessi, perché il rancore avvelena l'anima.

Meditazione sul Vangelo di Mt 18,21 – 19,1

“Perdona fino a settanta volte sette”.

Se non rimettiamo i debiti “di cuore” – vale a dire, “con un sincero perdono”- al nostro fratello, non possiamo attenderci il perdono di Dio. Né si tratta di perdonare una volta sola, o qualche volta, ma sempre. Un impegno che sentiamo difficile, anche quando si tratta di una volta sola: ma l’esempio di Cristo e la sua grazia, ci danno la forza di compiere il più grande atto di carità e di rendere la più eloquente testimonianza cristiana, che è proprio quella del perdono. Sempre dobbiamo perdonare al nostro prossimo; in un certo senso, infatti, siamo noi stessi a dare a Dio la misura del suo perdono dei nostri peccati.

La volontà di Gesù e quella del Padre sono una volontà di perdono. Questo Pietro lo ha capito, ma quante volte lo si deve fare? Ci sono dei limiti? Pietro ne azzarda uno: “Fino a sette volte?”. Ma Gesù, che è più misericordioso dei maestri del tempo, che giungevano fino a tre volte, risponde: “Fino a settanta volte sette”. Ovvero: sempre. E per imprimere bene nella mente questa volontà di perdono, Egli narra una parabola, che si sviluppa in tre atti. Il racconto sembra descrivere il comportamento insolito di un “re”, che poi faciliterà il rimando a Dio. Egli è presentato come un padrone potente con i suoi sudditi, che tratta come tanti servi. Un giorno gli viene portato uno che gli deve diecimila talenti: una cifra esorbitante! È logico, quindi, che quel servo sarà condannato: venduto schiavo lui e la sua famiglia. Ma ecco che la scena cambia: quel servo si getta a terra, davanti al suo padrone e gli promette l’impossibile, cioè di restituirgli tutto. E il padrone, che ha appena comandato di venderlo schiavo, ora gli perdona tutto. Perché? Perché il padrone ne ha avuto compassione. Questo atteggiamento non descrive più un re qualsiasi, ma descrive la compassione di Dio, che ama il peccatore pentito e che perdona sempre. Chi riceve misericordia, però, è tenuto a usare misericordia; invece, quel servo, uscito graziato dal suo padrone, appena si incontra con uno che gli deve solo cento denari, cioè un niente in confronto ai diecimila talenti, non è capace di condonargli il debito. Di fronte a tanta ingratitudine, dinanzi a un uomo dal cuore così duro, si può solo inorridire e ribellarsi. La parabola ci insegna che il perdono che abbiamo ricevuto, dobbiamo viverlo, perdonando a nostra volta e perdonando di cuore, cioè nell’intimo.

12 Agosto 

Trema o terra, davanti al Signore

Fa risplendere il tuo volto sul tuo servo ed insegnami i tuoi decreti.

(Samo 118,135)

SALMO RESPONSORIALE (Salmo 113)
Rit: Trema o terra, davanti al Signore.

Quando Israele uscì dall’Egitto,
la casa di Giacobbe da un popolo barbaro,
Giuda divenne il suo santuario,
Israele il suo dominio.

Il mare vide e si ritrasse,
il Giordano si volse indietro,
le montagne saltellarono come arieti,
le colline come agnelli di un gregge.

Che hai tu, mare, per fuggire,
e tu, Giordano, per volgerti indietro?
Perché voi, montagne, saltellate come arieti
e voi, colline, come agnelli di un gregge?

Fa risplendere il tuo volto sul tuo servo ed insegnami i tuoi decreti.

(Samo 118,135)

11 agosto, 2021

Santa Chiara d'Assisi

 Santa Chiara d'Assisi



Nome: Santa Chiara
Titolo: Vergine
Nascita: 16 luglio 1194
Morte: 11 agosto 1253
Ricorrenza: 11 agosto
Tipologia: Commemorazione




Nacque Chiara nell'anno 1193 da nobili e ricchi genitori in Assisi, e fin da giovanetta dimostrò una grande pietà e devozione. In quegli anni la fama del suo concittadino Francesco cominciava ad allargarsi, e Chiara, decisa di consacrarsi al suo Signore, si presentò a lui per comunicargli il suo ardente desiderio di ritirarsi dal mondo. Francesco riconobbe in questa piissima giovane la chiamata di Dio e perciò la confermò nel suo proposito di consacrare a Gesù Cristo la sua verginità.

Venuto il giorno stabilito, Chiara fuggì dalla casa paterna e si portò alla chiesa di S. Damiano ove Francesco, assistito dai suoi monaci, le tagliò i capelli e la rivestì del ruvido saio di penitenza di cui egli era già ricoperto.

I suoi parenti, oltremodo irritati per questa sua risoluzione, tentarono in vari modi, anche colla violenza, di sottrarla al sacro ritiro, ma Chiara, colla grazia del Signore, superò ogni ostacolo.

Poco dopo si unirono a lei numerose vergini, e perfino sua sorella Agnese: tutte si esercitavano nell'orazione e nelle mortificazioni quotidiane della vita comune, di cui Chiara dava un sì chiaro esempio. Dormiva sulla nuda terra, qualche volta tormentandosi ancora nelle brevi ore di riposo con sarmenti o con duro legno che usava per guanciale. Portava sempre ai fianchi un aspro cilicio, digiunava tre volte alla settimana a pane ed acqua.

Devotissima del SS. Sacramento, passava lunghe ore innanzi all'altare, assorta in profonda meditazione. E Gesù la ricompensò di questo suo affetto anche col dono dei miracoli. Infatti avendo una volta i Saraceni tentato di invadere il suo monastero, Chiara, animata da fiducia nel Signore, quantunque inferma, prese tra le mani l'ostensorio e fattasi portare alla finestra minacciata del monastero tracciò sugli infedeli un gran segno di croce dicendo: « Ecco, o mio Signore, vuoi tu forse consegnare nelle mani dei pagani le inermi tue serve, che ho allevato per il tuo amore? Proteggi, ti prego, Signore, queste tue serve, che io ora, da me sola, non posso salvare ». Subito una voce, come di bimbo, risuonò alle sue orecchie dal Tabernacolo: "Io vi custodirò sempre!". La vergine, con il volto bagnato di lacrime, rassicurò le sorelle: "Vi do garanzia, figlie, che nulla soffrirete di male; soltanto abbiate fede in Cristo!". Una luce vivissima investì gli assalitori accecandoli, mentre una forza arcana rovesciava le scale e precipitava a terra i predoni.

