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10 ottobre, 1982

CANONIZZAZIONE DI MASSIMILIANO MARIA KOLBE

CANONIZZAZIONE DI MASSIMILIANO MARIA KOLBE

OMELIA DI GIOVANNI PAOLO II

Piazza San Pietro, 10 ottobre 1982

 

1. “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici” (Gv 15,13).

Da oggi la Chiesa desidera chiamare “santo” un uomo al quale è stato concesso di adempiere in maniera assolutamente letterale le suddette parole del Redentore.

Ecco infatti, verso la fine di luglio del 1941, quando per ordine del capo del campo si fecero mettere in fila i prigionieri destinati a morire di fame, quest’uomo, Massimiliano Maria Kolbe, si presentò spontaneamente, dichiarandosi pronto ad andare alla morte in sostituzione di uno di loro.

Questa disponibilità fu accolta, e al padre Massimiliano, dopo oltre due settimane di tormenti a causa della fame, fu infine tolta la vita con un’iniezione mortale, il 14 agosto 1941.

Tutto questo successe nel campo di concentramento di Auschwitz, dove furono messi a morte durante l’ultima guerra circa 4.000.000 di persone, tra cui anche la Serva di Dio Edith Stein (la carmelitana suor Teresa Benedetta della Croce), la cui causa di Beatificazione è in corso presso la competente Congregazione. La disobbedienza contro Dio, Creatore della vita, il quale ha detto “non uccidere”, ha causato in questo luogo l’immensa ecatombe di tanti innocenti.

Contemporaneamente dunque, la nostra epoca è rimasta così orribilmente contrassegnata dallo sterminio dell’uomo innocente.

2. Padre Massimiliamo Kolbe, essendo lui stesso un prigioniero del campo di concentramento, ha rivendicato, nel luogo della morte, il diritto alla vita di un uomo innocente, uno dei 4.000.000.

Quest’uomo (Franciszek Gajowniczek) vive ancora ed è presente tra noi. Padre Kolbe ne ha rivendicato il diritto alla vita, dichiarando la disponibilità di andare alla morte al suo posto, perché era un padre di famiglia e la sua vita era necessaria ai suoi cari. Padre Massimiliano Maria Kolbe ha riaffermato così il diritto esclusivo del Creatore alla vita dell’uomo innocente e ha reso testimonianza a Cristo e all’amore. Scrive infatti l’apostolo Giovanni: “Da questo abbiamo conosciuto l’amore: egli ha dato la sua vita per noi; quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli” (1Gv 3,16).

Dando la sua vita per un fratello, padre Massimiliano, che la Chiesa già sin dal 1971 venera come “beato”, in modo particolare si è reso simile a Cristo.

3. Noi, dunque, che oggi, domenica 10 ottobre, siamo riuniti davanti alla Basilica di san Pietro in Roma, desideriamo esprimere il valore speciale che ha agli occhi di Dio la morte per martirio del padre Massimiliano Kolbe:
“Preziosa agli occhi del Signore / è la morte dei suoi fedeli” (Sal 115 [116],15), così abbiamo ripetuto nel Salmo responsoriale. Veramente è preziosa ed inestimabile! Mediante la morte, che Cristo ha subìto sulla Croce, si è compiuta la redenzione del mondo, poiché questa morte ha il valore dell’amore supremo. Mediante la morte, subìta dal padre Massimiliano Kolbe, un limpido segno di tale amore si è rinnovato nel nostro secolo, che in grado tanto alto e in molteplici modi è minacciato dal peccato e dalla morte.

Ecco che, in questa solenne liturgia della canonizzazione, sembra presentarsi tra noi quel “martire dell’amore” di Oswiecim (come lo chiamò Paolo VI) e dire:
“Io sono il tuo servo, Signore, / io sono tuo servo, figlio della tua ancella; / hai spezzato le mie catene” (Sal 115 [116],16).

E, quasi raccogliendo in uno il sacrificio di tutta la sua vita, lui, sacerdote e figlio spirituale di san Francesco, sembra dire:
“Che cosa renderò al Signore / per quanto mi ha dato? / Alzerò il calice della salvezza / e invocherò il nome del Signore” (Sal 115 [116],12s).

Sono, queste, parole di gratitudine. La morte subìta per amore, al posto del fratello, è un atto eroico dell’uomo, mediante il quale, insieme al nuovo Santo, glorifichiamo Dio. Da lui infatti proviene la Grazia di tale eroismo, di questo martirio.

4. Glorifichiamo dunque oggi la grande opera di Dio nell’uomo. Di fronte a tutti noi, qui riuniti, padre Massimiliano Kolbe alza il suo “calice della salvezza”, nel quale è racchiuso il sacrificio di tutta la sua vita, sigillata con la morte di martire “per un fratello”.

A questo definitivo sacrificio Massimiliano si preparò seguendo Cristo sin dai primi anni della sua vita in Polonia. Da quegli anni proviene l’arcano sogno di due corone: una bianca e una rossa, fra le quali il nostro santo non sceglie, ma le accetta entrambe. Sin dagli anni della giovinezza, infatti, lo permeava un grande amore verso Cristo e il desiderio del martirio.

Quest’amore e questo desiderio l’accompagnarono sulla via della vocazione francescana e sacerdotale, alla quale si preparava sia in Polonia che a Roma. Quest’amore e questo desiderio lo seguirono attraverso tutti i luoghi del servizio sacerdotale e francescano in Polonia, ed anche del servizio missionario nel Giappone.

5. L’ispirazione di tutta la sua vita fu l’Immacolata, alla quale affidava il suo amore per Cristo e il suo desiderio di martirio. Nel mistero dell’Immacolata Concezione si svelava davanti agli occhi della sua anima quel mondo meraviglioso e soprannaturale della Grazia di Dio offerta all’uomo. La fede e le opere di tutta la vita di padre Massimiliano indicano che egli concepiva la sua collaborazione con la Grazia divina come una milizia sotto il segno dell’Immacolata Concezione. La caratteristica mariana è particolarmente espressiva nella vita e nella santità di padre Kolbe. Con questo contrassegno è stato marcato anche tutto il suo apostolato, sia nella patria come nelle missioni. Sia in Polonia come nel Giappone furono centro di quest’apostolato le speciali città dell’Immacolata (“Niepokalanow” polacco, “Mugenzai no Sono” giapponese).

6. Che cosa è successo nel Bunker della fame nel campo di concentramento ad Oswiecim (Auschwitz), il 14 agosto del 1941?

A questo risponde l’odierna liturgia: ecco “Dio ha provato” Massimiliano Maria “e lo ha trovato degno di sé” (cf. Sap 3,5). L’ha provato “come oro nel crogiuolo / e l’ha gradito come un olocausto” (cf. Sap 3,6).

Anche se “agli occhi degli uomini subì castighi”, tuttavia “la sua speranza è piena di immortalità” poiché “le anime dei giusti sono nelle mani di Dio, / nessun tormento le toccherà”. E quando, umanamente parlando, li raggiungono il tormento e la morte, quando “agli occhi degli uomini parve che morissero...”, quando “la loro dipartita da noi fu ritenuta una sciagura...”, “essi sono nella pace”: essi provano la vita e la gloria “nelle mani di Dio” (cf. Sap 3,1-4).

Tale vita è frutto della morte a somiglianza della morte di Cristo. La gloria è la partecipazione alla sua risurrezione.

Che cosa dunque successe nel Bunker della fame, il giorno 14 agosto 1941?

Si compirono le parole rivolte da Cristo agli Apostoli, perché “andassero e portassero frutto e il loro frutto rimanesse” (cf. Gv 15,16).

In modo mirabile perdura nella Chiesa e nel mondo il frutto della morte eroica di Massimiliano Kolbe!

7. A quanto successe nel campo di “Auschwitz” guardavano gli uomini. E anche se ai loro occhi doveva sembrare che “morisse” un compagno del loro tormento, anche se umanamente potevano considerare “la sua dipartita” come “una rovina”, tuttavia nella loro coscienza questa non era solamente “la morte”.

Massimiliano non morì, ma “diede la vita... per il fratello”.

V’era in questa morte, terribile dal punto di vista umano, tutta la definitiva grandezza dell’atto umano e della scelta umana: egli da sé si offrì alla morte per amore.

E in questa sua morte umana c’era la trasparente testimonianza data a Cristo:
la testimonianza data in Cristo alla dignità dell’uomo, alla santità della sua vita e alla forza salvifica della morte, nella quale si manifesta la potenza dell’amore.

Proprio per questo la morte di Massimiliano Kolbe divenne un segno di vittoria. È stata questa la vittoria riportata su tutto il sistema del disprezzo e dell’odio verso l’uomo e verso ciò che è divino nell’uomo, vittoria simile a quella che ha riportato il nostro Signore Gesù Cristo sul Calvario.

“Voi siete miei amici, se farete ciò che vi comando” (Gv 15,14)

8. La Chiesa accetta questo segno di vittoria, riportata mediante la forza della Redenzione di Cristo, con venerazione e con gratitudine. Cerca di leggerne l’eloquenza con tutta umiltà ed amore.

Come sempre, quando proclama la santità dei suoi figli e delle sue figlie, così anche in questo caso, essa cerca di agire con tutta la precisione e la responsabilità dovute, penetrando in tutti gli aspetti della vita e della morte del Servo di Dio.

Tuttavia la Chiesa deve, al tempo stesso, stare attenta, leggendo il segno della santità dato da Dio nel suo Servo terreno, di non lasciar sfuggire la sua piena eloquenza e il suo significato definitivo.

E perciò, nel giudicare la causa del beato Massimiliano Kolbe si dovettero – già dopo la beatificazione – prendere in considerazione molteplici voci del Popolo di Dio, e soprattutto dei nostri fratelli nell’Episcopato, sia della Polonia come pure della Germania, che chiedevano di proclamare Massimiliano Kolbe santo “come martire”.

Di fronte all’eloquenza della vita e della morte del beato Massimiliano, non si può non riconoscere ciò che pare costituisca il principale ed essenziale contenuto del segno dato da Dio alla Chiesa e al mondo nella sua morte.

