Ⓒ Blog Site official di Canzano Barbara sono una ragazza disabile, dalla nascita. Sono devota a Maria Regina della Famiglia apparsa nel maggio 1944 a Ghiaie di Bonate (Bg) ad Adelaide Roncalli a soli sette anni. Scopo mantenere viva la Memoria. Sono devota al GIUDICE ROSARIO ANGELO LIVATINO UOMO MARTIRE PER LA GIUSTIZIA INDIRETTAMENTE ANCHE DELLA FEDE
Testimonianze dei compagni di seminario di Rolando Maria Rivi
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31 ottobre, 2020
31 Ottobre 2020
09 ottobre, 2020
07 ottobre, 2020
Messaggio di don Antonio Maffucci FSCB
Messaggio di don Antonio Maffucci FSCB
“Carissimi, oggi, festa della Beata Vergine Maria del Rosario, ho iniziato a scrivervi per condividere con voi la particolare giornata di domani, 8 ottobre.
“L’8 ottobre 1949 per me è un giorno dove non si può che ringraziare per il dono della vita. Potevamo non esserci … e non ho fatto nulla per essere dentro questa immensa realtà.
“Esisto, ed esistiamo, non come una delle tante cose, ma come persona, con la libertà, la volontà, l’intelligenza. Chiamati nella vita. Questa è la cosa grande che a un certo punto si scopre e si capisce. Non un semplice esserci, un esserci inconsapevole, inconscio, ma con la coscienza di essere persone. E la caratteristica di esserci come “persona” porta alla scoperta della vita come responsabilità, chiamati per nome a “rispondere”: è vertiginoso. Un compito!!! Questo vuol dire riconoscere un Autore del tutto che ci invita ad essere collaboratori della sua creazione.
“Per me l’avvenimento cristiano, con il suo apice che è – il Dio che si fa uomo come noi (Verbum caro factum est) – è stato ciò che mi ha permesso di comprendere e capire la grandezza e la bellezza della vita e soprattutto scoprire il mio essere voluto e amato, proprio nel poter essere parte di una storia. Una storia dove ha potuto prendere forma quella particolare modalità con cui sono stato chiamato a vivere la responsabilità, che è la caratteristica fondamentale dell’esistenza, il sacerdozio (1979 – 2020 = 41 anni di sacerdozio).
Un anno difficile, ma ricco di doni –“Quest’ultimo anno è stato, come per tutti, un anno difficile, faticoso, pieno di disagi, di blocchi, di rapporti e di percorsi interrotti e il più delle volte persi. Celebrazioni annullate, Santa Eucaristia resa impossibile … un anno tremendo e molto complesso. Personalmente ho fatto di tutto per continuare a seguire le persone, a volte con grande fatica e molte difficoltà, ma con la consueta passione e dedizione.
“Devo comunque riconoscere che, in questo tempo, mi sono stati dati doni particolari e ci sono state aperture impensabili, per una comprensione e conoscenza di questo tempo e del Mistero che ci avvolge, veramente unici. Anche attraverso questi particolari doni mi rendo conto che sono chiamato a rivedere e ripensare a molte cose di tutta la mia vita, compreso il mio essere chiamato al sacerdozio: un tempo di grande conversione. Umilmente devo riprendere il tutto con forza e coraggio.
“Quello che vivo, e come lo vivo, non basta più. Questo deve essere un tempo di grande silenzio, per essere sempre più profondamente in ascolto di Lui (che mi è sempre più intimamente presente e vicino, con la forza del suo amore), per vivere sempre più nella sua volontà e per la sua gloria. Un tempo di grande trasformazione. Un nuovo inizio, in un profondo silenzio, senza clamore, potente e discreto.
“Questo primo
anno, che segue gli altri 70, ha mostrato, in modo impensabile e
totalmente imprevisto (soprattutto da gennaio in avanti e nella sua
ultima parte), una possibilità di un nuovo inizio. Altra grande
ragione per ringraziare.
Il Signore ci vuole una cosa sola con
Lui – “Per tutto ciò devo ringraziare per primi papà Giuseppe e
mamma Margherita, con tutta la mia famiglia, i parenti e poi tutte le
realtà, le persone che mi hanno aiutato e sostenuto in tutti questi
anni. Prego per tutti coloro che ho incontrato e conosciuto. L’elenco
è lunghissimo: Milano, Sant’Elena, Quinto Romano, Baggio, Dergano,
l’incontro con la realtà nata da don Luigi Giussani, la Lombardia,
la
Brianza, Bergamo con il seminario, la comunità missionaria del
Paradiso, l’Abruzzo, Pescara, Roma, Tor Vergata, le Cappellette, il
Lazio, Grosseto, la Toscana, la Campania, le Marche, il Veneto, il
Trentino, i molti monasteri e santuari che hanno costellato il mio
cammino, Loreto, Montichiari, Civitavecchia, Medjugorje. Vorrei
ricordare tutto e tutti, ma non è proprio possibile!
“Ora evidenzio il grande dono della Fraternità Sacerdotale San Carlo, di cui sono parte sin dall’inizio. Infine ringrazio per essere stato chiamato in questi ultimi anni al Santuario del Beato Rolando Rivi, seminarista martire (morto dicendo “Io sono di Gesù”), nella Diocesi di Reggio Emilia – Guastalla, dal Vescovo Massimo, che ha aperto un ulteriore orizzonte di esperienza e conoscenza nel grande avvenimento di Cristo nella storia.
“Il Signore ci vuole una cosa sola con Lui– Dio uno e trino – salvi, liberi dal male, dal maligno, costruttori della civiltà dell’amore e della verità, attraverso l’intercessione di Maria, madre di Dio e madre nostra, corredentrice, con l’ausilio di tutti i santi, i beati, gli angeli e gli arcangeli.