S. Chiara era pure devota della passione di Gesù Cristo, che meditava versando copiosissime lacrime. Da questa devozione attinse tanto amore alla santa povertà che ricusò perfino le proposte fattele dal Papa Gregorio IX di una povertà più mitigata, ed ottenne per sè e per le sue suore quello che chiamò « il privilegio della povertà ».

Negli ultimi anni di sua vita, Chiara fu molestata da continue infermità e patimenti corporali, ma colla sua preghiera fervente ottenne dal Celeste Sposo una pazienza invitta, e fra i suoi dolori si dimostrò sempre contenta e serena.

Prima di morire fece testamento: non per lasciare beni temporali, ma bensì per lasciare alle figliuole del suo cuore la santa povertà come loro divisa, come loro difesa e come loro gloria, e a 60 anni di età, piena di meriti, nell'anno 1253 rese la sua bell'anima a Dio.

PRATICA. Mettiamo tutta la nostra confidenza in Gesù Eucaristico e saremo liberati da ogni male, specie dal peccato.

PREGHIERA. Esaudiscici, o Dio nostro Salvatore, affinché, come ci allietiamo della festa della tua beata vergine Chiara, così veniamo ammaestrati nella devozione.

MARTIROLOGIO ROMANO. Memoria di santa Chiara, vergine, che, primo virgulto delle Povere Signore dell’Ordine dei Minori, seguì san Francesco, conducendo ad Assisi in Umbria una vita aspra, ma ricca di opere di carità e di pietà; insigne amante della povertà, da essa mai, neppure nell’estrema indigenza ed infermità, permise d'essere separata.

Pensiero del 11 agosto 2021

 Il primato di Gesù, nella vita di Santa Chiara, ci aiuta oggi, a ritrovare nella nostra povera esistenza l'esigenza di Lui, l'Unico necessario.

Meditazione sul Vangelo di Mt 18,15-20

“Un cammino di conversione continua”.

Il brano evangelico odierno ci ricorda che la correzione fraterna è un dovere. Ma occorre fare molta attenzione allo stile che la deve improntare: stile caratterizzato dalla discrezione e dalla carità. Non è cosa da poco, infatti, praticare la correzione. E il discepolo sa che, al fine di attuarla veramente in Cristo, egli è chiamato a crescere sempre più nella determinazione, nella coerenza e nella tenerezza verso il suo prossimo. Tenendo ben presente che, quando il male dilaga e diviene ostinato, allora è tutta la comunità che deve essere necessariamente interessata alla correzione e, nel contempo, è anche avvertita di stare in guardia dal male che la può contagiare.

Il senso di una profonda carità deve dominare nella comunità. Nulla deve farsi a suon di tromba! Il male non dovrebbe mai essere pubblicizzato. Se uno solo sa chi è il colpevole, cerchi innanzitutto di risolvere da solo la questione e di riabilitare il fratello che ha peccato, e lo faccia con carità. Non gli rinfacci il peccato, ma cerchi di aiutarlo a esaminarlo in tutti i suoi aspetti, a capire il non senso di quanto ha fatto e a sentire la necessità di intraprendere un personale e spontaneo cammino di conversione. Solo quando ciò si realizzerà, egli potrà dire di “avere guadagnato suo fratello”. Può, però, succedere anche il contrario, e allora ecco un altro procedimento che tende a limitare la divulgazione del male e a compiere un preciso precetto della legge: “ogni cosa venga decisa sulla parola di due o tre testimoni” (Dt 19,15). Solo nel caso che fallisca anche questo tentativo, allora deve essere informata l’intera comunità, l’assemblea cristiana, che si riunisce, non per pronunziare un giudizio di condanna, ma per cercare di ricuperare il fratello che ha peccato. Ora, può succedere che quella persona non ascolti neppure l’assemblea, e allora non resta altro che constatare la sua estraneità alla comunità, bisogna considerarlo come un pagano o un pubblicano, cioè come un pubblico peccatore che ha disonorato agli occhi di tutti la sua fede. La scomunica, di cui si parlerà più tardi nella Chiesa, è questo: la comunità non pronunzia nessuna sentenza di condanna, ma con sofferenza, constata e ufficialmente dichiara, che un fratello non le appartiene più. Ciò che conta qui, è come la comunità deve esercitare questo potere: nella carità, nella volontà di ricupero, nella preghiera.

11 Agosto 

Sia benedetto Dio: «È lui che ci mantiene tra i viventi».

Dio ha riconciliato a sé il mondo in Cristo, affidando a noi la parola della riconciliazione.

(II Corinzi 5,19)

SALMO RESPONSORIALE (Salmo 65)
Rit: Sia benedetto Dio: «È lui che ci mantiene tra i viventi».

Acclamate Dio, voi tutti della terra,
cantate la gloria del suo nome,
dategli gloria con la lode.
Dite a Dio: «Terribili sono le tue opere!».

Venite e vedete le opere di Dio,
terribile nel suo agire sugli uomini.
Popoli, benedite il nostro Dio,
fate risuonare la voce della sua lode.

Venite, ascoltate, voi tutti che temete Dio,
e narrerò quanto per me ha fatto.
A lui gridai con la mia bocca,
lo esaltai con la mia lingua.

Dio ha riconciliato a sé il mondo in Cristo, affidando a noi la parola della riconciliazione.