Non costituisce questa morte affrontata spontaneamente, per amore all’uomo, un particolare compimento delle parole di Cristo?

Non rende essa Massimiliano particolarmente simile a Cristo, Modello di tutti i Martiri, che dà la propria vita sulla Croce per i fratelli?

Non possiede proprio una tale morte una particolare, penetrante eloquenza per la nostra epoca?

Non costituisce essa una testimonianza particolarmente autentica della Chiesa nel mondo contemporaneo?

9. E perciò, in virtù della mia apostolica autorità ho decretato che Massimiliano Maria Kolbe, il quale, in seguito alla Beatificazione, era venerato come Confessore, venga d’ora in poi venerato “anche come Martire”!

“Preziosa agli occhi del Signore / è la morte dei suoi fedeli”!

Amen.

 

17 luglio, 1981

Il funerale di Alfredino Rampi

 I funerali si svolsero venerdì 17 luglio 1981 nella Basilica di San Lorenzo fuori le mura; la salma venne trasportata da quegli stessi volontari che tentarono di salvarlo, fra cui Angelo Licheri e Donato Caruso. 




Immagini del funerale di Alfredino Rampi

Immagini


funerale di Alfredino Rampi


si celebrava il funerale del piccolo Alfredino Rampi, caduto in un pozzo artesiano in una piccola frazione di campagna vicino a Frascati. Dopo quasi tre giorni di inutili tentativi di salvataggio, il bambino morì dentro il pozzo a una profondità di circa 60 metri. La salma venne trasportata da quegli stessi volontari che tentarono, invano, di salvarlo.
La mancanza di organizzazione e coordinamento dei soccorsi, ai limiti dell'improvvisazione, fecero capire l'esigenza di una nuova struttura organizzativa per poter gestire le situazioni di emergenza. Negli anni successivi, questa necessità portò alla nascita della Protezione Civile.

Nella Chiesa, Fuori le Mura in Roma

11 luglio, 1981

Il RECUPERO DEL CORPICINO DI ALFREDINO RAMPI

 Il RECUPERO DEL CORPICINO DI ALFREDINO RAMPI


Alle 15 dell’11 luglio il recupero. Sarà Spartaco Stacchini, 37 anni all’epoca, a separare il corpo di Alfredino dalla terra indurita dall’azoto liquido. «Quando arrivò in superficie - sottolineò Stacchini nelle cronache dell’epoca - era ridotto a un blocco di ghiaccio, fu un momento molto emozionante».

13 giugno, 1981

La tragedia di Affredino Rampi

 Nel mese di giugno 1981 la famiglia Rampi — il padre Ferdinando, la madre Francesca Bizzarri, la nonna paterna Veja e i figli Alfredo e Riccardo, rispettivamente di 6 e 2 anni — stava trascorrendo un periodo di vacanza nella loro seconda casa, in via di Vermicino, zona Selvotta, Frascati (Roma).


La sera di mercoledì 10 giugno, Ferdinando Rampi, due suoi amici e il figlio Alfredino erano a passeggio nella campagna circostante. Venuta l'ora di tornare indietro, alle ore 19:20, Alfredino chiese al padre di poter continuare il cammino verso casa da solo, attraverso i prati; Ferdinando acconsentì, ma quando giunse a casa, verso le ore 20:00, scoprì che il bambino non era arrivato. Dopo circa mezz'ora, i genitori cominciarono a cercarlo nei dintorni e, non trovandolo, alle 21:30 circa allertarono le forze dell'ordine.[5] Nel giro di 10 minuti giunsero sul posto Polizia, Vigili urbani e Vigili del fuoco, oltre ad alcuni abitanti del posto, attratti dal viavai. Tutti insieme si unirono ai genitori nelle ricerche, che vennero portate avanti anche con l'ausilio di unità cinofile. La nonna ipotizzò per prima che Alfredino fosse caduto in un pozzo recentemente scavato in un terreno adiacente, dove si stava edificando una nuova abitazione; tale pozzo venne tuttavia trovato coperto da una lamiera tenuta ferma da sassi.


Un agente di polizia, il brigadiere Giorgio Serranti, allorché venne a conoscenza dell'esistenza del suddetto pozzo, sebbene gli fosse stato detto che esso era coperto, pretese di ispezionarlo ugualmente e, fatta rimuovere la lamiera, infilò la sua testa nell'imboccatura, riuscendo così a udire i flebili lamenti di Alfredino. Si scoprì poi che il proprietario del terreno sovrastante aveva messo la lamiera sulla fessura intorno alle ore 21:00, senza minimamente immaginare che all'interno ci fosse intrappolato un bambino[5] e dopo che erano già iniziate le ricerche. Il proprietario del terreno, Amedeo Pisegna, abruzzese di Tagliacozzo, 44 anni, insegnante di applicazioni tecniche a Frascati, verrà in seguito arrestato con l’accusa di omicidio colposo e con l’aggravante della violazione delle norme di prevenzione degli infortuni.


I soccorsi

I soccorritori quindi si radunarono all'imboccatura del pozzo e vi calarono una lampada, tentando invano di localizzare il bambino. La prima stima rilevò che il bambino era bloccato a 36 metri di profondità e la sua caduta era stata arrestata da una curva o da una rientranza del cunicolo.


Le operazioni di soccorso si rivelarono subito estremamente difficili, in quanto la voragine presentava un'imboccatura larga 28 cm, una profondità complessiva di 80 metri e pareti irregolari e frastagliate, piene di sporgenze e rientranze. Giudicando impossibile calarvi dentro una persona, il primo tentativo di salvataggio consistette nel calare nell'imboccatura una tavoletta legata a corde, allo scopo di consentire al bimbo di aggrapparvisi per sollevarlo; tale scelta si rivelò un grave errore, in quanto la tavoletta si incastrò nel pozzo a 24 metri, ben al di sopra del bambino e non fu più possibile rimuoverla, poiché la corda che teneva la tavoletta si spezzò e di conseguenza il condotto ne risultò quasi completamente ostruito.[5] Attorno all'una di notte alcuni tecnici della Rai, allertati allo scopo, calarono nel budello roccioso un'elettrosonda a filo, per consentire ai soccorritori in superficie di comunicare col bambino il quale, almeno per il momento, rispondeva lucidamente.


Si pensò quindi di scavare un tunnel parallelo al pozzo, da cui aprire un cunicolo orizzontale lungo 2 metri, che consentisse di penetrare nella cavità poco sotto il punto in cui si supponeva si trovasse il bambino. Per far ciò occorreva una sonda di perforazione, che fu reperita alle ore 6:00 grazie alla disponibilità della ditta Tecnopali di Roma.


Alle ore 4:00 dell'11 giugno giunse sul posto un gruppo di giovani speleologi del Soccorso alpino, che si offrirono come volontari per calarsi nel sottosuolo. Il caposquadra, il ventiduenne Tullio Bernabei,[6] di corporatura sufficientemente magra, fu il primo a scendere nel pozzo e, calato a testa in giù, tentò di rimuovere la tavoletta che era rimasta incastrata. Tuttavia i restringimenti del pozzo gli consentirono di arrivare solo a un paio di metri da questa. Dopo di lui si calò un secondo speleologo, Maurizio Monteleone, ma anch'egli arrivò a pochissima distanza dalla tavoletta, non riuscendo a prenderla. Nel frattempo i Vigili del fuoco avevano incominciato a pompare ossigeno nel pozzo, allo scopo di evitare l'asfissia del bambino.


Il comandante dei Vigili del fuoco di Roma, Elveno Pastorelli, giunto nel frattempo sul posto, ordinò allora di sospendere i tentativi degli speleologi e concentrare gli sforzi nella perforazione del "pozzo parallelo". Una geologa lì presente, Laura Bortolani, ipotizzando i substrati di terreno molto duri che si sarebbero incontrati in profondità, fece notare a Pastorelli che sarebbe occorso un lungo tempo per la perforazione, e pertanto propose di proseguire anche con gli altri tentativi. Secondo Tullio Bernabei tale suggerimento sarebbe stato respinto da Pastorelli, il quale avrebbe ribadito il divieto di ulteriori discese, ordinando pertanto agli speleologi di sgomberare.


Alle ore 8:30 la sonda cominciò a scavare e il terreno si rivelò friabile riuscendo a scavare 2 metri in due ore; verso le 10:30 tuttavia, come previsto dalla Bortolani, venne intercettato uno strato di roccia granitica difficile da scalfire. Nel frattempo il bambino si lamentava per il forte rumore e alternava momenti di veglia a colpi di sonno e chiedeva da bere. Per spiegargli gli altissimi rumori e le forti scosse dei colpi che sentiva, e allo stesso tempo per rincuorarlo e confortarlo, gli venne comunicato che stava arrivando a salvarlo addirittura Jeeg Robot d'Acciaio.


Alle 10:30, per non interferire con le comunicazioni via etere dei soccorritori, la Rai e le stazioni radiofoniche laziali disattivarono i loro ponti radio in onde medie.


Verso le 13:00, su specifica richiesta dei soccorritori, arrivò sul posto un'altra perforatrice, più grande e potente della prima. All'incirca alla stessa ora andavano in onda le edizioni di mezza giornata del TG1 e del TG2: fu a questo punto che la Rai incominciò a occuparsi con vivo interesse del fatto (già affrontato con alcuni servizi trasmessi nei notiziari della notte precedente). Tra i primi a giungere sul posto vi fu l'inviato del TG2 Pierluigi Pini, il quale aveva visto per caso un appello su un'emittente televisiva privata laziale per il reperimento urgente di mezzi d'escavazione, decidendo pertanto di recarsi a Vermicino con una troupe.


Il giornalista Piero Badaloni affermò che il comandante Pastorelli aveva diramato la previsione che nel giro di poche ore la perforazione si sarebbe conclusa e l'operazione di salvataggio sarebbe andata a buon fine; per questa ragione il TG1 decise a sua volta di collegarsi con la troupe del TG2, auspicando di ricevere la ripresa del salvataggio in tempo reale.[5][8] Poco dopo anche il TG3 decise di unirsi alla cronaca diretta dei fatti, che di fatto proseguì "a reti unificate" appoggiandosi alla ridotta strumentazione del notiziario della seconda rete.


