I sacerdoti di Monte Sole Bologna
[…] Il primo a mettere piede quassù fu don Casagrande, il 5 agosto 1938. Con lui si apre il capitolo dei pastori martiri di Monte Sole. Meteore della carità. Il loro sangue era nel conto della prima Messa.
[…] Sono sacerdoti secolari ordinati, come si dice, titulo paupertatis seu servitío dioecesis: volgarmente il «diritto della sporta». Appena freschi del crisma, e quindi senza lo spessore di esperienza di cui potevano disporre i colleghi anziani maturati nel periodo antecedente la dittatura fascista, si trovarono in mezzo a tensioni oltre ogni limite di sopportabilità.
Erano andati sul campo di lavoro come bastoni della vecchiaia; ma ben presto, ancor prima del congedo dei vecchi parroci, diventarono loro i protagonisti.
[…] Don Ferdinando, don Giovanni e don Ubaldo, ultimo aggregato alla giovane schiera, seppero unire lo spirito di profezia a un'insolita concretezza. E fu il frutto della volontà e della grazia.
Fra tutte le aree di questa topografia dell'Ecclesia patiens, Monte Sole rappresenta il punto culminante; e i nostri tre giovani preti si comportano in modo esemplare, come teleguidati dallo Spirito; ciascuno con un segno specifico e una sua luce. Don Giovanni fu l'angelo nel senso biblico, pronto per ogni emergenza, sempre e dovunque; don Ubaldo la sentinella di Dio sulla cima del monte; don Ferdinando un amico e un fratello per tutti.
(Brano tratto da "Le querce di Monte Sole" di mons. Luciano Gherardi)
Il Servo di Dio don Ferdinando CASAGRANDE
Nato il 5 novembre 1914 a Castelfranco Emilia da Augusto e Ghermandi Anna, ordinato sacerdote nella chiesa di S. Martino di città il 16 luglio 1938 da S. Em.za il Cardinale Nasalli Rocca, cappellano a S. Martino di Caprara, poi parroco a Gugliara dal maggio 1944. Ucciso a S. Martino di Caprara il 9 ottobre 1944.
Il buon vecchio a stento riesce a frenare il tremito che dall'ottobre 1944 ha invaso le sue membra ed è andato aumentando con il crescere della sua ansia dolorosa. Ci guarda coi suoi occhi un po’ appannati, ma ancor vividi di luce intelligente. Una austerità misteriosa trapela dal suo volto scarnito.
— Volete che vi parli del mio don Ferdinando? — incomincia incerto. — Beh! vi dirò quel che so, e non potrà che fare un po’ di bene anche a me parlare di lui. Pensate! Ci è stato tolto a trentanni appena, da solo cinque mesi parroco a Gugliara. Eravamo tutti assieme lassù: mia moglie, i miei cinque figli! e son rimasto solo! Si vede che il Signore voleva così! — Sospira profondo, e ripiglia dopo una breve pausa in cui lo contempliamo in silenzio.
— Siamo al 22 settembre del '44. Di tanto in tanto si fa più aspra la lotta fra «quelli» nascosti nella montagna e le truppe tedesche. In una scaramuccia resta colpito mortalmente un soldato delle S.S.: ed ecco la rappresaglia. Tutte le case della borgata «la Quercia». ove è avvenuto lo scontro, sono interamente distrutte dal fuoco e s'inizia una caccia spietata alla gente del paese.
Il mio don Ferdinando, che si trovava proprio nel rifugio della galleria «La Quercia» fugge assieme alla sorella Gabriella, e viene a nascondersi nella casa «Calvane» ove eravamo già raccolti noi tutti. Laggiù alle «Quercie» dove era la nostra casa, non era più possibile la vita, e speravamo un po’ di pace lassù alle «Calvane» nella casa del nostro contadino.
Alle ore sei del 29 settembre siamo avvertiti da un contadino che ormai stanno per giungere i tedeschi. Dove fuggire? Ovunque c'era in agguato la morte: i tedeschi ci braccavano come selvaggina, gli alleati, ormai a pochi chilometri, ci tempestavano di proiettili.
Decidiamo di lasciare le donne, ed io, con don Ferdinando e l'altro figlio Giannino ci andiamo a nascondere in un piccolo rifugio dietro il cimitero di S. Martino di Caprara. Il rifugio ci parve sicuro: scavato nel tufo, su uno strapiombo con l'ingresso nascosto dal folto degli alberi, a cui si accedeva per un sentiero da capre, attraverso la roccia dello strapiombo. Nemmeno i tedeschi lo avrebbero saputo individuare.