“Tutto sia secondo la sua volontà e per la sua gloria. Vi chiedo sostenetemi in questo nuovo inizio intravvisto, a cui mi sento sollecitato. Profondamente uniti nella preghiera”.
don Antonio Maffucci (FSCB)
30 settembre, 2020
29 settembre, 2020
Don Ubaldo Marchioni
Marchioni Ubaldo, da Augusto e Antonietta Smerigli; nato il 19 maggio 1918 a Vimignano (Grizzana). Nel 1943 residente a S. Martino (Marzabotto). Parroco. «Intelligente e pieno di volontà e di amor proprio» come testimoniò Anna Morandi sua prima insegnante, dopo aver frequentato le prime tre classi elementari a Vimignano completò il ciclo delle elementari recandosi tutte le mattine a Riola (Vergato) e alternando allo studio il lavoro nei campi. «Magro, lentigginoso, mansueto» come lo definì il suo parroco don Paolo Marocci, ben presto maturò la sua vocazione sacerdotale e nel 1930 entrò nella sede distaccata del Seminario arcivescovile di Borgo Capanne (Granaglione); poi completò il diaconato a Bologna a Villa Revedin; nel 1942 fu ordinato sacerdote. Il 29 giugno dello stesso anno cantò la sua prima messa a Vimignano. Nel marzo 1943 fu nominato vicario cooperatore di don Augusto Castelli nella parrocchia di Monzuno ed ebbe la cura delle anime di San Nicolo della Gugliara (Monzuno), una piccola parrocchia di 200 anime che cercò di conquistare «con il silenzio e l’umiltà». Dal padre, don Ubaldo aveva ereditato la scarsa loquacità e anche la capacità di porsi al servizio degli altri. Dopo l’8 settembre 1943, soccorse i soldati sbandati e aiutò a mettere in salvo le scorte alimentari. Sul finire dell’ottobre 1943 presso la sagrestia della chiesa di Vado (Monzuno), si tenne una delle prime riunioni per la costituzione della brg Stella rossa Lupo alla quale parteciparono il parroco don Eolo Cattani, Mario Musolesi, Olindo Sammarchi, Leonildo Tarozzi, Giorgio Fanti e lo stesso don Ubaldo. Venne deciso di organizzare una cooperativa di consumo per fronteggiare le esigenze della popolazione meno abbiente e sostanzialmente fu sancita la nascita della formazione partigiana. A seguito della revisione dei confini parrocchiali del gennaio 1944, il cardinale Nasalli Rocca il 27 febbraio 1944 decise di affidare a don Marchioni la cura delle anime della parrocchia di San Nicolo della Gugliara, ma don Ubaldo chiese ed ottenne la parrocchia di San Martino (Marzabotto) di cui prese possesso il 23 marzo 1944, mentre la nomina ufficiale venne ratificata il 17 maggio 1944. Fra don Marchioni e i suoi parrocchiani si stabilì un clima di cooperazione e di solidarietà dovuto anche alla gravità della situazione.
I legami con la brg Stella rossa
Lupo, che operava nella zona, s’intensificarono; i partigiani erano
suoi figli «da aiutare, proteggere, sostenere» anche se non approvò
le forme di lotta fratricida che innescavano le rappresaglie. Per
questo suo legame con i partigiani fu definito dai nazifascisti «il
grande partigiano». Settembre 1944. Don Ubaldo nonostante le voci di
imminenti rappresaglie e i suoi timori, decise di non abbandonare la
sua gente. Il 29 settembre 1944, allo scatenarsi della rappresaglia,
dopo aver celebrato messa a San Martino di Caprara, decise di
portarsi a Cerpiano, passando per Santa Maria di Casaglia
(Marzabotto).
La chiesa era stipata di persone. Si fermò con
loro e dopo la somministrazione della Comunione, incominciò a
recitare il Rosario. I nazifascisti, sfondata la porta della chiesa,
ingiunsero ai presenti di portarsi verso il cimitero e negarono a don
Ubaldo di seguire i suoi parrocchiani. Venne fucilato sulla predella
dell’altare maggiore. Poi, devastata la chiesa, la incendiarono.
Tre giorni dopo i tedeschi diedero il permesso di tumularlo con la
sua gente nella fossa comune. La madre e la sorella Marta furono
uccise il 30 settembre 1944 a S. Martino. Riconosciuto partigiano,
con funzione di cappellano militare della brg Stella rossa Lupo dal 2
febbraio 1944 al 29 settembre 1944. [AQ] Fonte: L. Gherardi, Le
Querce di Monte Sole, pp. 163-197. [AP]
A Vimignano di Grizzana - un borghetto
ai piedi di Montovolo - nasce don Ubaldo il 19 maggio 1918. Fin da
piccolo ama aiutare il parroco come chierichetto sia in chiesa che
nelle visite alle famiglie. Anche in casa è servizievole e si presta
volentieri per tagliare la legna e per aiutare nei lavori dei campi.
A soli dodici anni entra in seminario e il 29 giugno 1942 canta la
prima messa. Viene mandato subito a Monzuno, come cappellano, e solo
nel giugno del 1944 viene insediato come parroco a San Martino. Nella
canonica, viene raggiunto dal papà Augusto, dalla mamma Antonietta e
dalla sorella minore Marta. Sono giorni nei quali si fanno più
frequenti i combattimenti sia in pianura sia sulla montagna, ma il
cuore di don Ubaldo è pieno di quella fede che allieta il cuore dei
giusti. Egli inizia il suo ministero con grande slancio e devozione.
Trova nella maestra Antonietta Benni e in suor Maria Fiori, da poco
sfollata presso i suoi familiari, un valido aiuto, specialmente per
il catechismo ai ragazzi. Ai primi di settembre si riescono infatti a
celebrare le prime comunioni con una certa solennità. Instancabile,
don Ubaldo cerca di visitare tutti, e proprio in quei giorni riesce a
raggiungere in bicicletta il suo paese nativo per incontrare la
sorella maggiore Maria e lo zio cappuccino padre Mauro. È al cuore
dello zio che don Ubaldo affida tutte le ansie e le preoccupazioni
per la sorte della sua gente e anche per la sua incolumità, ma in
lui è ben radicato il fermo proposito di non abbandonare il suo
gregge. Le truppe tedesche, come sappiamo, accerchiano intanto come
in una morsa tutta la zona di Monte Sole. I partigiani colti di
sorpresa, dopo una dura battaglia, perdono molti compagni, compreso
il loro comandante Mario Musolesi, detto “Lupo”. Alcuni riescono
a fuggire, ma il preciso disegno militare volto, non solo a sgominare
la Stella Rossa, ma a “liberare” un’area strategica dalla
presenza umana, con l’aggiunta della mentalità violenta delle
forze naziste, si ritorce sulla popolazione indifesa.
Il 29
settembre don Ubaldo raduna nella chiesetta di San Martino la gente
del paese, e li esorta a ricevere i sacramenti. Poi si dirige verso
la chiesa di Santa Maria a Casaglia per consumare le ostie consacrate
custodite nel tabernacolo, nel timore che vengano profanate.
Arrivato, trova le persone, quasi un centinaio, già radunate in
chiesa, impaurite e tremanti. Insieme con loro recita il santo
rosario e consuma le ostie. Mentre ancora sono in preghiera, arrivano
i tedeschi che, dopo aver sfondato la porta della chiesa, costringono
tutti con la forza ad uscire e ad incamminarsi verso il cimitero.