Il "tam-tam" mediatico alimentò la curiosità del pubblico: attorno al pozzo finì quindi per raccogliersi una folla di circa 10 000 persone e incominciarono ad arrivare anche venditori ambulanti di cibo e bevande. Probabilmente anche questo colossale assembramento (la zona non era transennata e chiunque poteva arrivare praticamente fino all'imboccatura della cavità) ebbe un ruolo rilevante nel rallentare la macchina dei soccorsi.


Intorno alle 16:00 entrò in azione una seconda perforatrice, più performante, dopo che la prima era riuscita a scavare un pozzo di 20 metri di profondità e 50 cm di diametro. I tecnici operatori di questa nuova macchina, a causa del sottosuolo duro e compatto, ipotizzarono non meno di 8-12 ore di lavoro per arrivare alla profondità richiesta.


Alle 18:22 il pozzo parallelo aveva raggiunto una profondità di 21 metri e lo scavo procedeva con difficoltà. Interpellato allo scopo, Evasio Fava, primario di rianimazione all'ospedale San Giovanni, si dedicò a controllare le condizioni di salute del bambino, che era affetto da una cardiopatia congenita in attesa di essere operata a settembre.


Alle ore 20:00 entrò in funzione un terzo impianto di perforazione, più piccolo e agile; al contempo fu calata nel pozzo una flebo di acqua e zucchero per tentare di dissetare il bambino. Ritenendo non più necessario lasciare libere le frequenze, le stazioni radio locali ripresero le trasmissioni in onde medie.[5][8]



Sandro Pertini con Elveno Pastorelli all'imboccatura del pozzo

Alle 21:30 si rese necessaria una pausa nella perforazione; alle 23:00 fu autorizzato a scendere nel pozzo un volontario, il manovale siciliano cinquantaduenne Isidoro Mirabella, dal fisico minuto e subito ribattezzato "l'Uomo Ragno". Egli però, a causa di ostacoli tecnici, non riuscì ad avvicinarsi a sufficienza al bambino anche se poté parlargli.[9]


Alle 7:30 del 12 giugno la perforatrice era scesa soltanto a 25 metri di profondità. Un'ora e mezzo dopo incontrò un terreno più morbido, che le consentì di accelerare la discesa; nel frattempo i soccorritori continuavano a parlare col bambino (che aveva cominciato a piangere dicendo di essere stanco) tramite l'elettro-sonda.


Alle 10:10 lo scavo parallelo era arrivato a una profondità di 30 metri e 5 centimetri e un ingegnere dei vigili del fuoco rivide al ribasso la stima della profondità cui si trovava il bambino: 32,5 m invece di 36. Si decise pertanto di accelerare i lavori e di incominciare immediatamente a scavare il raccordo orizzontale fra i due pozzi, prevedendo di sbucare un paio di metri sopra il bambino. Alle 11:00 giunse sul posto una scavatrice a pressione per scavare il tunnel di connessione, che tuttavia si bloccò poco dopo l'accensione. Tre vigili del fuoco incominciarono quindi a scavare a mano. Nel frattempo Alfredino aveva smesso di rispondere ai soccorritori, e i medici presenti sul posto, che ascoltavano il suo respiro, riferirono che stava peggiorando: 48 espirazioni al minuto.


Alle 16:30 giunse sul posto il Presidente della Repubblica Sandro Pertini, che si fece porgere il microfono per poter parlare con il bambino; l'arrivo del presidente (che si trattenne per tutta la serata e la notte, fino alle 7 di mattina dell'indomani[11]) fu altresì determinante nel convincere le redazioni dei telegiornali a non "staccare" la diretta.


Alle 19:00 il cunicolo orizzontale fu completato e il pozzo del bambino fu posto in comunicazione con quello parallelo, a 34 metri di profondità. Tuttavia, si dovette prendere atto del fatto che il bambino non era nelle vicinanze del foro appena aperto in quanto, probabilmente anche a causa delle vibrazioni causate dalla perforazione, era scivolato molto più in basso a una profondità imprecisata. Pastorelli richiamò gli speleologi e chiese a Bernabei di calarsi nel secondo pozzo: il soccorritore si affacciò quindi dal cunicolo orizzontale di raccordo e calò una torcia legata a una cimetta per calcolare la posizione del bambino, che risultò a circa una trentina di metri. In seguito si accertò che il bambino si trovava a circa 60 metri dalla superficie.


L'unica possibilità rimasta era la discesa di qualche volontario lungo il pozzo. Il primo a prestarsi fu uno speleologo, Claudio Aprile,[12] che tentò di introdursi nel pozzo artesiano dal cunicolo orizzontale; tuttavia, l'apertura di comunicazione si rivelò troppo stretta per permettere la calata e il giovane speleologo dovette desistere.



Angelo Licheri portato a braccia dopo essere riemerso dal tunnel

Un altro volontario, il tipografo d'origine sarda Angelo Licheri, piccolo di statura e molto magro, chiese ed ottenne allora di farsi calare nel pozzo originario per tutti i 60 metri di profondità.[13][14] Licheri, che volutamente rimase con indosso solo la canottiera e le mutande in modo da non riscontrare troppo attrito nello stretto tunnel, cominciò la discesa poco dopo la mezzanotte fra il 12 ed il 13 giugno; al fine di superare i vari ostacoli durante la discesa, attraverso i quali egli stesso temeva di rimanere incastrato a sua volta, più volte chiese di farsi tirare su per almeno un paio di metri in modo che chi teneva l'altro capo della fune la mollasse di colpo, cosicché Licheri poté sfondare i punti di ostruzione e riportando sul corpo delle notevoli ferite da taglio (ferite delle quali ancora oggi egli porta i segni). In questo modo riuscì ad avvicinarsi ed a dialogare con Alfredino, il quale però non riusciva più a parlare ed aveva iniziato ad emanare dei rantoli, segno di una respirazione che stava peggiorando. Prima di tutto, Licheri rimosse con le dita il fango dagli occhi e dalla bocca di Alfredino, dopodiché riuscì a liberargli le mani e le braccia che si erano postate dietro le anche; non riuscì però a disincastrarlo completamente, in quanto il bambino si presentava rannicchiato con le ginocchia che gli schiacciavano il petto. A questo punto, tentò di allacciargli l'imbracatura per tirarlo fuori dal pozzo, ma per ben tre volte l'imbracatura s'aprì; tentò allora di prenderlo di forza prima sotto le ascelle e poi per le braccia, ma il bambino continuava a scivolare per via del fango che lo ricopriva. Per di più, involontariamente gli spezzò anche il polso sinistro. In tutto, Licheri rimase a testa in giù 45 minuti, contro i 25 considerati soglia massima di sicurezza in quella posizione.[15][16] Resosi conto dell'impossibilità di liberare il bambino in quella posizione innaturale, anche Licheri s'arrese e ritornò in superficie senza Alfredino, non prima di avergli mandato un bacio. Uscito dal pozzo, Licheri, ricoperto di fango e con delle evidenti e profonde ferite, venne coperto con una coperta e trasportato d'urgenza in ospedale, impossibilitato a reggersi in piedi; riuscì a riprendersi alcune settimane dopo.


Dopo Licheri cominciarono ad offrirsi vari altri volontari, fra cui nani, esperti di pozzi e persino un contorsionista circense soprannominato "Denis Rock". Intorno alle ore 3:00, venne imbracato per un altro tentativo Pietro Molino, un ragazzo di 16 anni originario di Napoli, anch'egli di corporatura esile e giunto sul posto accompagnato da un cugino; quando si scoprì che era minorenne e privo del diretto consenso dei genitori, i quali solo loro avrebbero potuto dare il permesso per farlo scendere nel pozzo, il ragazzo venne fermato dal magistrato presente sul posto.


La morte

Verso le 5:00 del mattino ebbe inizio il tentativo di un altro speleologo, il ventiduenne abruzzese Donato Caruso di Avezzano.[17] Anch'egli raggiunse il bambino e provò a imbracarlo, ma le fettucce da contenzione psichiatrica che aveva usato e che avrebbero dovuto assicurare una sorta di effetto cappio, scivolarono via al primo strattone. Caruso si fece ritirare su fino al cunicolo di collegamento, dove si fermò per riposare e poi ritentare. Effettuò altri tentativi con delle manette, metodo molto più rischioso anche per il soccorritore perché queste erano legate alla stessa sua corda di sicurezza. Alla fine, anche Caruso tornò in superficie senza esser riuscito nell'intento, riportando inoltre la notizia della probabile morte del bambino.


Dopo che la signora Franca chiamò per molte volte invano il figlio, verso le 9:00 del 13 giugno venne calato nel pozzo uno stetoscopio, al fine di percepire il battito cardiaco del bambino. Non registrando nulla, verso le ore 16:00 venne calata nella buca una piccola telecamera fornita da alcuni tecnici della Rai, che a circa 55 metri individuò la sagoma immobile di Alfredino, che non si muoveva più né tantomeno respirava. Fatta la dichiarazione di morte presunta, per assicurare la conservazione del corpo, il magistrato competente ordinò che fosse immesso nel pozzo del gas refrigerante (azoto liquido a −30 °C). Il cadavere fu poi recuperato da tre squadre di minatori della miniera di Gavorrano l'11 luglio seguente, 28 giorni dopo la morte del bambino.


I funerali si svolsero venerdì 17 luglio 1981 nella Basilica di San Lorenzo fuori le mura; la salma venne trasportata da quegli stessi volontari che tentarono di salvarlo, fra cui Angelo Licheri e Donato Caruso. Alfredino oggi riposa presso il Cimitero del Verano di Roma.  


24 giugno, 1979

ANGELUS Domenica, 24 giugno 1979

 ANGELUS

Domenica, 24 giugno 1979

 

1.Il Cuore del redentore vivifica tutta la Chiesa ed attira gli uomini che hanno aperto i loro cuori “all’inscrutabile ricchezza” di questo unico Cuore.