(II Corinzi 5,19)

10 agosto, 2021

San Lorenzo

 San Lorenzo

Nome: San Lorenzo
Titolo: Diacono e martire
Nascita: 226, Osca, Spagna
Morte: 10 agosto 258, Roma
Ricorrenza: 10 agosto
Tipologia: Festa




Nacque ad Osca in Spagna nel 226 da nobilissimi e santi genitori. Tanti furono i doni che ricevette nei Sacramenti del Battesimo, Cresima ed Eucaristia, che sembrò prevenuto dalla grazia; mentre era ancora bambino s'astenne sempre da ogni divertimento puerile e fu a tutti modello di docilità e santa innocenza. Ricevuta la prima istruzione in patria, passò a Saragozza per apprendere lettere, ed in questa celebre Università i suoi progressi furono sì rapidi e meravigliosi, che era ritenuto il migliore di tutti gli allievi. In questo tempo il Vescovo di quella città, vedendo in lui un tal candore di vita, gli conferì gli ordini dell'Ostiariato, del Lettorato ed Esorcistato.

Trovandosi nella penisola Iberica il futuro Papa Sisto II, allora arcidiacono della Chiesa Romana, avendo udito parlare delle virtù di Lorenzo, lo condusse seco a Roma, ove personalmente ebbe cura della sua formazione. All'età di 17 anni, per il suo progresso nella scienza e nella virtù, fu dal Pontefice Fabiano ordinato accolito, sei anni dopo suddiacono e quindi diacono: aveva 27 anni. Nel 258, essendo stato eletto alla Cattedra di Pietro Sisto II, Lorenzo divenne arcidiacono della Chiesa Romana, càrica che corrisponde alla attuale dignità cardinalizia.

Ma mentre la Chiesa lavorava e si espandeva ognor più fra i pagani, specie per l'infuocata predicazione di Lorenzo, si scatenò la persecuzione di Valeriano che al dire di San Dionisio fu delle più terribili.

Lorenzo fu imprigionato e torturato. Poco tempo dopo anche S. Sisto venne preso e condannato al carcere. Mentre il Pontefice veniva barbaramente trascinato dalla soldatesca, gli si fece incontro Lorenzo che col volto bagnato di lacrime incominciò ad esclamare: « Dove vai, o Padre, senza il tuo figlio? Per dove ti incammini, o santo sacerdote, senza il tuo diacono? ». Sisto gli rispose: « Io non ti lascio né ti abbandono, o figlio, ma a te spettano altri combattimenti... Dopo tre giorni mi seguirai... Prendi le ricchezze ed i tesori della Chiesa e distribuiscili a chi tu meglio credi ».

Lorenzo fece diligente ricerca di quanti poveri e chierici potè trovare nei quartieri di Roma e distribuì loro tutte le ricchezze. Poscia, salutati per l'ultima volta i Cristiani, si portò da Valeriano che già l'aveva fatto chiamare, ed all'intimazione di recargli i beni della Chiesa, promise che entro tre giorni glieli avrebbe mostrati. Percorse le vie della città, raccolse un gran numero di poveri e glieli condusse dicendo: « Ecco qui i beni della Chiesa! ». Ma quell'uomo irritato gridò: « Come hai tu ardito beffarti di me?... Io so che tu brami la morte... Ma non credere di morire in un istante poichè io prolungherò i tuoi tormenti ». Ordinò infatti che Lorenzo fosse posto su una graticola di ferro rovente ed arrostito lentamente. Ma nel cuore del Martire ardeva un incendio ben maggiore! Quando fu bruciato da una parte, il carnefice ordinò che lo rivoltassero, ed avendo gli aguzzini ubbidito, il Martire con volto sereno disse: « Ora potete mangiare, perchè la mia carne è già cotta abbastanza ».

Nuovi insulti uscirono dalla bocca del prefetto, ma il Martire, cogli occhi rivolti al cielo si offriva al Signore invocando su Roma la divina misericordia, per incoraggiare ancora una volta i Cristiani presenti. Tra questi spasimi spirò la sua grande anima. Era il 10 agosto 258.

PRATICA. Sopportate con pazienza e rassegnazione le sofferenze della vita ed offritele a Dio per la propagazione della fede.

PREGHIERA. Dacci, te ne preghiamo, Dio onnipotente, la grazia di estinguere le fiamme dei nostri vizi, tu che desti al beato Lorenzo la forza di superare il fuoco dei suoi tormenti.

MARTIROLOGIO ROMANO. Festa di san Lorenzo, diacono e martire, che, desideroso, come riferisce san Leone Magno, di condividere la sorte di papa Sisto anche nel martirio, avuto l’ordine di consegnare i tesori della Chiesa, mostrò al tiranno, prendendosene gioco, i poveri, che aveva nutrito e sfamato con dei beni elemosinati. Tre giorni dopo vinse le fiamme per la fede in Cristo e in onore del suo trionfo migrarono in cielo anche gli strumenti del martirio. Il suo corpo fu deposto a Roma nel cimitero del Verano, poi insignito del suo nome.

Pensiero del 10 agosto 2021

 Meditazione sul Vangelo di Gv 12,24-26

“Chi ama la sua vita la perde”.

L’ardore della carità è l’insegna con cui si presenta san Lorenzo, che è definito dalla liturgia “fedele nel ministero e glorioso nel martirio”. La sua intercessione aiuta a comprendere e a vivere nella Chiesa un vero servizio dei poveri, per amore di Cristo, e a non esitare a offrire la vita per Lui. Colui che vuole servire Gesù deve mettersi alla sua sequela: allora sarà onorato dal Padre. Ma seguire Gesù significa partecipare alla sua morte: una morte feconda. Colui che, invece, rifiuta di donare la vita per amore di Cristo, si perde; colui che la offre, se la ritrova come vita eterna. Il martirio è iscritto nella stessa vocazione battesimale.