Prima però, uccidono una donna paralizzata alle gambe, Vittoria; e
altre due persone che avevano cercato rifugio sul campanile. Don
Ubaldo è ancora ai piedi dell’altare quando viene raggiunto da una
raffica di mitra. I tedeschi cercano poi di appiccare il fuoco alla
chiesa e pongono accanto al corpo di don Ubaldo un cartello con la
scritta: “Ribelli, questa è la vostra sorte”.
Gli altri
vengono intanto condotti al cimitero e ammassati all’interno contro
le pareti della cappellina, poi, piazzate le mitragliatrici, i
soldati incominciano a sparare e a lanciare bombe a mano. Solo
quattro dei prigionieri resteranno in vita! Tutto il borgo viene dato
alle fiamme e, dalla valle, il monte appare come un immenso falò. In
quei giorni, rimasero uccise anche la mamma e la sorella di don
Ubaldo. Solo il papà riuscì a salvarsi. Egli è stato una delle
quattro persone, che hanno accordato il perdono chiesto dal maggiore
delle SS Reder. E, a chi gli chiedeva come potesse perdonare, il buon
vecchio rispondeva in dialetto: “Quello che faccio lo so
io!”.
Sotto le macerie della chiesa è stata ritrovata la
pisside che forse don Ubaldo stringeva ancora tra le mani quando fu
ucciso. Essa porta ancora i segni ben visibili dei proiettili e resta
per tutti una preziosa reliquia del suo martirio.
Don Ubaldo Marchioni, aveva ventisei anni.
Don UBALDO MARCHIONI |
29
settembre 1944: nella montana chiesetta di Casaglia di Caprara,
attorno al sacerdote che sta devotamente celebrando, un centinaio di
fedeli, in prevalenza donne e bambini, prostrati nella trepidazione
di un pericolo imminente, affisano gli occhi a quell'altare su cui si
rende presente la Vittima Divina.
— Pietà, Signore —
è il grido che erompe più angosciato da ogni petto quando più
violente e più vicine si fanno le raffiche delle mitragliatrici, più
sinistri i bagliori degli incendi, più basse e dense le cupe ondate
di fumo che si alzano nel cielo sereno dalle case in fiamme.
Sono stati svegliati all'alba dai ripetuti spari nelle boscaglie
attorno e specie sulle cime del Monte di Caprara, su cui ha sede un
Comando di Partigiani, e presto si è sparsa fra loro l'agghiacciante
notizia portata da qualche montanaro in fuga:
— I
tedeschi danno la caccia ai Partigiani, e bruciano tutto! Scappate! —
Da Sperticano, da Pioppe, da Gardelletta, da «La Quercia» infatti
l'irruenza nemica si stringe e incalza.
Gli uomini in
parte hanno raggiunto i boschi più scoscesi verso il Setta, le donne
e i bambini hanno sperato una salvezza nella sacra inviolabilità del
tempio, e a gruppi o isolati, col cuore in gola, si sono raccolti nel
piazzale e nell'interno della chiesa.
Non c'è l'Economo
che è il Parroco di S. Martino di Caprara, don Ubaldo Marchioni, il
giovane zelante sacerdote che ha incarico di provvedere anche a
questa parrocchia che sovrasta la sua Caprara. Egli, oltre a
celebrare la Messa nei giorni festivi a Casaglia, si inerpica, appena
può, anche alla chiesina di Cerpiano, anch'essa affidata alle sue
cure.
Ma quei buoni montanari sanno per esperienza lo
zelo di d. Ubaldo ed hanno aspettato fiduciosi, come le pecorelle
cadute in una sterpaia inestricabile chiamano e aspettano il pastore
che le liberi.
E d. Ubaldo è venuto.
È
venuto nonostante le pressioni dei suoi congiunti che lo
scongiuravano di restare in casa in quella mattina che già si
presentava con sì tristi presagi, mentre attorno cominciavano a
levarsi al cielo le prime colonne di fumo dai cascinali in fiamme.
Don Ubaldo ha sentito più forte l'appello di una voce superiore. Ha
ricordato che quando prese possesso della sua parrocchia di
S.Martino, parlando ai suoi fedeli, aveva loro detto: — Ben
volentieri e di gran cuore io mi sacrificherò per le anime vostre! —
Ed ora è giunto il momento di mantenere quella promessa. Anche lassù
vi è una parte del suo gregge esposto al pericolo, anche lassù vi è
il Ss.mo Sacramento che può essere profanato, e bisogna provvedere:
consumare le Sacre Specie, fare Comunioni anche lassù e a Cerpiano,
se è possibile!, come poco prima ha fatto nella sua chiesa di
Caprara con i molti popolani che si sono riversati nel tempio, in
canonica e nei locali adiacenti.
— Bisogna che vada! —
ha deciso don
Ubaldo. — Pregate. Sarà quel che Dio
vuole!
— E anche il padre non ha saputo più
trattenerlo.
Sua intenzione era di giungere prima fino a
Cerpiano, la località più isolata e più scomoda, provvedere alla
sicurezza di quella chiesina e degli abitanti, poi ritornare a
Casaglia e infine ritirarsi ancora presso i suoi a S. Martino.
Ma passando da Casaglia si è visto circondale da quel numeroso
gruppo già da tempo in attesa fiduciosa. Gli si sono stretti
attorno:
— D. Ubaldo, resti con noi! Non ci abbandoni,
d. Ubaldo! —
Si sono levate mani tremanti a
supplicarlo; tanti occhi, nuotanti nelle lacrime e dilatati dal
terrore, lo hanno fissato con ostinata fiducia; le mamme gli hanno
presentato i loro piccoli stretti alle loro sottane:
—
Pei nostri bambini, d. Ubaldo —
E d. Ubaldo è restato
rinunciando a recarsi a Cerpiano ove forse l'avrebbe atteso in
agguato un diverso martirio.
È entrato in chiesa e si è
preparato per la Messa: tutti si sono riversati attorno all'altare e
si sono prostrati a terra.
È il giorno di San Michele
Arcangelo. — Fortis in bello! — pensa d. Ubaldo e invoca fortezza
per i suoi che si dibattono inermi in una delle aberrazioni più
mostruose della guerra.
Al momento della Comunione molti
si appressano al Banchetto degli Angeli battendosi il petto. Le Sacre
Specie sono consumate.
La Messa è celebrata; d. Ubaldo
depone i paramenti, passa tra la folla che non lascia la chiesa e
dice ancora una parola di conforto mostrando l'intenzione di dare una
scappata a Cerpiano.