Mediante questo odierno incontro e mediante l’Angelus di quest’ultima domenica del mese di giugno, desidero, in modo particolare, unirmi spiritualmente con tutti coloro che a questo Divin Cuore ispirano particolarmente i loro cuori umani. Numerosa questa famiglia. Non poche Congregazioni, Associazioni, Comunità si sviluppano nella Chiesa e in modo programmatico attingono dal Cuore di Cristo l’energia vitale della loro attività.

Questo legame spirituale conduce sempre ad un grande risveglio di zelo apostolico. Gli adoratori del Cuore Divino diventano gli uomini dalla coscienza sensibile. E quando è dato a loro di avere rapporti con il Cuore del nostro Signore e Maestro, allora si risveglia in essi anche il bisogno della riparazione per i peccati del mondo, per l’indifferenza di tanti cuori, per le loro negligenze.

Quanto è necessaria nella Chiesa questa schiera di cuori vigilanti, perché l’Amore del Cuore Divino non rimanga isolato e non ricambiato! Tra questa schiera meritano una particolare menzione tutti coloro che offrono le loro sofferenze come vive vittime in unione con il Cuore di Cristo trafitto sulla croce. Trasformata così con l’amore, la sofferenza umana diventa un particolare lievito della salvifica opera di Cristo nella Chiesa.

2. Oggi, nella Basilica di San Pietro, ricevono dalle mie mani l’ordinazione sacerdotale numerosi Diaconi. Sono 88, e provengono dai seguenti Paesi: Filippine, Vietnam, Polonia, Malta, Zaire, Rwanda, Argentina, Messico, Stati Uniti, Canada, Irlanda, Portogallo, Spagna, Francia e Italia.

Una gran parte ha avuto la possibilità di compiere gli studi teologici e la preparazione al sacerdozio a Roma, nei Collegi Romani; che uniscono sacerdoti e seminaristi provenienti da diversi Paesi del mondo.

Oggi, conferendo loro l’ordinazione sacerdotale, desidero unirli ancora più profondamente con il cuore della Chiesa che batte all’unisono col Divin Cuore di Cristo, Eterno Sacerdote.

Perseverino in questa unione, portando i beati frutti del messaggio evangelico e del ministero sacerdotale.

Raccomando anche al Divin Cuore le famiglie, le diocesi o le Congregazioni Religiose, alle quali appartengono, e, infine, i loro Collegi Romani e i loro Seminari. A questi ultimi auguro di vivere con fervore la vita autenticamente evangelica, che prende inizio dal Cuore di Gesù.

ORDINAZIONI SACERDOTALI IN SAN PIETRO OMELIA DI SUA SANTITÀ GIOVANNI PAOLO II Domenica, 24 giugno 1979

 ORDINAZIONI SACERDOTALI IN SAN PIETRO

OMELIA DI SUA SANTITÀ GIOVANNI PAOLO II

Domenica, 24 giugno 1979

 

1. “Et tu puer propheta Altissimi vocaberis”: “E tu, bambino, sarai chiamato profeta dell’Altissimo” (Lc 1,76).

Queste parole parlano del Santo di oggi. Con queste parole il sacerdote Zaccaria salutò il proprio figlio, dopo aver riconquistato la capacità di parlare. Con queste parole salutò il figlio, al quale, per sua volontà e con sorpresa di tutta la famiglia, diede il nome di Giovanni. Oggi la Chiesa ci ricorda questi avvenimenti, celebrando la solennità della nascita di San Giovanni Battista.

Si potrebbe chiamarla anche il giorno della chiamata di Giovanni, figlio di Zaccaria e di Elisabetta da Ain-Karim, per essere l’ultimo profeta dell’antica alleanza; per essere il messaggero e l’immediato precursore del Messia: Gesù Cristo.

Ecco colui, che viene al mondo in circostanze così insolite, porta già con sé la divina chiamata. Questa chiamata proviene dal disegno di Dio stesso, dal suo amore salvifico, ed è iscritta nella storia dell’uomo fin dal primo momento della concezione nel seno materno. Tutte le circostanze di questa concezione, come poi le circostanze della nascita di Giovanni ad Ain-Karim, indicano una chiamata insolita: “Praeibis ante faciem Domini parare vias eius”, “perché andrai innanzi al Signore a preparargli le strade” (Lc 1,76).

Sappiamo che a questa chiamata Giovanni Battista ha risposto con tutta la sua vita. Sappiamo che ad essa egli è rimasto fedele fino all’ultimo respiro. E questo respiro fu reso nel carcere per ordine di Erode, in seguito al volere di Salomè che agiva su istigazione della vendicativa madre Erodiade.

Però, tutto ciò la liturgia, oggi, non menziona, riservandovi un altro giorno. Oggi la liturgia ci ordina di rallegrarci per la sola nascita del Precursore del Signore. Ci ordina di rendere grazie a Dio per la chiamata di Giovanni Battista.

2. Quando in questo giorno, miei cari diaconi e candidati al presbiterato, vi presentate nella Basilica di San Pietro a Roma, desideriamo anche noi tutti rallegrarci per la vostra chiamata ad un’ulteriore partecipazione al sacerdozio di Cristo.

Nel cuore di ognuno di voi Dio ha iscritto il mistero di questa chiamata. Possiamo ripetere col profeta: “Ti ho amato di amore eterno, per questo ti conservo ancora pietà” (Ger 31,3).

Ad un certo momento della vita vi siete resi conto di questa divina chiamata. E avete cominciato ad avviarvi, avete cominciato a camminare verso la sua realizzazione. La via al Sacramento dell’Ordine, che oggi ricevete dalle mie mani, passa attraverso una serie di tappe e di ambienti, di cui fanno parte la casa familiare, gli anni della scuola elementare e media, come pure gli studi superiori, l’ambiente degli amici, la vita parrocchiale. Anzitutto, però, su questa via si trova il seminario ecclesiastico, al quale ognuno di noi va per trovare una risposta definitiva alla domanda riguardante la sua chiamata al sacerdozio. Ognuno di noi ci va, affinché, trovando in maniera sempre più matura tale risposta, possa prepararsi, nello stesso tempo, al Sacramento dell’Ordine in modo profondo e sistematico.

Oggi avete già alle spalle tutte queste esperienze. Non domandate più come quel giovane dal Vangelo: “Maestro buono, che cosa devo fare?”(Mc 10,17). Il Maestro vi ha già aiutato a trovare la risposta. Voi vi presentate perché la Chiesa possa imprimere su questa risposta il suo sigillo sacramentale.

3. Questo sigillo si imprime mediante tutta la liturgia del Sacramento dell’Ordine. Lo imprime il Vescovo, che agisce con la forza dello Spirito Santo e in comunione con il suo Presbyterium.

La forza dello Spirito Santo viene indicata e trasmessa dall’imposizione delle mani, accompagnata prima dal silenzio e poi dalla preghiera. Come segno del trasferimento di questa forza nelle vostre giovani mani, esse verranno unte col santo Crisma per essere degne di celebrare l’Eucaristia. Le mani umane non possono celebrare in altro modo se non nella forza dello Spirito Santo.

Celebrare l’Eucaristia vuol dire radunare il Popolo di Dio e costruire la Chiesa nella sua più piena identità.

Il momento che viviamo qui insieme è di grande importanza sia per ognuno di voi sia per la Chiesa intera.

La Chiesa ha pregato per ciascuno di questi chiamati, che oggi ricevono il sigillo sacramentale del Presbiterio. La Chiesa desidera che ognuno di voi la costruisca col proprio sacerdozio, col proprio servizio, il quale per la forza ottenuta da Cristo “raccoglie e non disperde” (cf. Mt 12,30).

4. La Chiesa anche oggi prega. Pregano i vostri genitori, le famiglie, gli ambienti con i quali si è legata la vostra vita finora, i vostri seminari, le vostre diocesi, le vostre Congregazioni Religiose.

Preghiamo il Signore della messe che ha chiamato ognuno di voi come operai per la sua messe, affinché perseveriate in questa messe fino alla fine.

Così come Giovanni figlio di Zaccaria e di Elisabetta da Ain-Karim, il cui padre disse nel giorno della nascita: “Et tu puer propheta Altissimi vocaberis” (Lc 1,76).

La vostra perseveranza sia il frutto delle preghiere che oggi eleviamo. Perseverate come profeti dell’Altissimo! Perseverate come sacerdoti di Gesù Cristo!

Portate frutti abbondanti. Amen. 

27 settembre, 1978

PAPA GIOVANNI PAOLO I UDIENZA GENERALE Mercoledì, 27 settembre 1978

 PAPA GIOVANNI PAOLO I

UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 27 settembre 1978

 