Gesù sta parlando ai discepoli, e ciò che dice riguarda anzitutto quelli di loro che saranno chiamati – più tardi, a proclamare ai pagani – che nella morte di Gesù la salvezza è offerta a tutti gli uomini. La solennità della rivelazione è sottolineata dalle sue parole: “In verità, in verità, io vi dico”. L’ora, con la sottomissione alla morte, presuppone un passaggio doloroso, carico di turbamento e di angoscia. Essa, però, è nello stesso tempo, la morte e la glorificazione. Per esprimere la fecondità della sua morte, destinata a condurre alla sua glorificazione, Gesù parte da una parabola familiare al mondo contadino, sul grano che muore per portare frutto. Più che il morire o il vivere, Gesù contrappone il morire o il portare frutto. Come il grano, Egli deve morire per poter così portare frutto al mondo. La morte di Gesù è, non solo un passaggio obbligato perché Egli entri nella gloria, ma è la condizione perché la Chiesa nasca e si espanda. La morte di Cristo è l’istante fondatore dell’essere cristiano, poiché “là dove sono io sarà anche il mio servo”. I versetti 25-26, infatti, associano la comunità dei credenti al destino di Gesù. Quelli che amano la propria vita sono, nel linguaggio dell’evangelista Giovanni, quelli che preferiscono le tenebre, questo mondo, la propria gloria. Anche qui si tratta di fede, pur se non così esplicita come nel Vangelo di Marco, che sottolinea la relazione con Gesù: “Chi perderà la sua vita per causa mia e del Vangelo, la salverà” (Mc 8,35). La relazione con Gesù è introdotta dal versetto 26: “Se qualcuno mi vuol servire mi segua”. Il discepolo deve andare dove va Gesù, vale a dire deve entrare come Lui nella morte per partecipare alla gloria. In questo caso, promette Gesù, “Il Padre lo onorerà”.

10 Agosto 

Beato l’uomo che teme il Signore

Chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita, dice il Signore.

(Giovanni 8, 12)

SALMO RESPONSORIALE (Salmo 111)
Rit: Beato l’uomo che teme il Signore.

Beato l’uomo che teme il Signore
e nei suoi precetti trova grande gioia.
Potente sulla terra sarà la sua stirpe,
la discendenza degli uomini retti sarà benedetta.

Felice l’uomo pietoso che dà in prestito,
amministra i suoi beni con giustizia.
Egli non vacillerà in eterno:
eterno sarà il ricordo del giusto.

Egli dona largamente ai poveri,
la sua giustizia rimane per sempre,
la sua fronte s’innalza nella gloria.

Chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita, dice il Signore.

(Giovanni 8, 12)

09 agosto, 2021

Buon Anniversario di Matrimonio Janny Brandes-Brilleslijper e Bob

 Buon Anniversario di Matrimonio

Janny Brandes-Brilleslijper e Bob
Il vero amore, vince anche sulla morte!
Auguri di cuore!


Santa Teresa Benedetta della Croce

 Santa Teresa Benedetta della Croce


Nome: Santa Teresa Benedetta della Croce
Titolo: Martire
Nascita: 12 ottobre 1891, Wroclaw, Polonia
Morte: 9 agosto 1942, Campo di concentramento di Auschwitz, O?wi?cim, Polonia
Ricorrenza: 9 agosto
Tipologia: Festa




Teresa Benedetta della Croce (Edith Stein) nacque il 12 ottobre 1891, è una delle figure più straordinarie, affascinanti e complesse dello scorso secolo. Fu tra le pochissime donne del suo tempo che poté studiare e insegnare filosofia, inoltrandosi nei sentieri di una ricerca esistenziale, da sempre riservata quasi esclusivamente ai maschi. E lo ha fatto con esiti felicissimi, riuscendo a imporsi, accanto a uno dei grandi maestri della filosofia del Novecento, Edmund Husserl.

Come lei stessa ha confessato, «dall'età di tredici anni fui atea perché non riuscivo a credere nell'esistenza di Dio». Ma, protesa in una ricerca incessante e radicale della verità, impegnata nella soluzione dei grandi problemi della vita, non poteva non imbattersi nella verità di Dio, un Dio che in Gesù mette in gioco tutto per gli uomini, che non si arresta neppure di fronte al dolore e alla morte.

La verità di Dio sta proprio nel suo affermarsi attraverso la debolezza della croce e della morte. La scoperta che, in Gesù, Dio ha condiviso con noi tutto, fa nascere quell'abbandono in lui che caratterizza la vita di quanti sanno che, dalla venuta di Gesù in poi, Dio non ha mai abbandonato l'uomo.

Queste certezze hanno illuminato la vita di Edith Stein, nata a Breslavia nel 1891. Ultima di sette fratelli di un'agiata famiglia ebrea, ha percorso con successo il ciclo di studi, occupandosi soprattutto di psicologia e di ricerca filosofica nell'università della sua città natale e poi in quelle di Gottinga e di Friburgo, come allieva prima e assistente poi del celebre filosofo Edmund Husserl. Quando nel 1917 si laureò, aveva già al suo attivo una serie di studi importanti che le avrebbero aperto le porte della carriera accademica. Ma successero alcuni fatti che diedero alla sua vita una svolta radicale.

Il pensiero di Dio, che un tempo neppure la sfiorava, cominciò a insinuarsi prepotentemente nella sua vita, sulla spinta anche di alcuni avvenimenti. Nella prima guerra mondiale moriva un professore che lei stimava molto. Fu un grande dolore per tutti, soprattutto per la moglie, la quale, anziché crollare sotto il peso di quel dramma, trovò nel rapporto con Dio la forza di iniziare una nuova vita. Edith ne fu profondamente colpita. «Fu il mio primo incontro con la croce — scriverà ricordando il fatto — e con la forza che essa comunica in chi la porta».

La ricerca della verità la condusse verso la verità di Dio. Nel 1921 il cammino di avvicinamento giungeva alla conclusione. Ospite di un'amica, fu da questa invitata a scegliersi un libro tra i molti di cui era fornita la sua biblioteca. Edith allungò la mano a caso e ne estrasse uno alquanto voluminoso: era l'autobiografia di santa Teresa d'Avila. Lo lesse d'un fiato. «Chiudendolo —ha poi scritto — mi sono detta: questa è la verità».

Santa. Teresa aveva sintetizzato in un motto la sua fede: «Dio basta». Edith lo fece suo. L'approdo al cattolicesimo avvenne il giorno di capodanno del 1922, quando ricevette il battesimo. La sua scelta di farsi cattolica la mise in vivace contrasto con la madre, che era molto legata alla religione ebraica. Dopo la conversione, Edith insegnò nel collegio delle domenicane di Speyer e viaggiò molto in Germania e all'estero. Nel 1932 insegnò pedagogia a Miinster. Ma il regime nazista aveva già cominciato a discriminare gli ebrei, costringendoli a lasciare insegnamento. Gli eventi infausti accelerarono un proposito che la Stein aveva già maturato, quello di dedicarsi alla vita contemplativa. E così, lasciandosi alle spalle una prestigiosa carriera, si annullava nell'anonimato nel Carmelo di Colonia, con il nome di Teresa Benedicta a Cruce.