Decidemmo di andar a prendere le nostre donne e così dal 1° ottobre ci ritrovammo ancora uniti e qui rimanemmo rintanati fino al nove ottobre.
Furono quelle, giornate di angoscia incredibile: sopra di noi stava in vedetta un soldato tedesco, e solo di notte, con mille precauzioni potevamo fare qualche sortita per cercare un po’ di alimenti. La sera dello stesso 1 ottobre, giunsero fino a noi gli spari dei tedeschi contro i disgraziati che si erano rifugiati nella chiesa di S. Martino, e anche l'acre odore nauseabondo dei loro cadaveri dati al fuoco.
Asseragliati come belve sentivamo, giorno e notte la terra sobbalzare sotto l'incessante martellamento dell'artiglieria alleata. Nessuno osava portarsi allo scoperto! si correva il rischio di lasciarci la pelle. Per tutti quei giorni, eterni e sfibranti, ci nutrimmo di castagne crude e di pere acerbe (bottino di una sortita notturna), una al mattino, una a mezzogiorno, una alla sera.
Vedevo i miei cari consumarsi a poco a poco, i volti sbiancati farsi più affilati, e anche il mio don Ferdinando, che era sempre stato magro, come vedete anche da quella fotografia (e ce l'addita appesa al muro), si era ridotto all'osso, i suoi occhi si erano affondati ancor più nell'orbita. Pure era sempre lui che ci teneva alta la fiamma della rassegnazione e della speranza, e fugava col suo esempio di fiducia in Dio la tristezza cupa che ci attanagliava di ora in ora sempre più.
Al nono giorno di tomba però don Ferdinando ha voluto salire al Comando tedesco, che aveva sede a S. Martino onde ottenere il permesso di uscire e di attraversare quelle zone proibite, perchè capiva che ormai non potevamo più resistere agli stimoli della fame. Sua sorella, la Giulia, che era maestra all'asilo della «Gardelletta», ha voluto accompagnarlo in quella missione e dividerne i pericoli. Li accompagnammo fino all'ingresso del rifugio, li abbracciammo, invocando l'aiuto di Dio per loro, li osservammo buttarsi fuori veloci e scomparire. Un cupo presagio ci rimase nel cuore, mentre, seduti in silenzio, ascoltavamo il fischio dei proiettili. Non li abbiamo più visti!... —
Il vecchio china il capo e tace a lungo per ricomporre la sua voce rotta da un singhiozzo. Attendiamo in religioso silenzio.
— Solo passati parecchi giorni ho potuto sapere la loro triste fine; e i particolari ci saranno forse per sempre sconosciuti.
Pare che don Ferdinando riuscisse a raggiungere il Comando tedesco e farsi rilasciale il permesso di transito. Ma lui e la Giulia avevano appena voltato le spalle per ritornare che quelle belve li colpirono a tradimento con scariche di mitraglia. Il mio don Fernando cadde sul sentiero con un proiettile nella nuca; la buona Giulia con cinque pallottole di mitraglia al petto. Sono morti abbracciati stretti, e dai tedeschi buttati così nel precipizio che fiancheggia il sentiero.
Col lento passare dei giorni compresi che ormai era vana la tormentosa attesa dei miei cari.
Ma non era finita l'ascesa al mio doloroso calvario!
L'11 ottobre, giornata piovosa, alle 11,30 precise, un proiettile che scoppia nei pressi del rifugio colpisce con una scheggia l'altra mia figlia, la Gabriella, uscita per un istante, e la butta a terra immersa nel suo sangue. Ne copriamo il cadavere con un panno e ci buttiamo giù verso il Setta in cerca di un luogo più sicuro.
Giunti al fondo de «La Conca» ci fermiamo nascosti nel folto del bosco, in attesa dell'ombra della notte per passare il fronte di guerra; ma appena calate le tenebre, poco dopo le 18, mentre stiamo rannicchiati sotto i bagliori degli scoppi che illuminano i tronchi degli alberi, una cannonata ci colpisce in pieno: mia moglie e gli altri due figli, Lina e Giannino, sono colpiti in pieno. Io ho il piede destro ferito e rimango solo vivo, tra il tormento della mia carne offesa, tra il sangue della moglie e di Giannino che più non possono rispondere alle mie invocazioni, tra gli urli strazianti della Lina che ha le gambe stroncate e chiede disperatamente aiuto... e davvero non so come il cuore non mi sia scoppiato in tanto strazio! —
Due lacrime rigano il suo volto patito e si perdono fra le rughe. Un singulto gli stronca ancora la parola. Pure si fa coraggio e prosegue la sua incredibile avventura.