La carità

« Mio Dio, amo con tutto il cuore sopra ogni cosa Voi, bene infinito e nostra eterna felicità, e per amor Vostro amo il prossimo mio come me stesso e perdono le offese ricevute. O Signore, ch'io Vi ami sempre più ». È una preghiera notissima intarsiata di frasi bibliche. Me l'ha insegnata la mamma. La recito più volte al giorno anche adesso e cerco di spiegarvela, parola per parola, come farebbe un catechista di parrocchia. Siamo alla « terza lampada di santificazione » di Papa Giovanni: la carità. Amo. A scuola di filosofia il professore mi diceva: Tu conosci il campanile di San Marco? Sì? Ciò significa ch'esso è entrato in qualche modo nella tua mente: fisicamente è rimasto dov'era, ma nel tuo intimo esso ha impresso quasi un suo ritratto intellettuale. Tu, invece, ami il campanile di S. Marco? Ciò significa che quel ritratto, da dentro, ti spinge e ti inclina, quasi ti porta, ti fa andare con l'animo verso il campanile ch'è fuori. Insomma: amare significa viaggiare, correre con il cuore verso l'oggetto amato. Dice l'imitazione di Cristo: chi ama « currit, volat, laetatur », corre, vola e gode (1). Amare Dio è dunque un viaggiare col cuore verso Dio. Viaggio bellissimo. Ragazzo, mi estasiavo nei viaggi descritti da Giulio Verne (« Ventimila leghe sotto i mari », « Dalla terra alla luna », « Il giro del mondo in ottanta giorni », ecc.). Ma i viaggi dell'amore a Dio sono molto più interessanti. Li si legge nella vita dei Santi. S. Vincenzo de' Paoli, di cui celebriamo oggi la festa, per esempio, è un gigante della carità: ha amato Dio come non si ama un padre e una madre, è stato lui stesso un padre per prigionieri, malati, orfani e poveri. S. Pietro Claver, consacrandosi tutto a Dio, firmava: Pietro, schiavo dei negri per sempre. Il viaggio porta anche dei sacrifici, ma questi non devono fermarci. Gesù è in croce: tu lo vuoi baciare? non puoi fare a meno di piegarti sulla croce e lasciarti pungere da qualche spina della corona, che è sul capo del Signore (2). Non puoi far la figura del buon S. Pietro, che è stato bravo a gridare « Viva Gesù » sul monte Tabor, dove c'era la gioia, ma non s'è neppure lasciato vedere accanto a Gesù sul monte Calvario, dove c'era il rischio e il dolore (3). L'amore a Dio è anche viaggio misterioso: io non parto cioè, se Dio non prende prima l'iniziativa. « Nessuno - ha detto Gesù - può venire a me, se non lo attira il Padre » (4). Si chiedeva S. Agostino: ma, allora, la libertà umana? Dio, però, che ha voluto e costruito questa libertà, sa Lui come rispettarla, pur portando i cuori al punto da Lui inteso: « parum est voluntate, etiam voluptate traheris »; Dio non soltanto ti attira in modo che tu stesso voglia, ma perfino in modo che tu gusti di essere attirato (5). Con tutto il cuore. Sottolineo, qui, l'aggettivo « tutto ». Il totalitarismo, in politica è brutta cosa. In religione, invece, un nostro totalitarismo nel confronto di Dio va benissimo. Sta scritto: « Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutte le forze. Questi precetti che oggi ti do, ti stiano fissi nel cuore; li ripeterai ai tuoi figli, ne parlerai quando sarai seduto in casa tua, quando camminerai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai. Te li legherai alla mano come un segno, ti saranno come un pendaglio tra gli occhi e li scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle tue porte » (6). Quel « tutto » ripetuto e piegato alla pratica con tanta insistenza è davvero la bandiera del massimalismo cristiano. Ed è giusto: è troppo grande Dio, troppo Egli merita da noi, perché gli si possano gettare, come ad un povero Lazzaro, appena poche briciole del nostro tempo e del nostro cuore. Egli è bene infinito e sarà nostra felicità eterna: i denari, i piaceri, le fortune di questo mondo, al suo confronto, sono appena frammenti di bene e momenti fugaci di felicità. Non sarebbe saggio dare tanto di noi a queste cose e poco di noi a Gesù. Sopra ogni cosa. Adesso si viene ad un confronto diretto tra Dio e l'uomo, tra Dio e il mondo. Non sarebbe giusto dire: « O Dio o l'uomo ». Si devono amare « e Dio e l'uomo »; quest'ultimo, però, mai più di Dio o contro Dio o alla pari di Dio. In altre parole: l'amore di Dio è bensì prevalente, ma non esclusivo. La Bibbia dichiara Giacobbe santo (7) e amato da Dio (8), lo mostra impegnato in sette anni di lavoro per conquistarsi Rachele come moglie; « e gli parvero pochi giorni, quegli anni, tanto era il suo amore per lei » (9). Francesco di Sales fa sopra queste parole un commentino: « Giacobbe - scrive - ama Rachele con tutte le sue forze, e con tutte le sue forze ama Dio; ma non per questo ama Rachele come Dio né Dio come Rachele. Ama Dio come suo Dio sopra tutte le cose e più di se stesso; ama Rachele come sua moglie sopra tutte le altre donne e come se stesso. Ama Dio con amore assolutamente e sovranamente sommo, e Rachele con sommo amore maritale; l'un amore non è contrario all'altro perché quello di Rachele non viola i supremi vantaggi dell'amore di Dio » (10). E per amor vostro amo il prossimo mio. Siamo qui di fronte a due amori che sono « fratelli gemelli »e inseparabili. Alcune persone è facile amarle; altre, è difficile; non ci sono simpatiche, ci hanno offeso e fatto del male; soltanto se amo Dio sul serio, arrivo ad amarle, in quanto figlie di Dio e perché questi me lo domanda. Gesù ha anche fissato come amare il prossimo: non solo cioè con il sentimento, ma coi fatti. Questo è il modo, disse. Vi chiederò: Avevo fame nella persona dei miei fratelli più piccoli, mi avete dato da mangiare? Mi avete visitato, quand'ero infermo? (11)

Il catechismo traduce queste ed altre parole della Bibbia nel doppio elenco delle sette opere di misericordia corporali e sette spirituali. L'elenco non è completo e bisognerebbe aggiornarlo. Fra gli affamati, per esempio, oggi, non si tratta più soltanto di questo o quell'individuo; ci sono popoli interi.

Tutti ricordiamo le grandi parole del papa Paolo VI: « I popoli della fame interpellano oggi in maniera drammatica i popoli dell'opulenza. La Chiesa trasale davanti a questo grido di angoscia e chiama ognuno a rispondere con amore al proprio fratello » (12). A questo punto alla carità si aggiunge la giustizia, perché - dice ancora Paolo VI - « la proprietà privata non costituisce per alcuno un diritto incondizionato e assoluto. Nessuno è autorizzato a riservare a suo uso esclusivo ciò che supera il suo bisogno, quando gli altri mancano del necessario » (13). Di conseguenza « ogni estenuante corsa agli armamenti diviene uno scandalo intollerabile » (14).

Alla luce di queste forti espressioni si vede quanto - individui e popoli - siamo ancora distanti dall'amare gli altri « come noi stessi », che è comando di Gesù.

Altro comando: perdono le offese ricevute. A questo perdono pare quasi che il Signore dia precedenza sul culto: « Se dunque presenti la tua offerta sull'altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualcosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all'altare e va' prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono »(15).

Ultime parole della preghiera sono: Signore, ch'io vi ami sempre più. Anche qui c'è obbedienza a un comando di Dio, che ha messo nel nostro cuore la sete del progresso. Dalle palafitte, dalle caverne e dalle prime capanne siamo passati alle case, ai palazzi, ai grattacieli; dai viaggi a piedi, a schiena di mulo o di cammello, alle carrozze, ai treni, agli aerei. E si desidera progredire ancora con mezzi sempre più rapidi, raggiungendo mete sempre più lontane. Ma amare Dio - l'abbiamo visto - è pure un viaggio: Dio lo vuole sempre più intenso e perfetto. Ha detto a tutti i suoi: « Voi siete la luce del mondo, il sale della terra » (16); « siate perfetti com'è perfetto il vostro Padre celeste » (17). Ciò significa: amare Dio non poco, ma tanto; non fermarsi al punto in cui si è arrivati, ma col Suo aiuto, progredire nell'amore.


(1) L'imitazione di Cristo, 1.III, c. V, n. 4.

(2) Cfr. S. FRANCESCO DI SALES, OEuvres, éd. Annecy, t. XXI, p. 153.

(3) Cfr. Ibid., t. XV, p. 140.

(4) Io. 6, 44.

(5) S. AUGUSTINI In Io. Evang. tract., 26, 4.

(6) Deut. 6, 5-9.

(7) Dan. 3, 35.

(8) Mal. 1, 2; Rom. 9, 13.

(9) Gen. 29, 20.

(10) S. FRANCESCO DE SALES, OEuvres, éd. Annecy, t. V, p. 175.

(11) Cfr. Matth. 25, 34 ss.

(12) Populorum Progressio3.

(13) Ibid. 22.

(14) Ibid. 53.

(15) Matth. 5, 23-24.

(16) Matth. 5, 8.

(17) Ibid. 5, 48.



24 settembre, 1978

GIOVANNI PAOLO I ANGELUS DOMINI Domenica, 24 settembre 1978

 GIOVANNI PAOLO I


ANGELUS DOMINI


Domenica, 24 settembre 1978



Ieri sera sono andato a San Giovanni in Laterano. Per merito dei Romani, per la gentilezza del Sindaco e di alcune autorità del Governo italiano, per me è stato un momento lieto. Non lieto, invece, ma doloroso fu l'aver appreso pochi giorni fa dai giornali che uno studente romano è stato ucciso per un motivo futile, freddamente. È uno dei tanti casi di violenza che continuamente travagliano questa povera e inquieta nostra società.


È riemerso anche in questi giorni il caso di Luca Locci, bambino di sette anni, rapito tre mesi fa. La gente talvolta dice: «Siamo in una società tutta guasta, tutta disonesta ». Questo non è vero. Ci sono tanti buoni ancora, tanti onesti. Piuttosto, che cosa fare per migliorare la società? Io direi: ciascuno di noi cerchi lui di essere buono e di contagiare gli altri con una bontà tutta intrisa della mansuetudine e dell'amore insegnato da Cristo. La regola d'oro di Cristo è stata: «Non fare agli altri quello che non vuoi fatto a te. Fare agli altri quello che vuoi fatto a te. Impara da me che sono mite e umile di cuore». E lui ha dato sempre. Messo in croce, non solo ha perdonato ai suoi crocifissori, ma li ha scusati. Ha detto: «Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno». Questo è cristianesimo, questi sarebbero sentimenti che messi in pratica aiuterebbero tanto la società.


Quest'anno ricorre il 30° della morte di Georges Bernanos, grande scrittore cattolico. Una delle sue opere più conosciute è « Dialoghi delle Carmelitane ». È stata pubblicata un anno dopo la sua morte. Egli l'aveva preparata lavorando sopra un racconto della scrittrice tedesca Gertrud von Le Fort. L'aveva preparata per il teatro.