Il Carmelo è una grande scuola di umiltà. Edith dovette mettere da parte i suoi libri per dedicarsi come le altre sorelle alle faccende domestiche: si adeguò alle esigenze della vita comune con gioia, per seguire Gesù anche nelle quotidiane umili cose. Nel 1938 con la professione perpetua decideva di essere per sempre carmelitana.

L'odio contro gli ebrei intanto divampava in Germania. La presenza di Edith, pur sempre ebrea nonostante la conversione al cristianesimo, nel Carmelo di Colonia costituiva un pericolo per le sue consorelle. Si trasferì allora in Olanda, nel Carmelo di Echt, dove si dedicò allo studio della figura e dell'opera di san Giovanni della Croce, grande riformatore, assieme a santa Teresa d'Avila, della vita carmelitana.

Nel 1940 i tedeschi invasero l'Olanda, l'odio contro gli ebrei cominciò a mietere vittime anche lì. Edith dovette appuntare sull'abito monastico la stella gialla che la segnalava come ebrea. E non fu la sola delle umiliazioni. I tempi s'erano fatti duri. «Sono contenta di tutto — scriveva —; solo se si è costretti a portare la croce in tutto il suo peso, si può conquistare la saggezza della croce».

Il 2 agosto 1942 i tedeschi irruppero nel Carmelo, prelevarono Edith, assieme alla sorella Rosa, fattasi anche lei carmelitana, e le avviarono al campo di raccolta di Westerbork, da dove il 7 agosto venne deportata ad Auschwitz: lì, in uno dei lager più tristemente noti per l'insana crudeltà dell'uomo, forse un paio di giorni dopo, finiva assieme alle altre compagne di sventura nelle camere a gas e poi nel forno crematorio.

Un ebreo scampato allo sterminio, che fu testimone delle ultime ore di Edith, ha descritto la sua serenità, la calma, l'incessante prodigarsi per gli altri, preda della disperazione e dello sconforto. Si occupava soprattutto delle donne: le consolava, cercava di calmarle, le aiutava; si prendeva cura dei figli di quelle mamme che, impazzite dal dolore, li abbandonavano. «Vivendo nel lager in un continuo atteggiamento di disponibilità e di servizio — scrive il testimone — rivelò il suo grande amore per il prossimo».

Ebrea per nascita, cristiana per scelta, dopo un lungo cammino di ricerca e di approfondimento dei vari aspetti della conoscenza, portando ai più alti livelli le istanze spirituali delle due religioni, ha poi volato alto nei cieli della mistica, ed è diventata esempio affascinante e trascinante per quanti, laici e credenti di varie religioni, cercano la verità con amore tenace e coraggioso.

Papa Giovanni Paolo II l'ha proclamata beata nel duomo di Colonia 1'1 maggio 1987 e santa 1'11 ottobre 1998, nella basilica di San Pietro a Roma, e poi l'ha anche dichiarata patrona d'Europa.

MARTIROLOGIO ROMANO. Santa Teresa Benedetta della Croce (Edith) Stein, vergine dell’Ordine delle Carmelitane Scalze e martire, che, nata ed educata nella religione ebraica, dopo avere per alcuni anni tra grandi difficoltà insegnato filosofia, intraprese con il battesimo una vita nuova in Cristo, proseguendola sotto il velo delle vergini consacrate, finché sotto un empio regime contrario alla dignità umana e cristiana fu gettata in carcere lontana dalla sua terra e nel campo di sterminio di Auschwitz vicino a Cracovia in Polonia fu uccisa in una camera a gas.

Pensiero del 09 agosto 2021

 Meditazione sul Vangelo di Mt 25,1-13

“Vegliate perché non sapete né il giorno, né l’ora”..

Nella parabola si parla di saggezza e di stoltezza, due termini che devono essere intesi in senso religioso, come indicanti la retta o non retta relazione con Dio; inoltre, vi si parla anche di un possibile “ritardo” dello Sposo. Bisogna vigilare nell’attesa di Cristo, poiché la sua venuta non sarà clamorosa e appariscente, calcolabile e situabile cronologicamente. Bisogna, dunque, non lasciarsi sorprendere, farsi trovare sprovvisti dell’olio della lampada, cioè delle virtù teologali della fede e della carità, così che, quando Egli verrà, potremo partecipare al suo convito: l’immagine del convito dice comunione, intimità gioiosa con il Signore.

L’inizio della parabola ha un tono festoso, poiché si parla di dieci ragazze che prendono le loro lampade per andare incontro allo sposo. Sono certamente le amiche della sposa, quelle che faranno da damigelle d’onore e accompagneranno la sposa fino al palazzo dello sposo. Il secondo versetto, però, pare una doccia fredda. Ci informa infatti che cinque di esse erano stolte e cinque sagge. Le stolte non avevano preventivato il ritardo dell’attesa, mentre le sagge sì. Qui scopriamo la peculiarità della parabola: la stoltezza consiste nel fatto di non tener conto del “ritardo” della venuta dello sposo. E si tratta di un “ritardo” che si protrae oltre il solito: “tutte furono prese dal sonno e si addormentarono”. Le sagge, però, non correvano alcun pericolo. L’esortazione è dunque a farsi trovare svegli, cioè “pronti”; e lo si può essere anche prendendosi il giusto riposo. Lo dimostra il fatto che appena le ragazze odono, verso mezzanotte, il grido: “Ecco lo sposo! Andategli incontro!”, quelle sagge in un attimo riassettano le proprie lampade, perché hanno portato con sé dell’olio di scorta. Di qui un insegnamento importante del racconto: affacciando l’ipotesi dell’indugio, Gesù vuol ottenere dal discepolo una virtù solida, capace di affrontare le immancabili prove della  stanchezza, dell’illusione, della fretta ansiosa, della distrazione. Ed è ciò che l’imperativo “state pronti” vuole ottenere. Solo quando arriva lo sposo le stolte si accorgono che le loro lampade si stanno spegnendo. La parabola vuol insegnare che al momento della venuta, o si è pronti, o non lo si è. Quando il Signore viene, nel giorno e nell’ora in cui uno meno se lo aspetta, non c’è più tempo per prepararsi. Ma nessuno potrà dire di non essere stato avvisato!