Ma la popolazione è troppo agitata:
sente, ed è ben triste presentimento!, che il pericolo si fa più
vicino. Già giungono dalle alture i comandi gutturali dei
rastrellatori a caccia dei partigiani e dei civili; e tutti si
stringono intorno a lui. È una barriera di corpi e di anime che non
si può superare e d. Ubaldo ancora si commuove:
—
Recitiamo il Rosario, allora. —
Tutti hanno un sospiro
di sollievo e, mentre ancora si inginocchiano, sentono alleviarsi il
panico che li opprimeva. D. Ubaldo estrae la corona, si inginocchia
sui gradini dell'altare e intona il rosario. I fedeli fanno coro.
L'irruzione in chiesa di un gruppetto di tedeschi col mitra puntato
interrompe la preghiera.
D. Ubaldo si alza in piedi, le
donne e i bambini ammutoliscono. I tedeschi avanzano verso il prete:
lo riconoscono:
— Il grande partigiano! —
Così l'avevano chiamato da tempo, sapendo del suo aiuto
disinteressato a tutti coloro che bussavano alla sua porta; anche e
specialmente ai partigiani, poiché
i partigiani erano i più bisognosi.
Quando fin dal
gennaio 1944 le montagne che sovrastano la sua chiesa si popolarono
di partigiani, di renitenti alla leva o di ribelli alla
repubblichetta di Salò egli fu in mezzo a loro come un missionario
di Cristo, perché,
oltre al pane per rifocillare i loro corpi, sapeva dire la parola
buona che consola lo spirito, sapeva diffondere gli elementi
dottrinali della Democrazia Cristiana per illuminare le loro menti e
confortarli ad ideali più puri. È per questo che «La Punta», il
periodico clandestino della Democrazia Cristiana, riporterà poi nel
numero di febbraio 1945, una sua breve biografia, esaltandone l'opera
a favore dei patrioti unendola all'opera degli altri sacerdoti:
«L'olocausto di d. Marchioni si aggiunge ai troppi ormai offerti dai
sacerdoti delle nostre terre. È il tributo meraviglioso dei
sacerdoti italiani alla causa della carità e della libertà».
Ed ora il «gran partigiano» è in loro mano! È giunto il momento
della vendetta.
D. Ubaldo si fa avanti, sfidando il mitra
spianato e, rivolto al comandante spiega, supplica:
—
Non sono partigiani questi! Lo vedete! sono donne, bambini, gente che
abita sul posto da anni. Sono tutti innocenti! —
La
parola è convincente, riboccante di sincerità e di carità: è
parola di padre che trepida per la sorte dei figli.
Un
ordine suona: — Tutti fuori! —
Escono terrorizzati e
sono incolonnati, in numero di 84, verso il cimitero di Casaglia.
C'è in chiesa una povera donna, Nanni Vittoria, semi-paralizzata
alle gambe, che non può muoversi e che si aggrappa convulsa allo
schienale della sedia nel tentativo di ubbidire. I tedeschi le
impongono di lasciare l'appoggio e, visto che non le è possibile
reggersi da sola, la fucilano sul posto fra l'orrore dei fedeli che
stanno uscendo e che hanno il triste presagio della loro fine.
Mentre d. Ubaldo è piantonato all'altare, vengono frugati tutti i
locali adiacenti. Nel campanile sono trovati nascosti, in un ultimo
tentativo di sfuggire alle loro ricerche, una donna: Enrica Ansaloni,
cognata del defunto arciprete, e Giovanni Betti di Gardelletta. Una
scarica di mitraglia li abbatte sul posto.
Mentre la
colonna penante della porzione migliore del suo gregge ondeggia verso
il luogo del suo martirio, d. Ubaldo, rimasto solo nella chiesetta
fra quelle belve, privato anche della consolazione di assistere fino
all'ultimo i suoi fedeli in pericolo, china il capo alla volontà di
Dio e si prepara all'ultimo olocausto.
Non abbiamo
particolari sulla sua morte.
Un fucile gli è spianato
contro, e il degno sacerdote stramazza sulla predella dell'altare
maggiore sul quale, pochi istanti prima, si ergeva con la bianca
Ostia fra le mani quale intermediario fra Dio e l'umanità. Un'ora
dopo la chiesa è in preda alle fiamme.
Due giovani nel
pomeriggio dello stesso giorno entrano in chiesa, incuranti delle
fiamme che ancora si sprigionano attorno, e vedono il giovane
sacerdote disteso sulla predella dell'altare, mentre le fiamme lo
circondano, quasi timorose di lambire quel corpo che, come vittima
propiziatoria, giace immolata ai piedi dell'altare. Leggono accanto
un grande cartello: «Ribelli questa è la vostra sorte».
E forse fu sorte beata quella di d. Ubaldo che non vide lo strazio
del gregge, che non seppe le esosità usate verso la sua famiglia.
Non videro gli occhi suoi di buon pastore il cimitero, il luogo
consacrato al riposo dei giusti, imporporato dal sangue di tanti
innocenti, ben settanta fra donne e bambini! Non vide egli il muro di
cinta e la cappella mortuaria scrostati dalla falcidia dei colpi di
mitraglia di quei forsennati! Non vide cadere l'uno sull'altro madre
e figli! Non udì l'ultimo urlo saturo di terrore; non rabbrividì
allo scoppio di pianto sconsolato del piccolo Tonelli del «Posatore»,
rimasto illeso sui cadaveri della madre e di cinque fratelli: «Io
voglio morire con loro!»
Gli è risparmiato lo strazio
della mostruosa profanazione della chiesa di Cerpiano che, in quello
stesso giorno di S. Michele Arcangelo, si trasforma in un
raccapricciante carnaio dove 43 vittime innocenti sono squarciate e
dilaniate a colpi di bombe a mano! E non sente il cuore spezzarsi
alle parole della piccola Rossi Paola di sei anni che, rizzandosi
fortunosamente incolume, fra la strage dei suoi, singhiozza
guardandosi sgomenta intorno: «Tutti morti! la mia mamma! la mia
zia! la mia nonna Giovanna! il mio fratellino!... Tutti morti!»
Gli è risparmiata l'ansia angosciosa per la famiglia.
Difatti mentre il padre, la madre e una sorella di 14 anni stanno in
penosa apprensione, verso il mezzogiorno dello stesso 29 settembre,
giungono alla canonica di S. Martino quattro tedeschi che
perquisiscono la casa. Stanno per partire. Uno di loro tranquillizza
il padre:
— Qui nulla fare... Non avere trovato armi. —
E chiedono da bere.