Sul teatro è andata. È stata messa in musica e poi proiettata sugli schermi di tutto il mondo. Conosciutissima. Il fatto però era storico. Pio X, nel 1906, proprio qui a Roma aveva beatificato le sedici Carmelitane di Compiègne martiri durante la rivoluzione francese. Durante il processo si sentì la condanna: « a morte per fanatismo ». E una nella sua semplicità ha chiesto: « Signor Giudice, per piacere, cosa vuol dire fanatismo? », e il giudice: « è la vostra sciocca appartenenza alla religione ». « Oh, sorelle!, ha detto allora la suora, avete sentito, ci condannano per il nostro attaccamento alla fede. Che felicità morire per Gesù Cristo! ». Sono state fatte uscire dalla prigione della Consiergerie, le hanno fatte montare sulla fatale carretta, durante la strada han cantato inni religiosi; arrivate al palco della ghigliottina, uno dopo l'altra si sono inginocchiate davanti alla Priora e hanno rinnovato il voto di obbedienza. Poi hanno intonato il « Veni Creator »; il canto, però, si è reso via via sempre più debole, man mano che le teste delle povere suore, ad una ad una, cadevano sotto la ghigliottina. Rimase ultima la Priora, Suor Teresa di S. Agostino; e le sue ultime parole furono queste: « L'amore sarà sempre vittorioso, l'amore può tutto ». Ecco la parola giusta, non la violenza può tutto, ma l'amore può tutto.


Domandiamo al Signore la grazia che una nuova ondata di amore verso il prossimo pervada questo povero mondo.


23 settembre, 1978

CAPPELLA PAPALE PER LA PRESA DI POSSESSO DELLA CATHEDRA ROMANA - OMELIA DI SUA SANTITÀ GIOVANNI PAOLO I

 CAPPELLA PAPALE PER LA PRESA DI POSSESSO

DELLA CATHEDRA ROMANA

OMELIA DI SUA SANTITÀ GIOVANNI PAOLO I

Patriarcale Arcibasilica Lateranense
Sabato, 23 settembre 1978

 

Ringrazio di cuore il Cardinale Vicario per le delicate parole, con le quali - anche a nome del Consiglio Episcopale, del Capitolo Lateranense, del Clero, dei Religiosi, delle Religiose e dei fedeli - ha voluto esprimere la devozione ed i propositi di fattiva collaborazione nella diocesi di Roma. Prima testimonianza concreta di questa collaborazione vuol essere la somma ingente raccolta tra i fedeli della diocesi e messa a mia disposizione per provvedere di chiesa e di strutture parrocchiali una borgata periferica della Città, ancora priva di questi essenziali sussidi comunitari di vita cristiana. Ringrazio veramente commosso.

1. Il maestro delle cerimonie ha scelto le tre letture bibliche per questa solenne liturgia. Le ha giudicate adatte ed io cerco di spiegarvele.

La prima lettura (1) può venir riferita a Roma. È noto a tutti che il Papa in tanto acquista autorità su tutta la Chiesa in quanto è vescovo di Roma, successore cioè, in questa città, di Pietro. Ed in grazia specialmente di Pietro, la Gerusalemme di cui parlava Isaia, può essere considerata una figura, un preannuncio di Roma. Anche di Roma, in quanto sede di Pietro, luogo del suo martirio e centro della Chiesa cattolica, si può dire: « sopra di te, risplenderà il Signore e la Sua gloria si manifesterà... i popoli cammineranno alla tua luce » (2). Ricordando i pellegrinaggi degli Anni Santi e quelli che continuano a svolgersi negli anni normali con costante afflusso, si può, col profeta, apostrofare Roma così: « Gira intorno gli occhi e guarda:... figli vengono a te da lontano... si riverserà sopra di te la moltitudine delle genti del mare e le schiere dei popoli verranno a te » (3). È un onore questo per il Vescovo di Roma e per voi tutti. Ma è anche una responsabilità. Troveranno, qui, i pellegrini un modello di vera comunità cristiana? Saremo capaci, noi, con l'aiuto di Dio, vescovo e fedeli, di realizzare qui le parole di Isaia scritte sotto quelle citate prima, e cioè: « non si udrà più parlare di violenza nella tua terra... il tuo sarà un popolo tutto di giusti »? (4) Pochi minuti fa il Prof. Argan, sindaco di Roma, mi ha rivolto un cortese indirizzo di saluto e di augurio. Alcune delle sue parole m'hanno fatto venire in mente una delle preghiere, che fanciullo, recitavo con la mamma. Suonava così: « i peccati, che gridano vendetta al cospetto di Dio sono... opprimere i poveri, defraudare la giusta mercede agli operai ». A sua volta, il parroco mi interrogava alla scuola di catechismo: « I peccati, che gridano vendetta al cospetto di Dio, perché sono dei più gravi e funesti? ». Ed io rispondevo col Catechismo di Pio X: « ... perché direttamente contrari al bene dell'umanità e odiosissimi tanto che provocano, più degli altri, i castighi di Dio » (5). Roma sarà una vera comunità cristiana, se Dio vi sarà onorato non solo con l'affluenza dei fedeli alle chiese, non solo con la vita privata vissuta morigeratamente, ma anche con l'amore ai poveri. Questi - diceva il diacono romano Lorenzo - sono i veri tesori della Chiesa; vanno, pertanto, aiutati, da chi può, ad avere e ad essere di più senza venire umiliati ed offesi con ricchezze ostentate, con denaro sperperato in cose futili e non investito - quando possibile - in imprese di comune vantaggio.

2. La seconda lettura (6) adatta ai fedeli di Roma. L'ha scelta, come ho detto, il Maestro delle cerimonie. Confesso che parlando essa di obbedienza, mi mette un po' in imbarazzo. È così difficile, oggi, convincere, quando si mettono a confronto i diritti della persona umana con i diritti dell'autorità e della legge! Nel libro di Giobbe viene descritto un cavallo da battaglia: salta come una cavalletta e sbuffa; scava con lo zoccolo la terra, poi si slancia con ardore; quando la tromba squilla, nitrisce di giubilo; fiuta da lungi la lotta, le grida dei capi e il clamore delle schiere (7). Simbolo della libertà. L'autorità, invece, rassomiglia al cavaliere prudente, che monta il cavallo e, ora con la voce soave, ora lavorando saggiamente di speroni, di morso e di frustino, lo stimola, oppure ne modera la corsa impetuosa, lo frena e lo trattiene. Mettere d'accordo cavallo e cavaliere, libertà e autorità, è diventato un problema sociale. Ed anche di Chiesa. Al Concilio s'è tentato di risolverlo nel quarto capitolo della « Lumen Gentium ». Ecco le indicazioni conciliari per il « cavaliere »: « I sacri pastori, sanno benissimo quanto contribuiscano i laici al bene di tutta la Chiesa. Sanno di non essere stati istituiti da Cristo per assumersi da soli tutta la missione della salvezza che la Chiesa ha ricevuto nei confronti del mondo, ma che il loro magnifico incarico è di pascere i fedeli e di riconoscere i loro servizi e i loro carismi, in modo che tutti concordemente cooperino, nella loro misura, all'opera comune » (8). Ed ancora: sanno anche, i pastori, che « nelle battaglie decisive è talvolta dal fronte che partono le iniziative più indovinate » (9). Ecco, invece, un'indicazione del Concilio per il « generoso destriero » cioè per i laici: al vescovo « i fedeli devono aderire come la Chiesa a Gesù Cristo e come Gesù Cristo al Padre » (10). Preghiamo che il Signore aiuti sia il vescovo che i fedeli, sia il cavaliere che i cavalli. M'è stato detto che nella diocesi di Roma sono numerose le persone che si prodigano per i fratelli, numerosi i catechisti; molti anche aspettano un cenno per intervenire e collaborare. Che il Signore ci aiuti tutti a costituire a Roma una comunità cristiana viva e operante. Non per nulla ho citato il capitolo quarto della « Lumen Gentium »: è il capitolo della « comunione ecclesiale ». Quanto detto, però, riguarda specialmente i laici. I sacerdoti, i religiosi e le religiose, hanno una posizione particolare, legati come sono o dal voto o dalla promessa di obbedienza. Io ricordo come uno dei punti solenni della mia esistenza il momento in cui, messe le mie mani in quelle del vescovo, ho detto: « Prometto ». Da allora mi sono sentito impegnato per tutta la vita e mai ho pensato che si fosse trattato di cerimonia senza importanza. Spero che i sacerdoti di Roma pensino altrettanto. Ad essi ed ai religiosi S. Francesco di Sales ricorderebbe l'esempio di S. Giovanni Battista, che visse nella solitudine, lontano dal Signore, pur desiderando tanto di essergli vicino. Perché? Per obbedienza; « sapeva - scrive il santo - che trovare il Signore all'infuori dell'obbedienza significava perderlo » (11).

3. La terza lettura (12) ricorda al vescovo di Roma i suoi doveri. Il primo è di « ammaestrare », proponendo la parola del Signore con fedeltà sia a Dio sia agli ascoltatori, con umiltà ma con franchezza non timida. Tra i miei santi predecessori vescovi di Roma due sono anche Dottori della Chiesa: S. Leone, il vincitore di Attila, e S. Gregorio Magno. Negli scritti del primo c'è un pensiero teologico altissimo e sfavilla una lingua latina stupendamente architettata; non penso nemmeno di poterlo imitare, neppure da lontano.

Il secondo, nei suoi libri, è « come un padre, che istruisce i propri figlioli e li mette a parte delle sue sollecitudini per la loro eterna salvezza » (13). Vorrei cercare di imitare il secondo, che dedica l'intero libro terzo della sua « Regula Pastoralis » al tema « qualiter doceat », come cioè il pastore debba insegnare. Per quaranta interi capitoli Gregorio indica in modo concreto varie forme di istruzione secondo le varie circostanze di condizione sociale, età, salute e temperamento morale degli uditori. Poveri e ricchi, allegri e melanconici, superiori e sudditi, dotti e ignoranti, sfacciati e timidi, e via dicendo, in quel libro, ci sono tutti, è come la valle di Giosafat. Al Concilio Vaticano II parve nuovo che venisse chiamato « pastorale » non più ciò che veniva insegnato ai pastori, ma ciò che i pastori facevano per venire incontro ai bisogni, alle ansie, alle speranze degli uomini. Quel « nuovo » Gregorio l'aveva già attuato parecchi secoli prima, sia nella predicazione sia nel governo della Chiesa.