09 Agosto 

Ecco lo sposo: «Andate incontro a Cristo Signore».

Vieni, sposa di Cristo, ricevi la corona, che il Signore ti ha preparato per la vita eterna.

SALMO RESPONSORIALE (Salmo 44)
Rit: Ecco lo sposo: «Andate incontro a Cristo Signore».

Ascolta, figlia, guarda, porgi l’orecchio:
dimentica il tuo popolo e la casa di tuo padre;
il re è invaghito della tua bellezza.
È lui il tuo signore: rendigli omaggio.

Entra la figlia del re: è tutta splendore,
tessuto d’oro è il suo vestito.
È condotta al re in broccati preziosi;
dietro a lei le vergini, sue compagne,
a te sono presentate.

Condotte in gioia ed esultanza,
sono presentate nel palazzo del re.
Ai tuoi padri succederanno i tuoi figli;
li farai prìncipi di tutta la terra.

Vieni, sposa di Cristo, ricevi la corona, che il Signore ti ha preparato per la vita eterna.


08 agosto, 2021

Pensiero del 08 agosto 2021

 L'Eucaristia, è il Pane del cielo che inabissato sulla terra ci conduce, al cielo.

Meditazione sul Vangelo di Gv 6,41-51

Io sono il pane vivo, disceso dal cielo.

La fame è diventata avidità in noi e ci ha indotto al peccato sin dal principio. Un cibo proibito e venefico ci ha procurato la morte. Quella bramosia insaziata rode ancora nel cuore dell’uomo; si esprime nella voglie incontenibili e nei desideri smodati. Sperimentiamo, come il profeta Elia, con il peccato e la morte, la corruzione della carne, la debolezza e tutte le umane fragilità. Abbiamo bisogno di rinascere ed essere rinvigoriti con un cibo buono e salutare, urge rinverdire tutto il nostro essere e restituirgli l’originario divino splendore. Ecco allora il capolavoro di Dio: incarna il suo Figlio unigenito Gesù Cristo con la carne purissima e incorrotta della Vergine Immacolata; ora quella stessa carne, consacrata sugli altari del mondo, ci viene offerta come pane di vita. È il pane vivo disceso dal cielo. Ci viene dato gratuitamente per essere rigenerati a vita nuova, perché la nostra carne perda la debolezza della corruzione e torni ad essere candida come Dio l’aveva creata. È carne di comunione che così rinsalda i nostri vincoli con il nostro Creatore e con i nostri fratelli. È carne traboccante di energia divina che ci consente di superare tutti gli ostacoli e le prove della vita e di raggiungere l’obiettivo finale della nostra esistenza. Per noi partecipi del banchetto celeste il cammino non è troppo lungo perché l’energia abbonda. In virtù di quel cibo ci è concesso di orientare al bene tutta la nostra vita. Ecco perché san Paolo, sapendo del pane di cui possiamo nutrirci, proprio oggi così ci esorta: “Fratelli, non vogliate rattristare lo Spirito Santo di Dio, col quale foste segnati per il giorno della redenzione. Fatevi dunque imitatori di Dio, quali figli carissimi, e camminate nella carità, nel modo che anche Cristo vi ha amato e ha dato se stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore”. Chi si nutre di Dio è pervaso dal suo Spirito; è interiormente rinnovato e purificato dal quel Soffio divino, possiamo davvero diventare imitatori e figli di Dio. (Padri Silvestrini)

08 Agosto 

Gustate e vedete com’è buono il Signore

Io sono il pane vivo, disceso dal cielo, dice il Signore, se uno mangia di questo pane vivrà in eterno.

(Giovanni 6,11)

SALMO RESPONSORIALE (Salmo 33)

Rit: Gustate e vedete com’è buono il Signore.

Benedirò il Signore in ogni tempo,
sulla mia bocca sempre la sua lode.
Io mi glorio nel Signore:
i poveri ascoltino e si rallegrino.

Magnificate con me il Signore,
esaltiamo insieme il suo nome.
Ho cercato il Signore: mi ha risposto
e da ogni mia paura mi ha liberato.

Guardate a lui e sarete raggianti,
i vostri volti non dovranno arrossire.
Questo povero grida e il Signore lo ascolta,
lo salva da tutte le sue angosce.

L’angelo del Signore si accampa
attorno a quelli che lo temono, e li libera.
Gustate e vedete com’è buono il Signore;
beato l’uomo che in lui si rifugia.

Io sono il pane vivo, disceso dal cielo, dice il Signore, se uno mangia di questo pane vivrà in eterno.

(Giovanni 6,11)


07 agosto, 2021

Pensiero del 07 agosto 2021

 Meditazione sul Vangelo di Mt 17,14-20

“Il giusto vivrà per la sua fede”.

Il miracolo dell’epilettico guarito segue l’evento della Trasfigurazione. Sul monte Dio aveva chiesto agli apostoli di ascoltare il Figlio, e a valle c’è la dimostrazione che, purtroppo, anche i discepoli, con la loro parziale sordità, rischiano d’essere parte integrante di quella generazione incredula e perversa che non meriterebbe la presenza dell’Emmanuele. Tuttavia, poiché nei discepoli c’è solo carenza di fede, è su quel “poco” che il Signore cerca di operare, in modo che come un “piccolo seme di senape”, essa cresca, così da “trasportare le montagne” dell’incredulità.