Mentre viene loro offerto del vino,
un soldato nota sul caminetto della cucina un po’ di polvere nera,
residuo di sassi scalfiti e di legna spaccata.
— Questo
essere esplosivo! —
gridano i barbari, a caccia di un pretesto qualsiasi per abusare del
loro potere.
Il padre si affanna a spiegare, nel miglior
modo, che sono in errore, ma quelli non vogliono sentile ragioni.
— Bruciare!
bruciare! —
E partono infuriati appiccando il fuoco a due fienili adiacenti alla
chiesa.
Fu allora solo rimandata la strage della
famiglia.
Purtroppo più tardi anche la madre e la figlia
Maria troveranno la morte e il padre di d. Marchioni resterà solo,
peregrinante col cuore spaccato dal dolore.
Quando
ritornerà per rintracciare i suoi cari non potrà che dar sepoltura
a resti talmente carbonizzati e sì bestialmente sparsi, da riuscire
appena a identificarli.
Il primo ottobre infatti i
tedeschi avevano fatto uscire dalla chiesa di San Martino, ove
avevano trovato scampo, una quarantina di persone fra uomini donne e
bambini, «dando una fucilata a ciascun uscente». Di quei corpi
ancora agonizzanti ne avevano fatto un cumulo ed
aspersili di benzina, avevano appiccato loro il fuoco. Un falò
tragico si era alzato nella notte in uno spettacolo sinistro.
Chi ha seppellito, dopo alcuni giorni, il buon d. Ubaldo nella grande
fossa che accoglie le 84 vittime di Casaglia di Caprara, ha
assicurato di averlo trovato in chiesa tutto carbonizzato e senza un
piede.
Particolare curioso questo piede che non si è
potuto, ritrovare! Quel piede che tante miglia ha percorse, tanto
spesso ha pigiato sul, pedale, tante volte ha arrancato veloce sui
dirupi, per
i
sentieri boscosi, in perpetua ricerca delle sue pecorelle!
«O quam speciosi pedes evangelizantium pacem. evangelizantium bona»
torna spontaneo alle labbra.
Gli angeli forse l'hanno
riposto, come reliquia preziosa degna di somma venerazione, a simbolo
della gloria riservata alle fatiche e, ancor più, al sangue degli
apostoli di Cristo.
Così era immolata la prima vittima
sacerdotale nei massacri di Marzabotto.
Suscita
ancora nella tua Chiesa,
Padre onnipotente e santo,
sacerdoti
e generosi,
ardenti dell'amore per Cristo e per i
fratelli,
testimoni autentici e fedeli
dei misteri che
celebrano.
Tu hai dato a don Ubaldo Marchioni
la forza e la
grazia
di restare fedele al suo gregge
in mezzo al quale la
cieca violenza degli uomini
lo immolò ai piedi dell'altare
del
sacrificio dell'Agnello.
Dona a noi tutti sollecitudine
instancabile
nel cooperare secondo la nostra
vocazione
all'avvento del tuo Regno
d’amore e di
pace.
Per Cristo nostro Signore.
I sacerdoti di Monte Sole Bologna
I sacerdoti di Monte Sole Bologna
[…] Il primo a mettere piede quassù fu don Casagrande, il 5 agosto 1938. Con lui si apre il capitolo dei pastori martiri di Monte Sole. Meteore della carità. Il loro sangue era nel conto della prima Messa.
[…] Sono sacerdoti secolari ordinati, come si dice, titulo paupertatis seu servitío dioecesis: volgarmente il «diritto della sporta». Appena freschi del crisma, e quindi senza lo spessore di esperienza di cui potevano disporre i colleghi anziani maturati nel periodo antecedente la dittatura fascista, si trovarono in mezzo a tensioni oltre ogni limite di sopportabilità.
Erano andati sul campo di lavoro come bastoni della vecchiaia; ma ben presto, ancor prima del congedo dei vecchi parroci, diventarono loro i protagonisti.
[…] Don Ferdinando, don Giovanni e don Ubaldo, ultimo aggregato alla giovane schiera, seppero unire lo spirito di profezia a un'insolita concretezza. E fu il frutto della volontà e della grazia.
Fra tutte le aree di questa topografia dell'Ecclesia patiens, Monte Sole rappresenta il punto culminante; e i nostri tre giovani preti si comportano in modo esemplare, come teleguidati dallo Spirito; ciascuno con un segno specifico e una sua luce. Don Giovanni fu l'angelo nel senso biblico, pronto per ogni emergenza, sempre e dovunque; don Ubaldo la sentinella di Dio sulla cima del monte; don Ferdinando un amico e un fratello per tutti.
(Brano tratto da "Le querce di Monte Sole" di mons. Luciano Gherardi)
Il Servo di Dio don Ferdinando CASAGRANDE
Nato il 5 novembre 1914 a Castelfranco Emilia da Augusto e Ghermandi Anna, ordinato sacerdote nella chiesa di S. Martino di città il 16 luglio 1938 da S. Em.za il Cardinale Nasalli Rocca, cappellano a S. Martino di Caprara, poi parroco a Gugliara dal maggio 1944. Ucciso a S. Martino di Caprara il 9 ottobre 1944.
Il buon vecchio a stento riesce a frenare il tremito che dall'ottobre 1944 ha invaso le sue membra ed è andato aumentando con il crescere della sua ansia dolorosa. Ci guarda coi suoi occhi un po’ appannati, ma ancor vividi di luce intelligente. Una austerità misteriosa trapela dal suo volto scarnito.
— Volete che vi parli del mio don Ferdinando? — incomincia incerto. — Beh! vi dirò quel che so, e non potrà che fare un po’ di bene anche a me parlare di lui. Pensate! Ci è stato tolto a trentanni appena, da solo cinque mesi parroco a Gugliara. Eravamo tutti assieme lassù: mia moglie, i miei cinque figli! e son rimasto solo! Si vede che il Signore voleva così! — Sospira profondo, e ripiglia dopo una breve pausa in cui lo contempliamo in silenzio.
— Siamo al 22 settembre del '44. Di tanto in tanto si fa più aspra la lotta fra «quelli» nascosti nella montagna e le truppe tedesche. In una scaramuccia resta colpito mortalmente un soldato delle S.S.: ed ecco la rappresaglia. Tutte le case della borgata «la Quercia». ove è avvenuto lo scontro, sono interamente distrutte dal fuoco e s'inizia una caccia spietata alla gente del paese.