Il secondo dovere, espresso dalla parola « battezzare », si riferisce ai Sacramenti e a tutta la liturgia. La diocesi di Roma ha seguito il programma della CEI « Evangelizzazione e Sacramenti »; conosce già che evangelizzazione, sacramento e vita santa sono tre momenti di un unico cammino: l'evangelizzazione prepara al sacramento, il sacramento porta chi l'ha ricevuto a vivere cristianamente. Vorrei che questo grande concetto fosse applicato in misura sempre più larga. Vorrei pure che Roma desse il buon esempio in fatto di Liturgia celebrata piamente e senza « creatività » stonate. Taluni abusi in materia liturgica hanno potuto favorire, per reazione, atteggiamenti che hanno portato a prese di posizione in se stesse insostenibili e in contrasto col Vangelo. Nel fare appello, con affetto e con speranza, al senso di responsabilità di ognuno di fronte a Dio e alla Chiesa, vorrei poter assicurare che ogni irregolarità liturgica sarà diligentemente evitata.

Ed eccomi all'ultimo dovere vescovile: « insegnare ad osservare »; è la diaconia, il servizio della guida e del governare. Benché io abbia già fatto per vent'anni il vescovo a Vittorio Veneto e a Venezia, confesso di non aver ancora bene « imparato il mestiere ». A Roma mi metterò alla scuola di S. Gregorio Magno, che scrive: « sia vicino (il pastore) a ciascun suddito con la compassione; dimenticando il suo grado, si consideri eguale di sudditi buoni, ma non abbia timore di esercitare contro i malvagi i diritti della sua autorità. Ricordi: mentre tutti i sudditi levano al cielo ciò che egli ha fatto di bene, nessuno osa biasimare ciò che ha fatto di male; quando reprime i vizi, non cessi di riconoscersi con umiltà eguale ai fratelli da lui corretti; e si senta davanti a Dio tanto più debitore quanto più impunite restano le sue azioni davanti agli uomini » (14).

Qui finisce la Spiegazione delle tre letture bibliche. Mi sia permesso aggiungere una sola cosa: è legge di Dio che non si possa fare del bene a qualcuno, se prima non gli si vuole bene. Per questo, S. Pio X, entrando patriarca a Venezia, aveva esclamato in S. Marco: « Cosa sarebbe di me, Veneziani, se non vi amassi? ». Io dico ai romani qualcosa di simile: posso assicurarvi che vi amo, che desidero solo entrare al vostro servizio e mettere a disposizione di tutti le mie povere forze, quel poco che ho e che sono.

Ed ecco il testo dell'indirizzo di saluto rivolto al Papa dal Cardinale Ugo Poletti.

Beatissimo Padre,

Intimamente unito ai Vescovi del Consiglio Episcopale di Roma, e al Capitolo Lateranense, ho la gioia e la responsabilità di riassumere i sentimenti di fede, di amore, di devozione, di disponibile collaborazione che Clero, Religiosi e popolo della vostra Diocesi Romana oggi desiderano manifestarvi con limpidezza e sincerità assoluta.

Annunciando questa Vostra visita alla Patriarcale Arcibasilica del SS.mo Salvatore in Laterano, custode della Cattedra del Vescovo di Roma, ho osato dire che si trattava di un incontro tutto romano, non già per mancanza di riguardo o di considerazione ai Membri della Curia della Santa Sede, che pure si chiama Romana, o agli illustri Rappresentanti di tanti popoli fratelli qui presenti a farVi onore, bensì per ricordare a noi stessi una particolare dimensione di vita ecclesiale e una conseguente responsabilità, che deriva dal vincolo nostro con la Vostra Persona.

Siamo figli Vostri, come tutti i membri della Chiesa Cattolica, ma con una peculiarità che è unica: questa santa Chiesa diocesana di Roma appartiene solo a Voi e nessun Confratello nell'Episcopato può condividerne con Voi la paternità.

Siamo Vostra personale porzione ed eredità, rappresentata da quella Cattedra di Pietro, di cui il Laterano è spiritualmente custode, con la quale avete pure ereditato la paternità e il Magistero Universale nella Chiesa Cattolica.

Abbiamo un titolo personale a ricevere da Voi nutrimento e sostegno con la Parola di Dio, con l'esercizio della carità e pazienza paterna, con l'attenzione e sollecitudine immediata, affinché la nostra Fede non venga meno e la nostra vita cristiana non si illanguidisca.

Tuttavia se ci fermassimo a queste sole considerazioni saremmo figli inerti, gretti, meschini: non saremmo certo Vostra corona e gaudio.

Noi Vi ringraziamo per questo incontro, nella presa di possesso della Vostra Cattedra Episcopale, perché ci date la gioia di avvertire più acutamente e filialmente alcune nostre responsabilità attive, gravi e stimolanti.

Noi avvertiamo che, a causa dell'intima comunione del Popolo di Dio col suo Vescovo, siamo pure in qualche modo partecipi del grave compito Vostro della costruzione della Santa Chiesa nel mondo. Non solo in Roma noi dobbiamo dare spazio e corpo, avvertibile dovunque alla Vostra azione pastorale ed alla Vostra carità; non solo, come figli che abitano in casa, dobbiamo aiutare il Padre nell'accoglienza dei fratelli che vengono da lontano; ma dalla Vostra stessa presenza e missione siamo aiutati, come nessun altro, a crescere in una dimensione di Fede veramente cattolica, in una testimonianza di carità verso i poveri, gli umili, i piccoli, gli emarginati che sia palesemente percepita dalle altre Chiese sorelle.

Sono doveri che la Vostra presenza qui, oggi ci ricorda con una autorevolezza unica.

Profondamente consapevoli delle nostre debolezze, limitazioni e contraddizioni, che, nella vita ecclesiale della Città si mescolano alle singolari sue capacità di bene e a forze vive cristiane, operanti ad ogni livello, culturale, popolare, di dirigenza o di comunità, noi avvertiamo un'altra responsabilità della « comunione ecclesiale » con Voi, nostro Vescovo e Padre: noi costituiamo per Voi lo spazio di verifica di tutto il bene e il dolore che, in espressioni e dimensioni diverse, si muove e si estende nel mondo. Per usare un termine tecnico moderno, la Diocesi di Roma costituisce per il Papa l'« indagine campione » immediata, viva, gioiosa o dolorante, della vita umana e cristiana diffusa in tutto il mondo.

Forse per questo le tensioni, aspirazioni, possibilità operative, compensi e squilibri sociali, morali, religiosi che esistono inevitabilmente in ogni città, forse anche in proporzioni maggiori, tuttavia a Roma assumono un'eco singolare e mondiale, che viene immediatamente percepita. Cosicché, a mano a mano che conoscerete intimamente la Vostra Chiesa diocesana, Voi avvertirete misteriosamente la pulsazione del cuore del mondo.

Riflettendo su questa situazione, noi ci sentiamo impegnati a darVi un contributo, quanto più possibile vero, autentico, per facilitare la Vostra missione di Pastore e Padre universale.

Siamo presuntuosi? Compatiteci, Padre Santo, come deboli creature; comprendeteci come persone volenterose; amateci e sosteneteci come figli sinceri, che vogliono esservi fedeli.

Sul filo di queste considerazioni, la gioia esplosiva della Vostra Chiesa nell'incontro col suo Vescovo, si fa più riflessiva e consapevole. La gioia non può sostituire il dovere, ma dal dovere avvertito e compiuto si consolida la gioia portatrice di nuovi frutti.

Voi - in una continuazione dell'opera del venerato Papa Paolo VI, fatta così umana e sensibile negli ultimi anni - già ci avete dato molto in fiducia, in amabile paternità e ancor più ci darete in fortezza spirituale e in assistenza magisteriale e morale.

Noi, piccoli, che cosa possiamo offrirvi? Un dono che rientri nella collaborazione di Fede e di carità, in aiuto dei più poveri.

Parrocchie, Istituti Religiosi e fedeli hanno risposto generosamente all'invito, da me lanciato, di offrirvi la possibilità di costruire una « casa di Dio e di carità fraterna » in una borgata modesta di Roma: a Castel Giubileo sulla Salaria, dove la Parrocchia dei Santi Crisante e Daria è ancor priva di tutte le strutture parrocchiali.

Sono stati raccolti finora oltre cento milioni; il primo dono paterno che Papa Giovanni Paolo offre alla sua Diocesi di Roma.

Benedite, Padre Santo, il Cardinale Vicario e i Vescovi Vostri collaboratori, il Venerando Capitolo e Clero Lateranense, il Presbiterio diocesano coi Seminari e con gli Istituti; ma soprattutto la Città e Diocesi di Roma, con tutti i suoi responsabili religiosi e civili, e specialmente coi suoi figli, in particolare i più poveri e gli ammalati, con l'auspicio di Maria « Salus Populi Romani ».


(1) Is. 60, 1-6.

(2) Is. 60, 2.

(3) Ibid. 60, 4.5.

(4) Ibid. 60, 18. 21.

(5) Catechismo di Pio X, 154.

(6) Hebr. 13, 7-8. 15-17. 20-21.

(7) Cfr. Iob. 39, 15-25.

(8) Lumen gentium, 30.

(9) Ibid. 37, nota 7.

(10) Ibid. 27.

(11) S. FRANCESCO DI SALES, OEuvres, éd. Annecy, 1896, p. 321.

(12) Matth. 28, 16-20.

(13) I. SCHUSTER, Liber Sacramentorum, voi. I, Torino 1929, p. 46.

(14) S. GREGORII MAGNI Regula Pastoralis, Pars Secunda, cc. 5 et 6 passim.

20 settembre, 1978

PAPA GIOVANNI PAOLO I UDIENZA GENERALE - Mercoledì, 20 settembre 1978

 PAPA GIOVANNI PAOLO I

UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 20 settembre 1978

 

La speranza

Seconda tra le sette « lampade della santificazione » per papa Giovanni era la speranza. Vi parlo oggi di questa virtù, che è obbligatoria per ogni cristiano. Dante nel suo Paradiso (1) ha immaginato di presentarsi a un esame di cristianesimo. Funzionava una commissione coi fiocchi. « Hai la fede? » gli chiede prima San Pietro. « Hai la speranza? » continua S. Giacomo. « Hai la carità? » finisce S. Giovanni. « Sì - risponde Dante - ho la fede, ho la speranza, ho la carità », lo dimostra e viene promosso a pieni voti. Ho detto che è obbligatoria: non per questo la speranza è brutta o dura: anzi, chi la vive viaggia in un clima di fiducia e di abbandono, dicendo con il salmista: « Signore, tu sei la mia roccia, il mio scudo, la mia fortezza, il mio rifugio, la mia lampada, il mio pastore, la mia salvezza. Anche se si accampasse contro di me un esercito, non temerà il mio cuore; e se si leva contro di me la battaglia, anche allora io sono fiducioso ».