Secondo san Paolo, la fede nel Signore Gesù ci ottiene quella vita che i Giudei aspettavano dall’osservanza della Legge. Il credere, però, in quanto risposta umana alla proposta di Dio, non è cosa scontata. Lo vediamo negli stessi apostoli. Essi, pur vivendo con Gesù da tanto tempo, pur essendo stati testimoni di tanti miracoli, pur avendolo riconosciuto come il Messia, hanno ancora «poca fede», al punto che non riusciranno poi a superare lo scandalo della croce. Essi, quando furono inviati in missione, avevano ricevuto da Gesù il potere di “guarire gli infermi, risuscitare i morti, purificare i lebbrosi, scacciare i demoni”, eppure in quest’occasione – a causa della loro poca fede – non riescono ad esaudire un padre che chiede loro la salvezza del figlio, perciò deve intervenire direttamente il loro Maestro. Il potere di compiere miracoli nel suo nome Gesù non lo ha limitato ai Dodici, lo ha esteso alla Chiesa intera di ogni tempo. Sempre che si abbia fede! Questa virtù non mancò a santa Chiara la cui vita è costellata di miracoli, il più grande dei quali non fu quello d’aver liberato Assisi dall’assedio dei Saraceni, ma d’essersi rivestita, lei ricca e nobile, degli abiti di “madonna povertà”, permettendo così ad “un cammello di passare nella cruna di un ago”. Miracolo possibile a tutti noi quando, crescendo nella fede, ci stacchiamo dai nostri interessi egoistici per convertirci alla nostra vera ricchezza che è Cristo e il suo Vangelo. Allora faremo anche noi esperienza di una preghiera “miracolosa”, che otterrà d’essere esaudita non a misura dei nostri meriti o della nostra santità, ma di quella grazia sovrabbondante che Gesù dona a chiunque crede in lui.Meditazione sul Vangelo di Mt 17,14-20


“Il giusto vivrà per la sua fede”.


Il miracolo dell’epilettico guarito segue l’evento della Trasfigurazione. Sul monte Dio aveva chiesto agli apostoli di ascoltare il Figlio, e a valle c’è la dimostrazione che, purtroppo, anche i discepoli, con la loro parziale sordità, rischiano d’essere parte integrante di quella generazione incredula e perversa che non meriterebbe la presenza dell’Emmanuele. Tuttavia, poiché nei discepoli c’è solo carenza di fede, è su quel “poco” che il Signore cerca di operare, in modo che come un “piccolo seme di senape”, essa cresca, così da “trasportare le montagne” dell’incredulità.


Secondo san Paolo, la fede nel Signore Gesù ci ottiene quella vita che i Giudei aspettavano dall’osservanza della Legge. Il credere, però, in quanto risposta umana alla proposta di Dio, non è cosa scontata. Lo vediamo negli stessi apostoli. Essi, pur vivendo con Gesù da tanto tempo, pur essendo stati testimoni di tanti miracoli, pur avendolo riconosciuto come il Messia, hanno ancora «poca fede», al punto che non riusciranno poi a superare lo scandalo della croce. Essi, quando furono inviati in missione, avevano ricevuto da Gesù il potere di “guarire gli infermi, risuscitare i morti, purificare i lebbrosi, scacciare i demoni”, eppure in quest’occasione – a causa della loro poca fede – non riescono ad esaudire un padre che chiede loro la salvezza del figlio, perciò deve intervenire direttamente il loro Maestro. Il potere di compiere miracoli nel suo nome Gesù non lo ha limitato ai Dodici, lo ha esteso alla Chiesa intera di ogni tempo. Sempre che si abbia fede! Questa virtù non mancò a santa Chiara la cui vita è costellata di miracoli, il più grande dei quali non fu quello d’aver liberato Assisi dall’assedio dei Saraceni, ma d’essersi rivestita, lei ricca e nobile, degli abiti di “madonna povertà”, permettendo così ad “un cammello di passare nella cruna di un ago”. Miracolo possibile a tutti noi quando, crescendo nella fede, ci stacchiamo dai nostri interessi egoistici per convertirci alla nostra vera ricchezza che è Cristo e il suo Vangelo. Allora faremo anche noi esperienza di una preghiera “miracolosa”, che otterrà d’essere esaudita non a misura dei nostri meriti o della nostra santità, ma di quella grazia sovrabbondante che Gesù dona a chiunque crede in lui.

07 Agosto 

Ti amo, Signore, mia forza

Il salvatore nostro Cristo Gesù ha vinto la morte e ha fatto risplendere la vita per mezzo del Vangelo.

(II Timoteo 1,10)

SALMO RESPONSORIALE (Salmo 17)
Rit: Ti amo, Signore, mia forza.

Ti amo, Signore, mia forza,
Signore, mia roccia,
mia fortezza, mio liberatore.

Mio Dio, mia rupe, in cui mi rifugio;
mio scudo, mia potente salvezza e mio baluardo.
Invoco il Signore, degno di lode,
e sarò salvato dai miei nemici.

Viva il Signore e benedetta la mia roccia,
sia esaltato il Dio della mia salvezza.
Egli concede al suo re grandi vittorie,
si mostra fedele al suo consacrato.


Il salvatore nostro Cristo Gesù ha vinto la morte e ha fatto risplendere la vita per mezzo del Vangelo.

(II Timoteo 1,10)


06 agosto, 2021

L’AUGURIO DELLA DIOCESI PER I 70 ANNI DEL VESCOVO FRANCESCO

 Auguri al nostro vescovo Francesco

di buon compleanno
Auguri di vero cuore


Dio, lo benedica!




Tanti auguri Vescovo Francesco! Buon 70mo compleanno!

Se è vero, come disse l’attrice statunitense Helen Hayes, che “gli anni più difficili nella vita sono quelli tra i dieci e i settanta”, allora adesso viene il bello! Qualcuno forse vedrebbe meglio la citazione del più serio aforisma del filosofo Arthur Schopenhauer: “I primi quarant’anni della nostra vita forniscono il testo, i trenta seguenti il commento, per poi comprendere rettamente il vero significato e la coerenza del testo con ogni finezza del medesimo”.

Come spesso succede che tra i due litiganti il terzo gode, vogliamo allora raccogliere i sentimenti di affetto e di gratitudine di tutta Bergamo nelle parole che il compianto Cardinale Dionigi Tettamanzi le rivolse nel solenne momento di ingresso nella nostra Cattedrale come nuovo Vescovo, il 15 marzo 2009: “Confida nella parola del Signore, cerca la via della santità, porta Cristo nel mondo. Questa è la vera testimonianza che la tua gente si attende, con la coraggiosa e serena apertura al soffio dello Spirito che fu di Papa Giovanni XXIII, figlio di questa terra, e con la profetica ispirazione della via maestra della missione che indicò il Papa bresciano Paolo VI”.