Il mio don Ferdinando, che si trovava proprio nel rifugio della galleria «La Quercia» fugge assieme alla sorella Gabriella, e viene a nascondersi nella casa «Calvane» ove eravamo già raccolti noi tutti. Laggiù alle «Quercie» dove era la nostra casa, non era più possibile la vita, e speravamo un po’ di pace lassù alle «Calvane» nella casa del nostro contadino.
Alle ore sei del 29 settembre siamo avvertiti da un contadino che ormai stanno per giungere i tedeschi. Dove fuggire? Ovunque c'era in agguato la morte: i tedeschi ci braccavano come selvaggina, gli alleati, ormai a pochi chilometri, ci tempestavano di proiettili.
Decidiamo di lasciare le donne, ed io, con don Ferdinando e l'altro figlio Giannino ci andiamo a nascondere in un piccolo rifugio dietro il cimitero di S. Martino di Caprara. Il rifugio ci parve sicuro: scavato nel tufo, su uno strapiombo con l'ingresso nascosto dal folto degli alberi, a cui si accedeva per un sentiero da capre, attraverso la roccia dello strapiombo. Nemmeno i tedeschi lo avrebbero saputo individuare.
Decidemmo di andar a prendere le nostre donne e così dal 1° ottobre ci ritrovammo ancora uniti e qui rimanemmo rintanati fino al nove ottobre.
Furono quelle, giornate di angoscia incredibile: sopra di noi stava in vedetta un soldato tedesco, e solo di notte, con mille precauzioni potevamo fare qualche sortita per cercare un po’ di alimenti. La sera dello stesso 1 ottobre, giunsero fino a noi gli spari dei tedeschi contro i disgraziati che si erano rifugiati nella chiesa di S. Martino, e anche l'acre odore nauseabondo dei loro cadaveri dati al fuoco.
Asseragliati come belve sentivamo, giorno e notte la terra sobbalzare sotto l'incessante martellamento dell'artiglieria alleata. Nessuno osava portarsi allo scoperto! si correva il rischio di lasciarci la pelle. Per tutti quei giorni, eterni e sfibranti, ci nutrimmo di castagne crude e di pere acerbe (bottino di una sortita notturna), una al mattino, una a mezzogiorno, una alla sera.
Vedevo i miei cari consumarsi a poco a poco, i volti sbiancati farsi più affilati, e anche il mio don Ferdinando, che era sempre stato magro, come vedete anche da quella fotografia (e ce l'addita appesa al muro), si era ridotto all'osso, i suoi occhi si erano affondati ancor più nell'orbita. Pure era sempre lui che ci teneva alta la fiamma della rassegnazione e della speranza, e fugava col suo esempio di fiducia in Dio la tristezza cupa che ci attanagliava di ora in ora sempre più.
Al nono giorno di tomba però don Ferdinando ha voluto salire al Comando tedesco, che aveva sede a S. Martino onde ottenere il permesso di uscire e di attraversare quelle zone proibite, perchè capiva che ormai non potevamo più resistere agli stimoli della fame. Sua sorella, la Giulia, che era maestra all'asilo della «Gardelletta», ha voluto accompagnarlo in quella missione e dividerne i pericoli. Li accompagnammo fino all'ingresso del rifugio, li abbracciammo, invocando l'aiuto di Dio per loro, li osservammo buttarsi fuori veloci e scomparire. Un cupo presagio ci rimase nel cuore, mentre, seduti in silenzio, ascoltavamo il fischio dei proiettili. Non li abbiamo più visti!... —
Il vecchio china il capo e tace a lungo per ricomporre la sua voce rotta da un singhiozzo. Attendiamo in religioso silenzio.
— Solo passati parecchi giorni ho potuto sapere la loro triste fine; e i particolari ci saranno forse per sempre sconosciuti.
Pare che don Ferdinando riuscisse a raggiungere il Comando tedesco e farsi rilasciale il permesso di transito. Ma lui e la Giulia avevano appena voltato le spalle per ritornare che quelle belve li colpirono a tradimento con scariche di mitraglia. Il mio don Fernando cadde sul sentiero con un proiettile nella nuca; la buona Giulia con cinque pallottole di mitraglia al petto. Sono morti abbracciati stretti, e dai tedeschi buttati così nel precipizio che fiancheggia il sentiero.
Col lento passare dei giorni compresi che ormai era vana la tormentosa attesa dei miei cari.
Ma non era finita l'ascesa al mio doloroso calvario!
L'11 ottobre, giornata piovosa, alle 11,30 precise, un proiettile che scoppia nei pressi del rifugio colpisce con una scheggia l'altra mia figlia, la Gabriella, uscita per un istante, e la butta a terra immersa nel suo sangue. Ne copriamo il cadavere con un panno e ci buttiamo giù verso il Setta in cerca di un luogo più sicuro.
Giunti al fondo de «La Conca» ci fermiamo nascosti nel folto del bosco, in attesa dell'ombra della notte per passare il fronte di guerra; ma appena calate le tenebre, poco dopo le 18, mentre stiamo rannicchiati sotto i bagliori degli scoppi che illuminano i tronchi degli alberi, una cannonata ci colpisce in pieno: mia moglie e gli altri due figli, Lina e Giannino, sono colpiti in pieno. Io ho il piede destro ferito e rimango solo vivo, tra il tormento della mia carne offesa, tra il sangue della moglie e di Giannino che più non possono rispondere alle mie invocazioni, tra gli urli strazianti della Lina che ha le gambe stroncate e chiede disperatamente aiuto... e davvero non so come il cuore non mi sia scoppiato in tanto strazio! —
Due lacrime rigano il suo volto patito e si perdono fra le rughe. Un singulto gli stronca ancora la parola. Pure si fa coraggio e prosegue la sua incredibile avventura.
— Ormai mi sentivo solo al mondo. Eppure quanto è grande nell'uomo l'attaccamento alla vita! Non volevo morire e speravo pazzamente che qualcuno dei miei si potesse ancora salvare: almeno la mia Lina!
Mi alzo per andare in cerca di soccorso. Barcollo, ogni passo è uno strazio: pure resisto, stringendo i denti e appoggiandomi al bastone, e vado solo solo!... vado cercando, invocando ad ogni passo i miei sei cari, disperatamente certo ormai del loro tragico destino!... vado, arrancando, verso posizioni ove speravo trovare aiuto!