Direte: non è esageratamente entusiasta questo salmista? Possibile che, a lui, le cose siano sempre andate tutte diritte? No, non gli sono andate diritte sempre. Sa anche lui, e lo dice, che i cattivi spesso sono fortunati ed i buoni oppressi. Se ne è anche lamentato talvolta con il Signore; è arrivato a dire: « Perché dormi, Signore? Perché taci? Svegliati, ascoltami, Signore ». Ma la sua speranza è rimasta: ferma, incrollabile. A lui e a tutti gli speranti si può applicare quello che ha detto S. Paolo di Abramo: « credette sperando contro ogni speranza »(2). Direte ancora: come può avvenire questo? Avviene, perché ci si attacca a tre verità: Dio è onnipotente, Dio mi ama immensamente, Dio è fedele alle promesse. Ed è Lui, il Dio della misericordia, che accende in me la fiducia; per cui io non mi sento né solo, né inutile, né abbandonato, ma coinvolto in un destino di salvezza, che sboccherà un giorno nel Paradiso. Ho accennato ai Salmi. La stessa sicura fiducia vibra nei libri dei Santi. Vorrei che leggeste un'omelia tenuta da S. Agostino nel giorno di Pasqua sull'Alleluia. Il vero Alleluia - dice pressappoco - lo canteremo in Paradiso. Quello sarà l'Alleluia dell'amore pieno: questo, di adesso, è l'Alleluia dell'amore affamato, cioè della speranza.

Qualcuno dirà: ma se io sono povero peccatore? Gli rispondo come risposi a una signora sconosciuta, che s'era confessata da me molti anni fa. Essa era scoraggiata, perché - diceva - aveva avuta una vita moralmente burrascosa. Posso chiederle - dissi - quanti anni ha? - Trentacinque. - Trentacinque! Ma lei può viverne altri quaranta o cinquanta e fare ancora un mucchio di bene. Allora, pentita com'è, invece che pensare al passato, si proietti verso l'avvenire e rinnovi, con l'aiuto di Dio, la sua vita. Citai in quell'occasione S. Francesco di Sales, che parla delle « nostre care imperfezioni ». Spiegai: Dio detesta le mancanze, perché sono mancanze. D'altra parte, però, in un certo senso, ama le mancanze in quanto danno occasione a Lui di mostrare la sua misericordia e a noi di restare umili e di capire e compatire le mancanze del prossimo.

Non tutti condividono questa mia simpatia per la speranza. Nietzsche - per esempio - la chiama « virtù dei deboli »; essa farebbe del cristiano un inutile, un separato, un rassegnato, un estraneo al progresso del mondo. Altri parlano di « alienazione », che distoglierebbe i cristiani dalla lotta per la promozione umana. Ma « il messaggio cristiano - ha detto il Concilio - lungi dal distogliere gli uomini dal compito di edificare il mondo... li impegna piuttosto a tutto ciò con un obbligo ancora più stringente »(3).

Sono anche affiorate ogni tanto nel corso dei secoli affermazioni e tendenze di cristiani troppo pessimisti nei confronti dell'uomo. Ma tali affermazioni sono state disapprovate dalla Chiesa e dimenticate grazie ad una schiera di santi lieti e operosi, all'umanesimo cristiano, ai maestri ascetici, che Saint-Beuve chiamò « les doux » e a una teologia comprensiva. S. Tommaso d'Aquino, ad esempio, pone tra le virtù la iucunditas ossia la capacità di convertire in un sorridere giocondo - nella misura e nel modo conveniente - le cose udite e vedute(4). Giocondo a questo modo - spiegavo ai miei alunni - è stato quel muratore irlandese che cascò dall'impalcatura e si ruppe le gambe. Portato all'ospedale, accorsero il dottore e la suora infermiera. « Poverino - disse quest'ultima - vi siete fatto male cascando ». Ma il malato: « Madre, non precisamente cascando, ma arrivando a terra mi son fatto male ». Dichiarando virtù lo scherzare e il far sorridere, S. Tommaso si trovava d'accordo con la « lieta novella » predicata da Cristo, con l'hilaritas raccomandata da Sant'Agostino, sconfiggeva il pessimismo, vestiva di letizia la vita cristiana, ci invitava a farci coraggio anche con le gioie sane e pure, che incontriamo sul nostro cammino. Quand'ero ragazzo, ho letto qualcosa su Andrea Carnegie scozzese, passato coi genitori in America e diventato un po' alla volta uno dei più ricchi uomini del mondo. Egli non era cattolico, ma mi colpì il fatto che ritornasse con insistenza sulle gioie schiette ed autentiche della sua vita. « Sono nato in miseria - diceva - ma non cambierei i ricordi della mia fanciullezza con quelli dei figli dei milionari. Che ne sanno essi delle gioie familiari, della dolce figura di madre che combina in sé le mansioni di bambinaia, di lavandaia, di cuoca, di maestra, di angelo e di santa? ». S'era impiegato giovanissimo in una filanda di Pittsburg con 56 misere lire mensili di stipendio. Una sera, invece di dargli subito lo stipendio, il cassiere gli disse di attendere. Carnegie tremava: « Adesso mi licenziano ». Invece, pagati gli altri, il cassiere gli disse: « Andrea, ho seguito attentamente il vostro lavoro; ho concluso che vale di più di quello degli altri. Vi porto lo stipendio a 67 lire ». Carnegie tornò correndo a casa, dove la mamma pianse di contentezza per la promozione del figlio. « Parlate di milionari - diceva Carnegie molti anni dopo - tutti i miei milioni messi assieme non mi hanno procurato mai la gioia di quelle undici lire di aumento ». Certo, queste gioie, pur buone e incoraggianti, non vanno assolutizzate; sono qualcosa, non il tutto; servono come mezzo, non sono lo scopo supremo; non durano sempre, ma solo breve tempo. « Di esse - scriveva S. Paolo - usino i cristiani, ma come non ne usassero, perché passa la scena di questo mondo »(5). Cristo aveva già detto: « Cercate prima di tutto il regno di Dio »(6).

Per finire, vorrei accennare ad una speranza, che da alcuni è proclamata cristiana, ed invece è cristiana solo fino ad un certo punto. Mi spiego: al Concilio ho votato anch'io il « Messaggio al Mondo » dei Padri Conciliari. Dicevamo in esso: il compito principale del divinizzare non esime la Chiesa dal compito dell'umanizzare. Ho votato la « Gaudium et Spes », mi sono commosso ed entusiasmato quando è uscita la « Populorum Progressio ». Penso che il Magistero della Chiesa non insisterà mai abbastanza nel presentare e raccomandare la soluzione dei grandi problemi della libertà, della giustizia, della pace, dello sviluppo; ed i laici cattolici mai abbastanza si batteranno per risolvere questi problemi. È, invece, errato affermare che la liberazione politica, economica e sociale coincide con la salvezza in Gesù Cristo, che il Regnum Dei si identifica con il Regnum hominis, che Ubi Lenin ibi Ierusalem.

A Friburgo, nell'85° Katholikentag è stato trattato nei giorni scorsi il tema « il futuro della speranza ». Si parlava del « mondo »da migliorare, e la parola « futuro » ci stava bene. Ma se dalla speranza per il « mondo » si passa a quella per le singole anime, allora bisogna parlare anche di « eternità ». Ad Ostia, sulla riva del mare, in un famoso colloquio, Agostino e Monica, « dimentichi del passato e volti all'avvenire, si domandavano cosa sarebbe stata mai la vita eterna »(7). Questa è speranza cristiana; questa intendeva papa Giovanni e questa intendiamo noi, quando, con il catechismo, preghiamo: « Mio Dio, spero dalla bontà vostra... la vita eterna e le grazie necessarie per meritarla con le buone opere, che io debbo e voglio fare. Mio Dio, che io non resti confuso in eterno ».

Ai partecipanti alla riunione del Comitato europeo mondiale delle religioni per la pace

Nous adressons un salut cordial aux membres du Comité européen de la Conférence mondiale des Religions pour la Paix, réunis ces jours-ci à Rome.

Nous vous remercions de votre visite, car Nous apprécions votre action au service de la paix du monde grâce à la prière, aux efforts d'éducation à la paix, à la réflexion sur les principes fondamentaux qui doivent déterminer les rapports entre les hommes. Pour que la paix, en effet, se réalise, sa nécessité doit être profondément ressentie par la conscience, car elle nait d'une conception fondamentalement spirituelle de l'humanité. Cet aspect religieux pousse non seulement au pardon et à la réconciliation, mais aussi à l'engagement pour favoriser l'amitié et la collaboration entre les individus et les peuples.

Que Dieu qui aime tous les hommes et qui a voulu être le Père de tous, vous aide dans cette oeuvre!

Ad un pellegrinaggio nazionale dal Kenya

It is a special joy to have the pilgrimage from Kenya, sponsored by the Consolata Fathers. My prayerful greetings go back with you to all the members of your families, to all your loved ones. God bless Kenya!


(1) DANTE ALIGHIERI, La Divina Commedia, « Paradiso », XXIV, XXV, XXVI.

(2) Rom. 4, 18.

(3) Gaudium et Spes, 34; cfr. ibid. 39 et 57; cfr. etiam Messaggio al Mondo dei Padri Conciliari, 20 ottobre 1962.

(4) Cfr. S. THOMAE Summa Theologiae, II-IIae, q. 168, a. 2.

(5) Cfr.1 Cor. 7, 31.

(6) Matth. 6, 33.

(7) S. AUGUSTINI Confessiones, IX, 10.