L’augurio le giunga oggi dalla comunità ecclesiale e dalla società civile. Nel suo primo giorno come nostro Vescovo lei disse che era convinto che “la Chiesa non esaurisce l’intera società bergamasca, ma deve concorrere con tutti alla costruzione di una società a misura d’uomo, attraverso la vitalità della comunità cristiana e le sue molteplici iniziative, attraverso l’istanza profetica e l’intelligenza delle cose che le deriva dalla sua fedeltà al Vangelo, attraverso le mediazioni culturali, sociali, economiche, politiche e l’assunzione di responsabilità da parte di laici ispirati dalla fede, con un contributo dialogante con altri, comprese le altre religioni, in vista del perseguimento della qualità umana della vita della città”. Lei tracciò così un orizzonte di apertura e dialogo che in questi 12 anni le abbiamo visto percorrere giorno dopo giorno, e che oggi si concretizza significativamente nel Pellegrinaggio Pastorale che toccherà ogni incrocio della nostra terra bergamasca.

Giunto all’importante soglia dei 70 anni, che è linea di traguardo e insieme di nuova partenza, di cuore le auguriamo: “buona vita!”. Quella vita buona che lei ci invita a servire, dove la vita accade, insegnandoci con il suo magistero e con il suo esempio quella sobrietà e essenzialità, stigmatizzate in modo simpatico nel vederla girare per la città con la e-bike o arrivare nelle parrocchie con la sua “pandina”, spingendo tutti al passaggio da una interpretazione statica a una dinamica, da una struttura organizzativa a una relazionale dentro le terre esistenziali.

Di cuore le auguriamo: “móla mia!”. È una parola che è risuonata in mille modi in questa pandemia in cui lei ha voluto in modo particolare far sentire la sua vicinanza a tutti i bergamaschi, con uno stile fraterno, ospitale, prossimo. Lo stesso che sta indicando a tutte le parrocchie.

Di cuore le auguriamo, nella preghiera: “vai avanti!”, nel senso che suggerisce l’antica invocazione latina: “Oremus pro antistite nostro…”, preghiamo per il “colui che sta davanti a noi”: ci stia segnando percorsi e aprendo il cammino e il suo passo sia saldo, pascendo il popolo nella tua fortezza, Signore, illuminato dalla sublimità del tuo nome”.

Auguri di buon compleanno, Vescovo Francesco!



Trasfigurazione del Signore

 Trasfigurazione del Signore

autore Raffaello Sanzio anno 1520 titolo Trasfigurazione

Nome: Trasfigurazione del Signore
Titolo: Gesù rivela ai tre discepoli diletti il Corpo del Vero Uomo
Ricorrenza: 6 agosto
Tipologia: Festa




Il Divin Redentore Gesù aveva già predicato per due anni il Vangelo dell'amore per tutta la Palestina, e si era già scelti i dodici Apostoli, ma la Buona Novella non era ancora stata compresa che in piccola parte: i suoi discepoli medesimi restavano ancora dubbiosi e tiepidi.

Per confermare nella fede almeno i più amati fra gli Apostoli, prese con sè Pietro, Giacomo e Giovanni, li condusse sulla cima del Tabor ed innanzi ad essi si trasfigurò. Il suo viso divenne risplendente come il sole e le sue vesti candide come la neve. Ed apparvero Mosè ed Elia che conversavano con lui. Pietro allora prese la parola e disse a Gesù: « È bene per noi lo star qui; se vuoi facciamo qui tre tende: una per Te, una per Mosè ed una per Elia ». Mentre ancora parlava una lucida nuvola li avvolse e da essa si udì una voce che diceva: « Questo è il mio Figliuolo diletto nel quale mi sono compiaciuto: ascoltatelo ». Udendo tale voce i discepoli caddero bocconi a terra e furon presi da gran timore, ma Gesù, accostatosi a loro, li toccò dicendo : « Levatevi e non temete »; ed essi alzati gli occhi non videro che Gesù. Egli poi nello scendere dal monte ordinò di non parlare a nessuno di quella visione, prima che il Figliuol dell'Uomo fosse risuscitato dai morti.

Questo bellissimo tratto del Santo Vangelo è preso da S. Matteo, ma lo si trova pure in S. Luca ed in S. Marco. Gesù prende con sè, e vuole testimoni della sua gloria: Pietro, il discepolo dal cuore ardente e generoso fino all'eroismo; colui che pochi giorni prima era stato costituito capo della Chiesa. Giacomo, il fratello di Giovanni, impetuoso e fedele che voleva sedere alla destra di Gesù, per cui si disse disposto a bere lo stesso calice amaro della passione. Giovanni, prediletto perchè il più giovane ed il più innocente. Tutti e tre li vedremo in seguito seguire il Maestro nell'Orto degli Ulivi, recarsi per primi al sepolcro, predicare con zelo ardente la fede, e dare la vita per il loro Maestra.

PRATICA. Il Padre sul Tabor ha proclamato: «Questo è il mio Figlio diletto, lui ascoltate ». Ascoltiamo questo Maestro Divino quando ci parla per mezzo della Chiesa o dei suoi ministri.

PREGHIERA. Dio, che nella gloriosa Trasfigurazione del tuo Unigenito hai confermato i misteri della fede con la testimonianza dei padri e, con voce partita da nube luminosa, hai meravigliosamente proclamata la perfetta adorazione dei figli, concedici, propizio, di poter divenire coeredi del Re della gloria e partecipi della sua medesima gloria.

MARTIROLOGIO ROMANO. Festa della Trasfigurazione del Signore, nella quale Gesù Cristo, il Figlio Unigenito, l’amato dell’Eterno Padre, davanti ai santi Apostoli Pietro, Giacomo e Giovanni, avendo come testimoni la legge ed i profeti, manifestò la sua gloria, per rivelare che la nostra umile condizione di servi da lui stesso assunta era stata per opera della grazia gloriosamente redenta e per proclamare fino ai confini della terra che l’immagine di Dio, secondo la quale l’uomo fu creato, sebbene corrotta in Adamo, era stata ricreata in Cristo.