— Ormai mi sentivo solo al mondo. Eppure quanto è grande nell'uomo l'attaccamento alla vita! Non volevo morire e speravo pazzamente che qualcuno dei miei si potesse ancora salvare: almeno la mia Lina!
Mi alzo per andare in cerca di soccorso. Barcollo, ogni passo è uno strazio: pure resisto, stringendo i denti e appoggiandomi al bastone, e vado solo solo!... vado cercando, invocando ad ogni passo i miei sei cari, disperatamente certo ormai del loro tragico destino!... vado, arrancando, verso posizioni ove speravo trovare aiuto!
A Rivabella c'erano dei civili, lo sapevo, e volevo giungere fin là. Invece, prima del «Beccadello» mi imbatto in una pattuglia di tedeschi che mi fanno prigioniero. Perquisito, derubato di tutto, perfino di una boccetta di aceto che mi serviva per medicare le ferite, mi trattengono con loro. Oh, la notte passata con essi, con la gamba ferita stesa su di una sedia, fra gli spasimi della carne e il martellamento dei ricordi che mi torturavano il cervello!
Al mattino del 12 ottobre, aiutato da una ragazza che era a servizio dai tedeschi, riesco a portarmi fino ad una stalla abbandonata ove buoni amici, che a stento mi riconoscono (ero calato venti chili!) mi hanno assistito e curato; ma non ci fu possibile portare aiuto alla mia cara Lina, e sempre io avevo davanti agli occhi la mia piccola, che illanguidiva a poco a poco, nella perdita del sangue.
Finalmente il 25 ottobre i tedeschi se ne andarono sconfitti e il 27 arrivarono gli alleati.
Io già mi sentivo in forze, la ferita era rimarginata bene ed avevo in cuore una smania che non mi dava riposo: «Bisogna che io vada, mi dicevo, che corra a seppellire la mia famiglia!».
Da Rivabella guardavo giù nella vallata, ma non riuscivo più a vedere nulla che mi orizzontasse: tutte le cose erano ridotte un cumulo di macerie; anche la Chiesa e il campanile di S. Martino di Caprara non apparivano più nel fondo della vallata: tutto il paese era raso al suolo.
Tuttavia sempre lo stesso pungolo mi tormentava il cuore e non mi dava pace: «Voglio vedere i miei cari. Bisogna che vada!».
E un giorno sono andato, appoggiato al mio bastone, con passo sempre più affrettato.
Chiedo, supplico informazioni agli abitanti del luogo. Tre miei amici mi aiutano e riusciamo a rintracciare le salme benedette. Le componiamo sotto la terra ancora sconvolta, con mani tremanti, bagnate di lacrime e di sangue.
Gli Americani poi ci hanno mandato tutti noi che eravamo a Rivabella senza casa, prima a Firenze, poi, in diverse tappe, fino a Roma, a «Cinecittà», ove anch'io sono stato alloggiato per sei mesi. —
Il buon vecchio tace ancora. Nel suo volto non c'è più l'abbattimento che vi aveva prodotto l'emozione del racconto: ora è sereno della serenità che bacia la fronte dei giusti, anche di quelli che sono stati sottoposti alle prove più dure. Con commozione gli stringiamo la mano.
Padre misericordioso, consolazione e ricompensa di chi confida in te, tu ami rivelare la tua grandezza negli umili, la tua potenza nei deboli, e nel mistero adorabile della tua provvidenza hai sostenuto don Ferdinando Casagrande nei giorni più oscuri del suo mistero sacerdotale fino all'olocausto della sua vita. Donaci di essere sempre operatori di pace e di giustizia, animati dalla fede viva che affronta e supera il dolore e le difficoltà nell'unione feconda con la passione gloriosa del Cristo Signore. Egli vive e regna nei secoli dei secoli. |
Dopo essere stato di aiuto al parroco don Goffredo Minelli, decise di farsi prete. Entrò nel seminario di Borgo Capanne nell'ottobre 1931. Seguì poi il corso degli studi a Bologna nel seminario arcivescovile di Villa Revedin e nel seminario regionale, partecipando con intensità all'esperienza formativa offertagli. Subito dopo l'ordinazione a diacono, nel 1941, venne inviato a Sperticano di Marzabotto in aiuto dell'anziano parroco don Giovanni Roda. Per un anno, sino all'ordinazione sacerdotale, fece la spola, in quegli anni inconsueta, tra il seminario e la parrocchia. Ordinato sacerdote il 28 giugno 1942, venne immediatamente nominato vicario coaudiatore a Sperticano.