A Rivabella c'erano dei civili, lo sapevo, e volevo giungere fin là. Invece, prima del «Beccadello» mi imbatto in una pattuglia di tedeschi che mi fanno prigioniero. Perquisito, derubato di tutto, perfino di una boccetta di aceto che mi serviva per medicare le ferite, mi trattengono con loro. Oh, la notte passata con essi, con la gamba ferita stesa su di una sedia, fra gli spasimi della carne e il martellamento dei ricordi che mi torturavano il cervello!
Al mattino del 12 ottobre, aiutato da una ragazza che era a servizio dai tedeschi, riesco a portarmi fino ad una stalla abbandonata ove buoni amici, che a stento mi riconoscono (ero calato venti chili!) mi hanno assistito e curato; ma non ci fu possibile portare aiuto alla mia cara Lina, e sempre io avevo davanti agli occhi la mia piccola, che illanguidiva a poco a poco, nella perdita del sangue.
Finalmente il 25 ottobre i tedeschi se ne andarono sconfitti e il 27 arrivarono gli alleati.
Io già mi sentivo in forze, la ferita era rimarginata bene ed avevo in cuore una smania che non mi dava riposo: «Bisogna che io vada, mi dicevo, che corra a seppellire la mia famiglia!».
Da Rivabella guardavo giù nella vallata, ma non riuscivo più a vedere nulla che mi orizzontasse: tutte le cose erano ridotte un cumulo di macerie; anche la Chiesa e il campanile di S. Martino di Caprara non apparivano più nel fondo della vallata: tutto il paese era raso al suolo.
Tuttavia sempre lo stesso pungolo mi tormentava il cuore e non mi dava pace: «Voglio vedere i miei cari. Bisogna che vada!».
E un giorno sono andato, appoggiato al mio bastone, con passo sempre più affrettato.
Chiedo, supplico informazioni agli abitanti del luogo. Tre miei amici mi aiutano e riusciamo a rintracciare le salme benedette. Le componiamo sotto la terra ancora sconvolta, con mani tremanti, bagnate di lacrime e di sangue.
Gli Americani poi ci hanno mandato tutti noi che eravamo a Rivabella senza casa, prima a Firenze, poi, in diverse tappe, fino a Roma, a «Cinecittà», ove anch'io sono stato alloggiato per sei mesi. —
Il buon vecchio tace ancora. Nel suo volto non c'è più l'abbattimento che vi aveva prodotto l'emozione del racconto: ora è sereno della serenità che bacia la fronte dei giusti, anche di quelli che sono stati sottoposti alle prove più dure. Con commozione gli stringiamo la mano.
Padre misericordioso, consolazione e ricompensa di chi confida in te, tu ami rivelare la tua grandezza negli umili, la tua potenza nei deboli, e nel mistero adorabile della tua provvidenza hai sostenuto don Ferdinando Casagrande nei giorni più oscuri del suo mistero sacerdotale fino all'olocausto della sua vita. Donaci di essere sempre operatori di pace e di giustizia, animati dalla fede viva che affronta e supera il dolore e le difficoltà nell'unione feconda con la passione gloriosa del Cristo Signore. Egli vive e regna nei secoli dei secoli. |
Dopo essere stato di aiuto al parroco don Goffredo Minelli, decise di farsi prete. Entrò nel seminario di Borgo Capanne nell'ottobre 1931. Seguì poi il corso degli studi a Bologna nel seminario arcivescovile di Villa Revedin e nel seminario regionale, partecipando con intensità all'esperienza formativa offertagli. Subito dopo l'ordinazione a diacono, nel 1941, venne inviato a Sperticano di Marzabotto in aiuto dell'anziano parroco don Giovanni Roda. Per un anno, sino all'ordinazione sacerdotale, fece la spola, in quegli anni inconsueta, tra il seminario e la parrocchia. Ordinato sacerdote il 28 giugno 1942, venne immediatamente nominato vicario coaudiatore a Sperticano.
Morto don Roda, il 20 luglio 1942 venne nominato economo spirituale, e il 21 agosto parroco di Sperticano. Numerose testimonianze concordano nel sottolineare che il giovane parroco trasformò la canonica in un «cantiere della carità», caratterizzato dalle più diverse iniziative pastorali e sociali, ma soprattutto dalla costante attenzione del sacerdote per i suoi parrocchiani, tutti.
Affrontò il periodo dell'occupazione tedesca e del trasferimento del conflitto sul suolo italiano, cogliendo con immediata consapevolezza la funzione che avrebbe dovuto svolgere come sacerdote cattolico.
Grazie ad una «resistenza incredibile», «correva dappertutto», «per cercare di liberare la gente dalle difficoltà, di risolvere i loro problemi. Non aveva paura. Era un uomo di gran fede e sempre coerente». Nei giorni dell'eccidio di Monte Sole, nei quali si perse il significato della vita e della morte, la testimonianza di amore di don Fornasini non ebbe sosta.
La sua morte è «ancora immersa nel mistero»: non se ne conosce la ragione specifica, l'autore, la modalità. In quei giorni, subito dopo, poi sempre, sino ad oggi, don Fornasini è considerato l'angelo di Marzabotto. «Prima della sua eroica morte avvenuta per un motivo direi soprannaturale, aveva già un corredo di virtù, di opere sante, di azioni generose che possono testimoniare della sua santità. Altri sono stati in qualche modo coinvolti dalle circostanze. Lui, no... Io sapevo quello che la gente diceva di lui; e posso dire che è la figura più bella, più caratteristica: quell'uomo merita la canonizzazione» (padre Lino Cattoi). Ritenuto «commovente esempio di carità e di fortezza eroiche» (mons. Danio Bolognini, 1946), alla sua memoria venne decretata nel 1950 la Medaglia d'oro al Valor Militare alla memoria, decreto Presidente della Repubblica del 19.05.1950, consegnata alla madre in data 2.06.1951 a Bologna, con la seguente motivazione:
"Nella sua parrocchia di Sperticano, dove gli uomini validi tutti combattevano sui monti per la libertà della Patria, fu luminoso esempio di cristiana carità. Pastore di vecchi, di madri, di spose, di bambini innocenti, più volte fece loro scudo della propria persona contro efferati massacri condotti dalle S.S. Germaniche, molte vite sottraendo all'eccidio e tutti incoraggiando, combattenti e famiglie, ad eroica resistenza. Arrestato e miracolosamente sfuggito a morte, subito riprese arditamente il suo posto di pastore e di soldato, prima tra le rovine e le stragi della sua Sperticano distrutta, poi a S. Martino di Caprara dove, pure, si era abbattuta la furia del nemico. Voce della Fede e della Patria, osava rinfacciare fieramente al tedesco l'inumana strage di tanti deboli ed innocenti richiamando anche su di se la barbarie dell'invasore e venendo a sua volta abbattuto, lui Pastore, sopra il gregge che, con estremo coraggio, sempre aveva protetto e guidato con la pietà e con l' esempio".