Morto don Roda, il 20 luglio 1942 venne nominato economo spirituale, e il 21 agosto parroco di Sperticano. Numerose testimonianze concordano nel sottolineare che il giovane parroco trasformò la canonica in un «cantiere della carità», caratterizzato dalle più diverse iniziative pastorali e sociali, ma soprattutto dalla costante attenzione del sacerdote per i suoi parrocchiani, tutti.
Affrontò il periodo dell'occupazione tedesca e del trasferimento del conflitto sul suolo italiano, cogliendo con immediata consapevolezza la funzione che avrebbe dovuto svolgere come sacerdote cattolico.
Grazie ad una «resistenza incredibile», «correva dappertutto», «per cercare di liberare la gente dalle difficoltà, di risolvere i loro problemi. Non aveva paura. Era un uomo di gran fede e sempre coerente». Nei giorni dell'eccidio di Monte Sole, nei quali si perse il significato della vita e della morte, la testimonianza di amore di don Fornasini non ebbe sosta.
La sua morte è «ancora immersa nel mistero»: non se ne conosce la ragione specifica, l'autore, la modalità. In quei giorni, subito dopo, poi sempre, sino ad oggi, don Fornasini è considerato l'angelo di Marzabotto. «Prima della sua eroica morte avvenuta per un motivo direi soprannaturale, aveva già un corredo di virtù, di opere sante, di azioni generose che possono testimoniare della sua santità. Altri sono stati in qualche modo coinvolti dalle circostanze. Lui, no... Io sapevo quello che la gente diceva di lui; e posso dire che è la figura più bella, più caratteristica: quell'uomo merita la canonizzazione» (padre Lino Cattoi). Ritenuto «commovente esempio di carità e di fortezza eroiche» (mons. Danio Bolognini, 1946), alla sua memoria venne decretata nel 1950 la Medaglia d'oro al Valor Militare alla memoria, decreto Presidente della Repubblica del 19.05.1950, consegnata alla madre in data 2.06.1951 a Bologna, con la seguente motivazione:
"Nella sua parrocchia di Sperticano, dove gli uomini validi tutti combattevano sui monti per la libertà della Patria, fu luminoso esempio di cristiana carità. Pastore di vecchi, di madri, di spose, di bambini innocenti, più volte fece loro scudo della propria persona contro efferati massacri condotti dalle S.S. Germaniche, molte vite sottraendo all'eccidio e tutti incoraggiando, combattenti e famiglie, ad eroica resistenza. Arrestato e miracolosamente sfuggito a morte, subito riprese arditamente il suo posto di pastore e di soldato, prima tra le rovine e le stragi della sua Sperticano distrutta, poi a S. Martino di Caprara dove, pure, si era abbattuta la furia del nemico. Voce della Fede e della Patria, osava rinfacciare fieramente al tedesco l'inumana strage di tanti deboli ed innocenti richiamando anche su di se la barbarie dell'invasore e venendo a sua volta abbattuto, lui Pastore, sopra il gregge che, con estremo coraggio, sempre aveva protetto e guidato con la pietà e con l' esempio".
S. Martino di Caprara, 13 ottobre 1944)
La parrocchia di Sperticano venne elevata ad arcipretale in seguito all'olocausto di don Fornasini, come testimonia una lapide all'interno della chiesa.
Il 19 agosto 1998 la Congregazione delle Cause dei Santi ha dato il nulla osta per l'inchiesta diocesana sulla vita e le virtù del servo di Dio, iniziata poi il 18 ottobre dello stesso anno.
(Alessandro Albertazzi)
Ti ringraziamo, Padre onnipotente, Dio fedele: nella vita e nella morte del sacerdote Giovanni Fornasini hai donato alla Chiesa di Bologna un segno ammirevole della presenza amorosa e indefettibile del Buon Pastore. Fà che anche oggi i giovani sappiano gustare profondamente il fascino sublime del Signore Gesù per corrispondere con entusiasmo al tuo disegno di salvezza. Il tuo Spirito di fortezza e di sapienza riaccenda in noi la passione per la verità e ci sostenga nella via della carità, per il vero bene di ogni fratello. Per Cristo nostro Signore. |