S. Martino di Caprara, 13 ottobre 1944)
La parrocchia di Sperticano venne elevata ad arcipretale in seguito all'olocausto di don Fornasini, come testimonia una lapide all'interno della chiesa.
Il 19 agosto 1998 la Congregazione delle Cause dei Santi ha dato il nulla osta per l'inchiesta diocesana sulla vita e le virtù del servo di Dio, iniziata poi il 18 ottobre dello stesso anno.
(Alessandro Albertazzi)
Ti ringraziamo, Padre onnipotente, Dio fedele: nella vita e nella morte del sacerdote Giovanni Fornasini hai donato alla Chiesa di Bologna un segno ammirevole della presenza amorosa e indefettibile del Buon Pastore. Fà che anche oggi i giovani sappiano gustare profondamente il fascino sublime del Signore Gesù per corrispondere con entusiasmo al tuo disegno di salvezza. Il tuo Spirito di fortezza e di sapienza riaccenda in noi la passione per la verità e ci sostenga nella via della carità, per il vero bene di ogni fratello. Per Cristo nostro Signore. |
26 settembre, 2020
Camisasca ai nuovi sacerdoti
Nella prima puntata della nuova stagione di "Vangelo e vita", proponiamo le parole che il vescovo Camisasca ha rivolto ai novelli sacerdoti lo scorso 26 settembre in Cattedrale a Reggio Emilia.
06 settembre, 2020
Joseph Brilleslijper e Fijtje Gerritse
05 settembre, 2020
1944: 05 settembre come oggi l'arrivo ad Auschwitz dal campo di Westerbork il treno dei Paesi Bassi
"......e poi improvvisamente arrivò un messaggio sorprendente che c'erano ancora dei trasporti, quindi siamo tutti scocciati e tutti hanno cercato di uscire dal bagagliaio nel momento in cui siamo stati chiamati prima del trasporto c'era una specie di panico perché tutti hanno cercato di nascondersi a qualcun altro e hanno cercato di voltarsi esenzione passante o in qualsiasi caso da respingere ogni che potresti salvare, lo faresti forse proteggerti o lasciarti nei Paesi Bassi in modo d'avere ancora la liberazione potrebbe provare ma in quel momento tutti hanno iniziato a correre ne abbiamo provato uno a tenere al momento sapevamo se si mantengono conoscenti che vincono con le griglie potrebbe saltare fuori da lì, abbiamo provato a salire sul quel treno per discutere dell'opportunità prova a chiamare i nomi che si è imbattuto nel posto in cui avevamo i nostri genitori in quel momento... ultimo abbraccio."
1938: Primo Decreto sulle leggi raziali - Il Messaggero-
1938: Primo Decreto sulle leggi raziali - Il Messaggero-
“Alle scuole di qualsiasi ordine e grado non potranno essere iscritti alunni di razza ebraica”
03 settembre, 2020
❤Janny Brandes-Brilleslijper❤ 03 settembre 1944 03 settembre 2020
''In una mattina d'estate, molto tranquilla molto bello, bel tempo il sole spendente, la luce era ancora sopra cresta della notte; è ancora nella città che noi, sono passata da ad Amstelveenseweg, il tram alla stazione centrale, qui siamo sul lato della stazione centrale, entrammo nella stazione, oltre i sassolini per capire perché allo stesso tempo arrivò un gruppo d'altre persone e c'era la famiglia Frank, allora non ci siamo parlati......ci mettevano l'uno l'altro sulla piattaforma, tutti abbiamo le cure ovviamente ho trovato mia sorella troppo tardi, i miei genitori, mio fratello e lei la natura offre sufficiente attenzione intorno a noi........guardare sì una tale famiglia con due figli che giorno siamo tutti classificati nella "S" (Strafbarak) anche la famiglia Frank .........a Westerbork non è stata la prima famiglia''.
01 settembre, 2020
MiL - Messainlatino.it: A Bergamo il novello prete si fa fotografare in ta...
22 agosto, 2020
Beata Maria Regina 22 agosto
Beata Maria Regina 22 agosto
Beata Vergine Maria, Regina dell'universo, conduci tutti noi con Te alle gioie del cielo.
14 agosto, 2020
SI OFFRÌ DI MORIRE AL POSTO DI UN PADRE DI FAMIGLIA
SI OFFRÌ DI MORIRE AL POSTO DI UN PADRE DI FAMIGLIA
La sua dignità di sacerdote e uomo retto primeggiava fra i prigionieri, un testimone disse: “Kolbe era un principe in mezzo a noi”. Alla fine di luglio fu trasferito al Blocco 14, dove i prigionieri erano addetti alla mietitura nei campi; uno di loro riuscì a fuggire e secondo l’inesorabile legge del campo, dieci prigionieri vennero destinati al bunker della morte. Padre Kolbe si offrì in cambio di uno dei prescelti, un padre di famiglia, suo compagno di prigionia. La disperazione che s’impadronì di quei poveri disgraziati, venne attenuata e trasformata in preghiera comune, guidata da padre Kolbe e un po’ alla volta essi si rassegnarono alla loro sorte; morirono man mano e le loro voci oranti si ridussero ad un sussurro; dopo 14 giorni non tutti erano morti, rimanevano solo quattro ancora in vita, fra cui padre Massimiliano, allora le SS decisero, che giacché la cosa andava troppo per le lunghe, di abbreviare la loro fine con una iniezione di acido fenico; il francescano martire volontario, tese il braccio dicendo “Ave Maria”, furono le sue ultime parole, era il 14 agosto 1941. Le sue ceneri si mescolarono insieme a quelle di tanti altri condannati, nel forno crematorio; così finiva la vita terrena di una delle più belle figure del francescanesimo della Chiesa polacca. Il suo fulgido martirio gli ha aperto la strada della beatificazione, avvenuta il 17 ottobre 1971 con papa Paolo VI. Il 10 ottobre 1982 è stato canonizzato da papa Giovanni Paolo II, suo concittadino.
06 agosto, 2020
Janusz Korczack dal Diario del Ghetto 6 agosto 1942
04 agosto, 2020
Santo Curato d'Ars
Un sacerdote, bersaglio di calunnie e persecuzioni, chiese consiglio al Santo Curato d'Ars. «Amico mio – egli rispose – fate come faccio io: lasciate dire. Quando si sarà detto tutto, non vi sarà più niente da dire, e si tacerà».